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Londra e vedersi dal di fuori

di Mario Bianco

viso3.jpgMe ne andai a Londra quasi di brutto, scappai di corsa, vent’anni fa, perché non ne potevo più di famiglia, di esigenze paterne, di protezioni e sgonfiamenti materni, di cretinerie sororali e della mia facoltà. Non ne potevo più anche di me stesso, a pensarci bene, perché dentro mi si aggiravano delle cose oscure che allora non potevo né vedere né definire, preferivo ignorare, ma le ombre viscerali pungevano e chiedevano voce, volevano essere partorite ed urlare alla luce del giorno.
Scappai a Londra con Elio, che appena iniziava l’estate non vedeva l’ora di prendersi quel treno e poi quel traghetto e finire là: London. E non soltanto perché a Londra aveva due o tre appoggi femminili ma anche perché lavorare in un grande albergo gli piaceva: faceva abbastanza soldi, durante l’estate, e pure questo gli gustava.

A dir la verità io credo che provasse proprio soddisfazione nell’indossare quella sua specie di marsinetta nera con farfallino e poi star là tutto duro, impalato col mento all’aria e col suo pizzo curato, l’occhiale brillante in attesa presso il tavolo dei formaggi in qualità di aiuto cameriere. Ci finii pure io in quell’enorme albergo, l’Inter Continental, grazie ad Elio, come aiuto aiuto cameriere: farà ridere, ma è così. Io portavo, in giacchino bianco, dalla cucina e dalla cantina ai tavoli di servizio, soltanto cose confezionate quali formaggi, vini, pane, salse, bottiglini vari, poi tutto spreparavo, nettavo, piegavo e via, a pranzo e a cena: non faccio per dire, sala da pranzo per 1200 persone. Non vi dico camerieri, capo camerieri e maitres terribili, inflessibili, roba da terrore, da camminare gobbi, ma paga discreta e Londra fuori, là da Hamilton Place in poi.
Elio mio ex compagno di scuola delle medie, mio maestro e mia guida nella vita fino ad allora, mi portò pure dall’ottimo signor A.G.Balls, in 119 Westbourne Grove, un pensionato delle ferrovie che affittava due alloggetti di sua proprietà. Era tutto perfetto. Ero a Londra perfettamente spaesato e rintronato, ma dopo poche ore già con lavoro ed alloggio; del tutto rincretinito e sorridente mi ero inserito nel quartiere di Bayswater, popolato da gente di tutti i colori; non sapevo più se avevo problemi o no, se c’era mio padre e mia madre e la Facoltà di Fisica. Fumavo guardando ogni tre secondi la sigaretta, una Navy Cut, di quelle col salvagente sulla scatola e tossivo terribilmente per il tabacco Virginia, ero ebete e felice, bevevo una Guinness e ridevo, guardavo un indiano col turbante e ridacchiavo, un giamaicano con le treccioline e strabuzzavo gli occhi, roba da chiodi.

La prima notte non riuscii a dormire per nulla. Troppa eccitazione e luci e gente e Underground e sigarette. Elio pareva una spoletta volante tra un telefono pubblico e un pub, sempre in moto, occhi roteanti e lingua saettante, in un dinamismo spaventoso mai visto.
Dopo tre giorni di lavoro e di insonnia ero completamente cotto, mentre Elio ancora imperversava la notte cacciando come un satiro le sue ninfe obliate per qualche mese. Io gli proposi una tregua personale, in cui lui avrebbe fatto tutti i cazzi suoi ma fuori del nostro quartierino, ed io avrei dormito scopo recupero ore di sonno, ed avrei girato un po’ per conto mio.
Dormii con ausilio erboristico; non sentii per fortuna Elio la notte, per via di due tappi di cera auricolari. Andai poi per curiosità e per comprarmi della pasta in un vicinissimo supermercato, sempre in Westbourne Grove: lì davanti a me alla cassa ci fu Mira.

