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Labilità

Intervista a Domenico Starnone di Linnio Accorroni

starnonelab.jpgIn una pagina del suo diario, Flaubert , ad indicare la forza seduttiva della bêtise, racconta questo episodio: di notte, in un battello,è irresistibilmente ammaliato dalla conversazione futile e sciocca di due cacciatori: quelle chiacchiere, invece di respingerlo, lo attraggono, tanto da affiancarsi a loro, “in virtù di quell’istinto depravato che ci fa talvolta mettere il naso sotto le coperte per sentire l’odore di un peto”.
Qualcosa di simile è avvenuto in occasione dell’uscita di Labilità, l’ultimo libro di Domenico Starnone: mossi dallo stesso ‘istinto depravato’ di cui parla Flaubert, molti hanno ‘voluttosamente aspirato’ l’odore massmediatico, di chiara derivazione gossipara, scaturito dalla presunta sovrapposizione identitaria tra Elena Ferrante e Domenico Starnone; il subitaneo compattarsi di ranghi, soi- disant, intellettuali in questa pseudo querelle, con toni queruli e voyeuristici da talkshow televisivo di metà pomeriggio, appare illuminante, puntuale paradigma di quella ‘inerzia della critica’ di cui si è discusso in questi giorni, anche su Nazione indiana.

Purtroppo, però, anche in questa vicenda, come in altre consimili, il chiacchiericcio, paraculesco più che paraletterario, indice di un comatoso, più che avvilente, ‘stato della critica’, è servito per coprire il libro di Starnone con una massiccia coltre di pettegolezzi, che hanno precluso ogni seria, meditata discussione sulla complessa caratura di questo romanzo .Eppure Starnone, quasi profeticamente, nelle prime pagine del romanzo, esplicita nel romanzo, a chiare lettere, una specie di minacciosa, preliminare “Avvertenza per il recensore”, che avrebbe dovuto rendere quantomeno più cautelosa e meditata la spicciola, frettolosa rendicontazione critica:

“Cercai di interessarmi ai discorsi di entrambi, ma mi sembrò che parlassero di un romanzo diverso da quello che avevo letto io. Ricorrevano soltanto a proposizioni eccessive. Citavano frasi scarne che poi chiosavano a lungo inventandosene la ricchezza di senso. Parlavano della vicenda come se fosse la sintesi dei tempi confusi in cui viviamo e non una storia raccontata con bravura”.

Righe affilate e pericolose come quel rasoio, che è feticcio mitopoietico del romanzo, il quale appare e scompare con la stessa alterna implausibilità con la quale, nelle fiabe, certi oggetti magici si palesano e si perdono; feticcio che affascina e turba, per la sua natura plurima, comunque straniante: il rasoio, nel libro, è oggetto che rade barba e peli, ma anche arma d’offesa e di difesa, così come anche lo strumento che, nei manoscritti pergamenacei, consentiva la raschiatura e la successiva riscrittura del testo. Feticcio di cui viene scandito l’etimo, sonora ed urticante esemplificazione delle sue svariate, imprevedibili utilizzazioni: “Rasùro, rasòre, rasor, raxuoro, rasùlo”.

L’io-narrante, nel romanzo, assume i panni logori e gualciti di uno scrittore alle prese con una sorta di impotentia scribendi, che è solo una spia di una più vasta incapacità di correlazionarsi fattivamente al mondo, alle cose, alle persone. Una specie di Lord Chandos della nostra epoca, la cui cognizione del proprio dolore è solo esile riflesso del male che possiede il mondo, un male che, pur mostrato per schegge e lacerti (l’omicidio Biagi, gli emigranti accoltellati dagli scafisti, la guerra ‘umanitaria’ e le bombe sui civili…) appare ontologico ed irredimibile. Alla ricerca, squilibrata e morbosa, delle origini di questa in-appartenenza, il protagonista tenta un topos della letteratura classica, quel viaggio verso il Regno dei morti, la Nekuia,qui stravolta parodicamente, perché sono le anime dei morti a cercare i vivi: è l’“Antesthèria…in cui le anime dei defunti facevano ritorno sulla terra, erano accolte con affetto nelle case dei vivi”.

