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Vomitorium (3)

di Gianni Biondillo e Pier Sandro Pallavicini
vomitorium3.gif GIANNI BIONDILLO
Sandro, qui la tavolata si ingrossa. Bene, lo spazio virtuale, fortunatamente, è tale e tanto che ci stiamo tutti. Siediti, bevi una birra, raccontiamocela un po’. Hai letto quello che è stato scritto fin ora?

PIERSANDRO PALLAVICINI:
Caro Jean, ho letto le tue considerazioni iniziali, e ho letto anche buona parte delle reazioni al tuo colloquio con Franz – e poi a quello con Raul – sia su Nazione Indiana che sul blog della Lipperini. Poiché tutto è troppo frazionato e rizomatico per affrontare il discorso dalla galassia di punti dove è ora arrivato, io ricomincio da capo. Dalla tua lettera e dalla suddivisione della “scena scrittoriale” che propone.

Ammetto che pure io mi sono già ritrovato a fare, come te, e inconsciamente, una suddivisione.
Allora, ecco, parto da qui: dallo “scrittore*scrittore”, lo scrittore al quadrato, lo (scrittore)2 [nota tecnica: non sono capace di mettere il 2 all’apice, fate finta che lo sia, gb], e cioè, come dici tu, il “vero scrittore”. Non ne farei però una semplice questione di lavoro, ma piuttosto di formazione: non credo cioè che abbia un ruolo davvero importante su ciò che si scrive l’essere scrittori e il guadagnarsi da vivere con ciò che sta intorno alla scrittura (scuole, articoli, recensioni, reading, progetti, organizzazione eventi…). Al massimo può rendere un po’ saturi, questo sì, e spoetizzare, far calare l’entusiasmo e la bellezza del processo creativo – giacché con brandelli e monconi di questo processo, per lavoro, ci si incontra tutti i giorni. Può far crescere, insomma, la fatica del sedersi al computer e scrivere per sé anziché per gli altri.
Io ho sempre invece visto come “scrittori al quadrato” coloro che provengono da curricula letterari (lettere, filosofia… in parte anche lingue) e che alla fine pubblicano libri. Spesso, ovviamente a causa degli studi, anche il loro lavoro è letterario, magari addirittura accademico, ma non è questo il punto. Il punto è: dove e come si sono formati.
Lo ammetto subito: all’inizio della mia carriera di scrittore guardavo con estrema diffidenza tutti questi scrittori formati (e magari anche compiuti) in ambito letterario. Perché? Perché sono uno scienziato, e, per tradizione accademica, gli scienziati (chimici, fisici, biologi) irridono i loro colleghi letterati. Siamo pazzi o snob? Mah… Senz’altro è un problema di diversa prospettiva.

G.B.
Non dirlo a me. Fare architettura, in questo senso è un vero delirio. Per gli ingegneri sei una specie di artistoide, mezzo frufru, inconsistente e inconcludente. Per quelli dell’Accademia di Belle Arti sei un tecnico arido tutto dedito agli angoli retti e ai cementi armati. Ma scusa, ti ho interrotto…

P.S.P.
Appunto: pensa solo a quanto può apparire ridicolo a un laureato in chimica (che ha faticato in laboratorio con le proprie mani per 10 mesi, e per 10 mesi ha accumulato spremiture di meningi e comparazioni su libri e letteratura per interpretare i propri dati), pensa a quanto può apparire ridicola a questo chimico laureato la tesi di un laureando in lettere sul manoscritto settecentesco dell’autore minore ritrovato durante la ricatalogazione della biblioteca comunale della cittadina provinciale. E poi, sempre molto francamente, proprio l’esperienza del mio lavoro universitario mi ha portato a “vedere” davvero, nel loro habitat, i letterati accademici e a diffidarne: nel 90% dei casi, sono quanto di più distante e “immiscibile” con la letteratura contemporanea si possa immaginare. Quanto di meno “militante” si possa pensare. Antiquari, piuttosto che energetici esploratori di quanto a loro sta intorno.
Bene, una cosa è lavorare nell’accademia, un’altra cosa è esserci semplicemente passati. Ma, da quel passaggio, ragionavo, possibile che qualche germe, qualche acaro disponibile ad attaccare l’uomo, e via – per andare sul pecoreccio – possibile che qualche muffa non sia rimasta attaccata?
E allora cosa mi dicevo? Mi dicevo: (scrittore)2 = scrittore di universi libreschi e non reali. Scrittore di immaginari deboli e autoriferiti. Scrittore di incomprensibilità immaginifiche contrabbandate per poetiche illuminazioni. E vedevo in giro libri che avevano scrittori e letterati per protagonisti e che ragionavano sulla letteratura e sulla scrittura, e che non raccontavano niente che potesse non dico illuminare ma almeno accendere l’interesse di qualcuno che non avesse l’identico, ricchissimo, dotto e (per me, giovane chimico tranchant) inutile patrimonio di libri letti, di bibliografie studiate, di autori mortissimi perfettamente sviscerati.

G.B:
Parli per esperienza diretta. Ma anche per luoghi comuni, non trovi?

