Chi me le racconta queste cose?

di Livio Romano

livio_romano.JPGHa dannatamente e dolorosamente ragione Loredana Lipperini. Siamo in ritardo su altri paesi. Siamo in ritardo di almeno dieci anni. Se qualcuno è capace di perdonare una piccola autocitazione, io che conto nulla, dal profondo Sud dell’Italia, lontanissimo dagli establishment culturali ed editoriali, cinque anni fa, in una recensione pubblicata su Vibrisse di Giulio Mozzi, tessei le lodi della nuova narrativa britannica la quale era, ed è, capace di rappresentare il Secolo, come si dice, e insieme di raccontare le disgrazie private che il vento della precarizzazione lavorativa ha portato nelle vite d’ogni trenta-quarantenne occidentale.

Scrivo “precarizzazione lavorativa” utilizzando la locuzione in senso affatto traslato. Infatti non ho alcuna voglia di ridurre quella che De Martino avrebbe chiamato un’Apocalisse culturale soltanto alla sfera dell’esistenza che attiene al produrre e al guadagnare. È un mondo in cui si assottiglia sempre di più la fascia dei fortunati abitatori di una no go area, regione delle élite colte le quali disegnano intorno a sé perimetri d’interdizione e si appalesano soltanto attraverso i filtri del marketing dell’industria culturale e dell’intrattenimento, come ci ricorda, tuonando, di tanto in tanto, il vecchio Bauman. Un mondo in cui, a dispetto dell’ottimismo dell’altro fra i sociologi più popolari, Beck, a dispetto di quello che lui percepisce come momento propizio per sviluppare un “progetto autonomo in cui collocare l’esercizio delle proprie libertà” (e a dispetto di tutti i vari Maffesoli, Levy, De Kerckhove, veri incantati dalle possibilità dei mezzi tecnologici – vedi la grottesca “teoria delle arche” che, a leggerla con gli occhi di un catorcio del vecchio secolo, qual io stesso mi sento, con gli occhi di chi crede ancora in bagattelle patetiche quali lo Stato Come Ente Capace Di Equiparare I Livelli Di Partenza), per dirla con l’excipit di Come diventare buoni, di Nick Hornby: “È ancora una scintilla che voglio alimentare, un crepito di vita nella batteria scarica; ma proprio nel momento sbagliato lancio un’occhiata al cielo notturno dietro a David, e vedo che là fuori non c’è nulla”.
Dicevo: siamo in ritardo. Lo ripete Falco: “Di scrittori che ci parlano dei loro gruppi musicali preferiti non ne possiamo veramente più”. Lo ribadisce con tatto Filippo La Porta: c’è una nuova pattuglia di scrittori, dice, che unisce nelle proprie opere “lucidità di sguardo antropologico e qualità dello stile, e dei quali si parla pochissimo, benché loro non se ne lamentino in alcun modo. Hanno molte idee, sono curiosi verso il mondo, inventano una lingua per rappresentarlo, intendono conservare qualcosa del passato e, soprattutto, sono impegnati a ridefinire ogni volta cosa è reale e cosa non lo è nelle nostre esistenze”.
Ora, che Aldo Nove dichiari che non ce la faccia più a raccontare. Che tutto quello che gli riesce è “riferire” attraverso i suoi bei pezzi giornalistici e le sue interviste-shock: è dato che ha a che fare con la congiuntura psicologica dello scrittore stesso. Uno che ha inventato, che lo vogliamo o meno, una lingua. Uno che ha messo in scena i pensieri degli alienati metropolitani figli degli Ottanta. Uno scrittore i cui tic linguistici sono entrati prepotentemente anche nel linguaggio della pubblicità (penso solo all’uso che ha fatto della virgola messa subito dopo un complemento di tempo: è uno stilema che oggi tutti utilizzano e l’ha inventato Nove). A uno così: se si mette a intervistare i suoi stessi spiantati, oggigiorno cresciuti e mantenuti dalla pensione dei genitori, non puoi che dire: “Bene”. Fornisce imbeccate a qualunque narratore voglia servirsene. Prima o poi gli verrà il ghiribizzo di costruirci delle storie. E se non gli verrà, se non potrà venirgli, come suggerisce Genna, poiché egli narratore non è. Se vorrà continuare a utilizzare la poesia o l’elzeviro come strumento conoscitivo, e se per questo lavoro si servirà di strutture critiche vecchie di quarant’anni (che, sommati ai suoi trentotto fanno settantotto: età giusta per la Bacchelli, rammenta con la solita esilarante sagacia Gaetano Cappelli proprio oggi sulle pagine del Foglio). Se romanzi e novelle propriamente detti, con questo materiali Aldo Nove non produrrà: chi se ne frega?