Romanzo di S-formazione e di scarnificazione, anche nell’accezione più letterale e dolorosa del termine (in questo romanzo ci si rade e ci si taglia, compulsivamente) per giungere a quella “scena primaria” generatrice del Lutto che permea di radicale insensatezza la sua esistenza (e quella del mondo): l’io-narrante- che, bambino, dissimula una ‘qualità’ che non possiede, l’agognatissima introvabile figurina di Boniperti, riflesso, in una piazzetta napoletana, di una celeberrima‘scena primaria’ che è all’origine della creazione letteraria tout court : “Nabokov dice che la letteratura è nata il giorno che un bambino, gridando al lupo al lupo, uscì di corsa dalla valle di Neandertal e dietro a lui non c’era nessun lupo”

.Anche l’idea e la pratica della scrittura, da cui viene abrasa la postulata potenzialità terapeutica, la sua arrogante, presuntiva vocazione taumaturgica, diventa un calvario a cui l’io narrante si sottopone: essere scrittore “ per fare che poi: annotare, sottolineare, battere sui tasti”. Ecco dunque cosa significa, quindi, davvero “Labilità” , quando si restituisce questa parola al suo humus primigenio, dialettale-napoletano:“ stunàto, vocabolo della mazzata in testa che ti toglie l’orientamento, del colpo di sonno che ti manda nell’oscurità del bosco”

Intervista

Leggendo questo libro, mi veniva in mente l’ amara ironia contenuta negli appunti a margine di un copista medievale:‘scrivo con tre dita, ma soffro con tutto il corpo”.

DOMENICO STARNONE: Flannery O’ Connor diceva che il mestiere di scrivere è una bella sfacchinata. Non aveva torto. L’immobilità al tavolo, davanti al computer, è pura apparenza. Non sono solo le dita che battono sui tasti ad affaticarsi, ma è tutto l’organismo. Si provano i sentimenti più diversi. Si gode e si soffre, si ride e si piange. Si gesticola, si pronunciano parole a mezza bocca. Si suda molto, come se si trascinasse un peso su per una salita. Si vedono paesaggi, persone, animali, nell’insieme e in dettaglio. Si sentono voci, come se si fosse Giovanna d’Arco. ‘Labilità’ è anche la storia di questa ‘sfacchinata’ dello scrivere, che alla fin fine è come le escursioni in montagna. Si fatica molto, ma con piacere, ossigenandosi, diventando euforici. Non credo alla pura e semplice sofferenza dello scrittore. Chi scrive gode anche quando soffre.

Si può dire che questo libro, anche se apparentemente fissato in un ‘fermoimmagine’ egolatrico, è invece il suo più politico e ‘ferocemente’ ideologico, meno conciliato e più ‘disperato’?

DOMENICO STARNONE: Non mi è mai piaciuto essere ‘ferocemente ideologico’ e spero che non mi sia successo nemmeno in questo caso. Mi consola invece che lei abbia visto in ‘Labilità’ non soltanto le vicende di uno scrittore. Nelle mie intenzioni la specificità del mestiere di scrivere doveva essere importante, ma non esaurire il libro. Desideravo raccontare una specie di piacere-guasto che riguarda tutti, oggi: il piacere-guasto della fruizione e produzione di finzioni. Volevo che il protagonista del libro avesse i tratti dell’uomo chiuso nella gabbia del suo stesso linguaggio, sempre più isolato dal codice della realtà, e di questo fosse compiaciuto e insieme si disperasse. Ma non è mai detto che nell’ingranaggio di un racconto finisca davvero quello che ci vogliamo mettere. A volte c’è molto di meno, a volte c’è qualcosa in più. Un narratore fa quello che deve fare e basta: narra.

Se in “Via gemito’ il redde rationem era con la figura paterna, in ‘Labilità’sembra che il magma delle Madri sia il vero fulcro generativo dell’opera: la madre dell’io-narrante, ma anche la moglie, l’amante,quasi tutte collegate come ipostasi muliebri del freudiano principio di realtà.