P.S.P.
Naturalmente, col tempo, conoscendo poi innumerevoli (scrittori)2, crescendo, maturando, ragionando, ho capito che in buona parte sbagliavo. Tuttavia, è una questione di imprinting: ancora adesso, se vedo un libro con quarta di copertina che mi dice che l’autore è laureato in lettere (e magari fa pure il docente in qualche università): ebbene, diffido.
Abbi pazienza.
E’ come per la questione dei cazzi dei neri: ci ho messo un lavorìo di 20 anni per levarmi quell’odioso imprinting (fatto di immaginario deviato appreso da ragazzino) per cui, a ogni black che vedevo, subito m’immaginavo che avesse un cazzo enorme e disponibile, e dunque mi ponevo immediatamente in una posizione competitivo/desiderante verso di lui. Ma, benché ora abbia cancellato il mio odioso pormi in posizione competitivo/desiderante, continuo ad essere conscio che esiste una concreta e non piccolissima possibilità che il nero che incontro abbia un cazzo di dimensioni sopra la media italiana; allo stesso modo, benché la diffidenza verso gli scrittori*scrittori sia riuscito a cancellarla, sono conscio che esiste la concreta possibilità (non grande ma nemmeno piccolissima) che un loro libro pecchi di svenevole, inutile autoreferenzialità.

G.B.
Questo è un tema non da poco. Su questo, come ho già accennato a Raul, dovremmo, anomali, veri, coglioni, o chicchessìa confrontarci davvero. Ho iniziato questi dialoghetti proprio perché io NON ho intenzione di dimostrare nulla, semmai sto cercando di fare mente locale, chiarire punti per me oscuri, comprendere se la mia è una allucinazione, una buona intuizione, aria fritta, non so… ma soprattutto sto cercando di comprendere se io, per primo, mi sto muovendo dentro luoghi comuni talmente radicati da trovarli veri. Sono veramente uno scrittore anomalo? Lo sei tu? Ha senso questa categoria?

P.S.P.
Gli scrittori anomali? Senz’altro vi appartengo, e anche qui ne faccio una questione di formazione. Se un laureato in geologia pubblica libri e poi, grazie a questo pubblicare, anziché andare a verificare trivellazioni in piattaforma nel Mare del Nord può mettersi a fare, putacaso, il redattore in Mondadori, ebbene, io continuerei a considerarlo, a dispetto del suo lavoro, uno scrittore anomalo.
Ripeto, appartengo alla categoria, ma non la sto elogiando o difendendo. Siamo forse meglio degli scrittori al quadrato? No, non credo. Mi scopro diffidente per natura. Perché se mi faccio un esame di coscienza e mi accorgo che quando nell’aletta vedo la biografia dell’autore e scopro che, putacaso, fa il magistrato (e magari, sorprendentemente, ha confezionato un poliziesco ambientato in pretura), penso “puff, sarà un ammasso di puttanate. Figurati se questo sa scrivere”.

G.B.
Dunque io dovevo scrivere di un architetto che costruisce un grattacielo. Così ero certo che mi avresti disprezzato! Ma d’altronde, perché un magistrato non può parlare di tribunali? Perché lo scrittore può parlare di sé e del suo rovello di essere scrittore, perché può essere autobiografico, mentre un magistrato no?

P.S.P.
In verità, quello che temo per lo scrittore anomalo (per formazione) è la non-professionalità. La capacità di scrivere solo di quel che conosce, l’incapacità (io credo necessaria) di poter raccontare di qualsiasi cosa, servisse, e in qualsiasi modo, nei suoi libri. Certo, benissimo: probabilmente l’universo conosciuto da chi fa il barista o il magistrato è più interessante e vivo e palpitante che non quello di chi si è laureato su Anatole France e adesso insegna Italiano in un Itis. Ma allo stesso tempo mi chiedo: lo scrittore anomalo, avrà letto abbastanza da non prendere delle cantonate? Sarà almeno parzialmente conscio di quello che è stato scritto “prima di lui”? Conoscerà qualcosa dell’alveo in cui lui stesso scrive o ha letto solo Tondelli e DeCarlo e poi una manciata di scapigliati americani? Avrà la forza e la capacità di comporre in un testo l’enorme collezione di dati, impressioni, reminiscenze consce e inconsce, di comparazioni analogie e raffronti (palesi o sotterranei) con la quale si confeziona un gran bel libro e non un semplice simpatico testo di fiction? Avrà, in testa, il necessario sconfinato catalogo di tecniche e stili che solo l’onnivora lettura (cui mi immagino che uno scrittore*scrittore sia obbligato) sa dare?

G.B:
Dunque non si salva nessuno!

P.S.P.
Penso che non conti essere scrittore dell’una o dell’altra categoria. Diceva bene, in una replica su Nazione Indiana, il buon vecchio Sergio Garufi (benchè sia dura prendere sul serio chi, in un proprio pezzo, arrivi ancora a scrivere, nel 2005, weltanschauung): per fare un libro che rimane ci vuole talento. Ha ragionissima, il Sergio. E allora non conta essere scrittori*scrittori o scrittori anomali. Non conta la formazione. Talento. Giusto.
Al talento però aggiungerei: un catalogo dell’immaginario grande quanto il mondo. E l’intelligenza necessaria, almeno, a dare senso della misura.