La cassiera, un indiana, stava facendo dei pasticci di conteggio e Mira davanti a me attendeva. Io vedevo una coda di capelli neri corvini, un frammento di collo bruno, tornito e un paio di jeans che foderavano un sedere di tutto rispetto e sentivo parlare, berciare, non solo in inglese. Curiosai, sporsi le testa e vidi due occhi di pietra nera sfavillante ed un naso che toccava quasi il mio: subito ci dicemmo un “sorry”, ma Mira con una smorfia altera.
Aveva comprato una montagna di roba, la poveretta, portava con evidente fatica quattro borsoni di plastica ed io la vidi precedermi di qualche passo nella stessa mia direzione. Mi venne un’incontenibile voglia ancora di parlarle. Mi affrettai, la raggiunsi con il mio pacco, mi avvicinai al suo fianco, poi la precedetti di un passo e mi offrii di aiutarla visto che andavamo nella stessa direzione. Quella donna posò tutti i suoi pesi, si mise le mani sui fianchi, poi mi squadrò in un modo severo ed aggiunse a questo parole che avevano del perentorio.
Mi disse, per quello che capii, se sapevo quel che facevo, se sapevo chi era lei, e se sapevo chi ero io e dove mi trovavo, e se mi ero mai visto dal di fuori. Poi, sollevata la sua pesante spesa, girò verso destra prima della chiesa della Christian Fellowship, proprio di fronte alla verde casa di Balls.
Prese a piovere sulla mia testa, su questa mia capa tosta, come dice mio zio Aurelio; mi venne da piangere, mi prese nostalgia fortissima di ritorno in una cuccia, mi sentii quelle parole come pugni inesplicabili alla bocca dello stomaco. Ma perché? mi domandavo, perché? Mi tormentava il senso ed il tono del brevissimo discorso della bella sconosciuta indiana. Cosa diavolo voleva dire se mi ero mai visto dal di fuori? Facevo schifo? Non ero mai stato brutto, perlamiseria! E lei, si vedeva lei!?. Mai ero stato trattato così da una donna, per di più era la prima volta che abbordavo una femmina per la strada. Ero piuttosto infuriato, ma soprattutto sorpreso, stupito. Mi ubriacai deliberatamente con un pessimo rhum e stetti male e peggio lavorai: per poco non rovescio un tavolino, rompo due bottiglie e mi sbattono via dall’Inter Continental.

Elio mi coglionò per alcuni giorni, poi mi passò e guarii; ma mi preparai, comprai un fiore secco giallo lì vicino, in Portobello Road, feci la posta a Mira e la trovai.
Un pomeriggio, naturalmente, risalii la via sul fianco della chiesa e la vidi seduta su di un muretto che parlava, scherzava con due bambini, un maschio e una femmina, egualmente indiani, che giocavano su di un piccolo prato antistante. Mi avvicinai risoluto e le tesi il fiore giallo, lei tese la mano automaticamente; le feci un inchino e le voltai le spalle, dopo tre secondi. Feci in tempo a vedere con la coda dell’occhio, prima di voltarmi, che i suoi straordinari occhi sgranati sorridevano. E mi rimasero dentro e ci sono ancora.
Come lei ed il senso delle sue parole, come i quadri di Turner che mi concessi alla Tate Gallery, da solo senza rompimenti, per ore. Mi domandai come fosse Turner dal di dentro e se lui fosse riuscito a vedersi dal di fuori; pensai che probabilmente il suo di dentro si esternava nei suoi dipinti: così lui riusciva a vedersi, anzi a contemplarsi.
Io non riuscivo ancora a guardarmi, avevo molte zone d’ombra che non volevo visitare né troppo conoscere, e nemmeno riuscivo a trovare il modo di schiarire quel buio. Andavo a tentoni.
Andavo al supermercato indiano quasi tutti i giorni, anche per comprare una robetta, pur di incontrare i begli occhi e pure il mistero di Mira. Una volta la vidi col sahri, forse andava ad una festa, era splendida, era d’oro e di fuoco e volava come una magica fenice per Westbourne Grove; perfino il signor Wallaby, vecchio negoziante di cornici affacciato al piano terra della nostra casa, fece delle palle d’occhi così.
Tenevo sempre un fiore artificiale giallo o rosso in una tasca interna, pronto all’uso, scopo omaggio a Mira. Dopo tre settimane riuscii a sedermi vicino a lei sul muretto dei bambini. Non troppo vicino, mi fece segno. I bimbi non erano suoi, erano figli di suo fratello, e per rendermi subito edotto della situazione mi dichiarò che era promessa sposa ad un suo cugino, che tra le famiglie indiane si usava così e lei era contraria, ma non poteva permettersi di fare diversamente.
Com’era Mira dal di dentro? La vedevo così bella e fiera e pensavo che lo fosse anche internamente, ma, forse, non era così se doveva sottostare ai voleri di una famiglia e a rigide usanze indiane.
Era nata in Londra, proprio nel quartiere di Bayswater, aveva amici inglesi, giamaicani, cinesi, nigeriani, eppure non era inglese se non di cittadinanza ed educazione. Un vincolo possente, forte, le creava degli obblighi.
Cercai di scorgere nei suoi occhi le tracce di una schiavitù, non le feci domanda alcuna e cominciai a stento a parlare del mio, di Torino, dell’Italia, della famiglia. Mira assentiva, più che altro, mi lanciava degli sguardi a volte comprensivi, ma in fondo tutto ciò pareva non interessarla.
Poi, giorni dopo, sempre sul muretto, a debita distanza, le chiesi che significasse vedersi dal di fuori, che cosa volesse dire quella frase per lei, e se ero forse brutto o antipatico.
Lei rise, e anche tanto; affermò col suo tono molto adulto, assertivo, che le ero sembrato quasi un povero bambino grande, balbettante, insicuro, spettinato, e non si vergognava di aver pensato ciò. Abbassò la testa con una smorfia e mormorò:
“Tanto che importanza ha… qui è tutto giocato…”
Mi piovvero sul capo tristezza, anche spavento nel sentire una ventenne pronunciare parole simili, cercai di pronunciare qualche parola adeguata ma lei chiamò i nipoti, si alzò e se ne andò senza salutarmi.
Tornai con i fiori al muretto, giorno dopo giorno: non la rividi più. Lasciai passare due settimane, poi chiesi alla cassiera del market indiano, che ormai era quasi mia amica, dove fosse sparita Mira; questa si mise le mani in testa e prese a piangere, poi estrasse dal sottobanco una pagina di giornale, mi mostrò una cronaca di qualche giorno prima, una foto; Mira di fronte con gli occhi sbarrati, sembrava persino brutta, una terribile foto segnaletica. Mira morta, Mira uccisa dal cognato Girish Kumar per gelosia: non poteva sopportare che sposasse un suo cugino.