DOMENICO STARNONE: C’è un breve passaggio, in ‘Labilità’, che riguarda la discesa all’Ade di Odisseo. Il protagonista dice che non ha mai capito il passo in cui Ulisse allontana Anticlea dal sangue delle vittime scannate e fa parlare innanzitutto Tiresia. Non gli piace quella scelta. Lui non avrebbe resistito e avrebbe parlato innnanzitutto con la madre. Ecco, in quei versi dell’’Odissea’ forse c’è un nodo interessante. Tiresia è la ragione predittiva, quella che ci dona modelli concettuali per orientarci nel mondo. Ma un racconto si deve perdere, se vuole condurre fino in fondo il suo gioco. Deve calarsi, come ha detto lei, nel magma delle Madri, cercando di credere a loro piuttosto che al buon Freud. ‘Labilità’ si sforza di fare questo.

Stendendo un velo pietoso sulla problema delle presunte identità multiple( Ferrante e c.), cosa intende dire a coloro che, maldestramente, tentassero di leggere “Labilità” come romanzo a chiave, scoprendo in esso personaggi e figure di un demi-monde letterario, che lei osserva con sguardo ustorio ?

DOMENICO STARNONE: C’è poco da scoprire. Il misero mondo letterario del libro è solo la messinscena di una condizione. L’autonomia della scrittura è al tramonto. I lettori sono pochi. Quelli che non sanno fare a meno del piacere delle parole sono addirittura pochissimi. I libri sono sempre più integrati in una sorta di grande sistema multimediale (giornali, cinema, televisione, videogiochi, dvd etc.). Solo i pochissimi autori che si conquistano una risonanza multimediatica, loro malgrado finiscono per contare, ma in quanto icona, e in genere molto più dei loro testi. Gli altri si ripartiscono esigue fette di pubblico, intristiti da un lavoro spesso ben fatto, ma senza vera eco. E’ il modo pretelevisivo di intendere il mestiere di scrivere, di essere scrittore, che è in crisi. E quando un piccolo mondo è in crisi, i suoi abitanti possono diventare frivoli o cattivi. Lei ha citato il cosiddetto caso Ferrante-Starnone. A me è parso una prova di quello che le sto dicendo. In quell’occasione autori e libri sono diventati, sulle pagine culturali pochissimo lette dei giornali, puro esercizio per la chiacchiera, la distorsione, l’insulto astioso, la calunnia.

Nabokov e Calvino, ma anche la Bachmann e Caproni, citati esplicitamente attraverso alcuni loro versi, appaiono un po’ come i numi tutelari dell’opera ? E’ davvero così ?

DOMENICO STARNONE: No. Sono usati in funzione della storia. Direi che sono stazioni letterarie dell’inchiesta condotta dal protagonista. Nient’altro che questo.

Si può dire che tutta l’opera è un inno-apologia della coleridgeana “suspension of disbelief”?

DOMENICO STARNONE: Sì, è una bella osservazione. Ma, nel mio romanzo, la sospensione dell’incredulità riguarda lo scrittore, non i lettori. E’ lo scrittore che, per scrivere sul serio, deve smettere di ‘fare lo scrittore’ dentro lo spazio logico del reale, e esserlo finalmente sul serio, fantasma tra i fantasmi, nel perimetro ‘vero’ della finzione. Ma disgraziatamente, nel panorama letterario di oggi, siamo condannati a fare molto gli scrittori e a esserlo, di fatto, poco o niente.

Il cammeo di Bezuchov è, nella sua smagata insensatezza, uno fra i momenti più alti del testo.

Sono contento che lei lo pensi. Amo molto quelle ultime pagine. Tolstoj trasforma il tirannicida Pierre Bezuchov in salvatore di indifesi, anche se antipatici. Mutare i tirannicidi in salvatori.
Potrebbe essere un modo per disarmare davvero i tiranni di ogni risma..

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Pubblicato su Stlios, febbraio 2005.

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1 commento

  1. ho avuto delle grosse difficoltà a comprendere quanto scritto in questo pezzo, ma le risposte di starnone sono belle e chiare, l’uomo e lo scrittore meritano, quindi Labilità potrà contarmi nei futuri lettori.

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