G.B:
Sergio è qui al tavolo di fronte, ora lo chiamo e gli chiedo cosa ne pensa. Ma scusa, a proposito: e gli iperurani?

P.S.P.
Ah già: e gli iperurani? Me la cavo con una battuta: “sugli scrittori iperurani non so… ma se volete vi posso dire tutto sugli iperuranisti.”

G.B.
Non l’ho capita. Troppo tecnica.

(continua… eccome se continua…)

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13 Commenti

  1. Direi che il massimo complimento che un sedicente scrittore o artista possa auto-elargirsi, nel medesimo istante in cui si atteggia a umilissimo figlio di Maria, è proprio ‘anomalo’ (= ‘fuori dal coro’, ‘non classificabile’, TANTA è la sua originalità e straordinarietà!).
    Ebbene, mi rifiuto di considerare Ciccillo scrittore anomalo. Va già meglio con il mio amico Piepalla.
    Ripropongo, invece, con forza la mia distinzione tra scrittori scipiti e non.
    Per far contento Andrea Inglese, infine, cito il PEZZETTO FINALE del mio contributo su ‘Il violinista’ di Andersen: “USCIRE DA UN UOVO DI CIGNO”, che qualche pavido membro (anche in quel senso) di Naz. Indiana mi aveva chiesto e poi cassato per non urtare gli anomali Tori Seduti della web-situazione(vedi commenti al pezzo di Ferrazzi):

    “Talent is nothing, except in fortunate circumstances”, aveva scritto Andersen a Jonas Collin nel maggio 1835. E “Il violinista” ruota, appunto, intorno all’eterno, angosciosissimo problema del Genio Incompreso e di come eventualmente evitarne lo Spreco. “Il brutto anatroccolo” insegna che non importa tanto nascere in un recinto d’anatre, quanto uscire da un uovo di cigno. “Il violinista” tende a dimostrare, invece, che nemmeno questo è sufficiente. Bisogna che il brutto cignino, ancorché nato in un recinto d’anatre, sappia poi spostarsi nel milieu giusto, o abbia la fortuna di incontrare qualcuno che l’apprezzi e lo valorizzi, perché possa davvero diventare un magnifico cigno. E soprattutto: “Bisogna che Dio lo voglia!”, altrimenti non ci sarà sforzo umano che possa impedire al piú talentuoso degli uomini di rimanere un semplice musicista di strada.

    Ciò detto, mi taccio, e attendo al varco la ciucciacazzi Adele.

  2. Sergio, però non prendertela: era solo uno sfottere tra amici. E poi avevi completamente ragione nella sostanza del tuo intervento!

  3. In un thread che non ricordo, qualche tempo fa, il nulla chiamato dai condomini Lucio Angelini, il povero bimbo scemo che vive di riflesso e di calunnie sperando di farsi notare dai grandi, insieme a varie altre noiose cazzate aveva detto di essere preoccupato perché i pedofili potevano aggredire i suoi figli. Per una malintesa pietà cristiana, nessuno ha rilevato che i figli di Angelini, in quanto tali, hanno già avuto modo di relazionarsi con esempi repellenti di esseri umani maschi dentro casa, senza bisogno di andare a cercare guai fuori.

  4. ti stavo dando ragione sul serio, sandro.
    weltanschauung è proprio brutta.
    l’unico suo pregio è che è talmente vecchia e polverosa che è possibile che stia per tornare di moda.

  5. Adele, tesoro, ascolta. Almeno in questo sono migliore di te: io ***firmo*** col mio vero nome i commenti con cui vivacizzo questo altrimenti noioso teatrino di salamelecchi. Tu sei libera di lasciarti impressionare dal tono saccente e pomposo di gente come Andrea Inglese, o di considerare anche tutti gli altri “grandi”, “anomali”, “irripetibili” (così, magari, a furia di slinguazzamenti, un giorno daranno un tepee anche a te). Io difendo la mia libertà di dire che, secondo me, in qualche caso di “anomalo” non c’è che la pretesa di esserlo, o di aver segnato l’epoca con le proprie scialbe operine. Ma non lo faccio nascondendomi dietro un pavido nick. Quanto ai miei figli, lasciali stare, che è meglio. Mi auguro solo che nella loro vita non abbiano mai a che fare con una squallida megera del tuo calibro.

  6. Sei un povero illuso ai minimi termini, nient’altro. Auguro la morte a te e, a questo punto, ai tuoi pargoli, affinchè la mediocrità in cui sguazzi non si protragga oltre. Che altro dire? Megera è una parola molle, vecchissima.

  7. Attenta, certi auguri tornano a boomerang addosso a chi li lancia. Ma con questo ti sei qualificata definitivamente (si fa per dire, visto che non ha nemmeno la dignità di dire chi sei).

  8. Ho visto le tue foto sul meraviglioso sito librimoltospeciali.com. Bruttino direi. Viscidino. E poi, uno che si vanta di avere un catalogo di così basso profilo, beh, che altro dire. Un bacio ai bambini.

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gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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