Mi fu d’aiuto e sostegno Elio, in quel momento, mi dette una mano, mi stette vicino, fu stranamente comprensivo.
Non sembrava vero, mi ero innamorato sul serio, sì, proprio, lo sentivo, e tutto si disfaceva in morte precoce. Era un nulla che mai era stato qualcosa, forte dentro come senso, però, forse miraggio, e doveva passare così come niente fosse: dovevo farmela passare presto quella cosa che mi stritolava il cuore.
Dentro, ero dentro, completamente uno con il dolore; ma dal di fuori, come mi vedevo?
Ancora di più bimbo illuso, giocherellone e poi ragazzino nero di botte, che è caduto a terra, che è stato ferito, lacerato da un mostro che si chiama il caso, la vita, un camion gli è passato sopra e lui si trascina al bordo della strada. Così mi vedevo, così sentivo, così appresi a guardarmi dal di fuori, con una terribile botta. Fu un lampo, un’immagine, come un colpo di lancia tra gli occhi.
Per curarmi ritornai a vedere Turner: me lo aveva consigliato mio zio Aurelio, il pittore. Stavo là due ore per settimana, anche di più. I suoi cieli di materia scabra e luminosa e nebbiosa e violenta mi scuotevano, ci entravo dentro, mi smussavano, limavano le punte del travaglio, così sentivo. Annegarmi in quell’impasto era pura anestesia, un distillare un liquore sottile che mi curava. Mi vestii di scuro, tutto di blu, comprai della roba usata così, sempre in Portobello, era in sintonia col mio cuore battuto. Con quel colore mi sentivo a posto, vedendomi dal di fuori.
Stetti tre mesi in Inghilterra, tre mesi solo in Londra, nessun altro posto; entrai persino nella chiesa della Christian Fellowship, forse a pregare, forse a sentire l’atmosfera di quella sorta di fortezza ferrigna a bugne rustiche posta di fronte a casa mia: un‘atmosfera tranquilla, piccole luci, alcune buone statue lignee, silenzio, mi ascoltavo, mi curavo.

Torno quasi tutti gli anni a Londra con moglie e figli, telefono al sig.Balls, il quale è molto anziano e lui ci riserva un alloggio: torno sempre alla casa verde.
Stiamo tutti là allo stretto benissimo; compro alimenti al supermercato indiano vicino a Queensway, mi do da fare nel cucinotto, preparo un succulento curry, porto poi a giocare i ragazzini nel prato vicino al muretto, dietro la chiesa della Christian Fellowship, guardo l’erba, odo le grida dei miei figli e ricordo, sento l’inconsapevole dono di Mira.

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