Chi se ne frega, anche, se Nove stronca Piperno rimproverandogli la scarsa proletarietà dei personaggi. Che orrido spettacolo: degli intellettuali che starnazzano mentre fuori c’è un mondo che aspetta di essere raccontato. Io, da questa posizione estrema, per dirla con La Porta, leggo le cose che mi danno delle ridefinizioni di ciò che è “reale”. Leggo nel senso che: compro e divulgo. Il bellissimo malinconico libro di Pascale, per esempio. Che fotografa spietatamente le mille ipocondrie di quelli della mia generazione. Perché, come scrive questo stesso scrittore, passata la bellezza, restano gli eczemi sul cuore. Resta una laurea che ti serve a guadagnare 250 euri al mese. Resta quel simulacro di Stato che è sempre stato esposto quaggiù al Sud: il quale ti tradisce ogni giorno che Dio mandi in terra. Il quale fa scappare via i suoi figli. Lembi di carta geografica dove neppure i familismi e gli spiriti di clan e i pensieri meridiani e le pratiche del munus riescono più ad assicurare un contrattino a tempo determinato per un anno al figliolo che ha tanto viaggiato e studiato. E, quando i genitori sessantenni si incasinano ancora con le rate per permettere ai ragazzi di trentanove anni di comprarsi i mobili per lo studio legale che mai si avvierà. Quando le pur decennali derrate di generi alimentari scaricate in casa del senatore socialista a frequenza settimanale lo vedi da te che non giovano più a piazzare il giovane nella macchina burocratica. Quando tutto questo passa: i ragazzi stessi si ammalano, darling. Io son circondato da depressi, da affetti da Sindrome da Attacchi di Panico (DAP) ovvero dalla forma più evoluta della Sindrome Ossessivo Complusiva (DOC). È tutto un consigliarsi addosso marche di antidepressivi e ansiolitici dell’ultima generazione. Tutto uno scambiarsi indirizzi di psicoterapeuti e analisti. Chi me le racconta queste storie? Gli inglesi, da dieci anni. Jonathan Coe. India Knight. John O’Farrell. Gli italiani, ce lo ricordava un annetto fa Covacich, e lo ripete in un recente articolo anche Alberto Rollo, scrivono ‘ste cose espressioniste senza respiro storico, oppure si danno all’infanzia perduta, oppure alla corsa a perdifiato.
Forse sarà che ho un’idea di letteratura mutuata pari pari da Giovannino Guareschi il quale nel 1948 scriveva: “Io da giovane facevo il cronista in un giornale e andavo in giro tutto il giorno in bicicletta per trovare dei fatti da raccontare. E, alla sera, riempivo la mia pagina inventando i fatti di cronaca, e questi fatti piacevano parecchio alla gente perché erano molto più verosimili di quelli veri. Quindi niente letteratura o altra mercanzia del genere: mi limito a raccontare dei fatti di cronaca. Roba inventata e perciò tanto verosimile che mi è successo un sacco di volte di scrivere una storia e di vederla, dopo un paio di mesi, ripetersi nella realtà. Queste storie vivono in un determinato clima e in un determinato ambiente…”.
Forse sarà che io i lettori li incontro davvero. Ci parlo. So con precisione cosa vorrebbero leggere. Ancora per citare Hornby, la dottoressa di How to be good a un certo punto dice: “Questo [libro] parla di di una giovane perseguitata politica che, costretta ad abbandonare la sua patria africana, va a vivere a Bromley, dove incontra un giovane ballerino bianco skinhead e razzista e se ne innamora. Rimetto giù il libro: non perché mi sembri una fesseria, ma perché non sono stata costretta a lasciare la mia patria africana e non vivo a Bromley”.
E vorrebbero, i lettori, semmai anche divertirsi della rappresentazione artefatta della loro stessa realtà. Vorrebbero che le loro goddam stories fossero utilizzate per costruzioni narrative che lascino spazio alla risata e al pianto. Vorrebbero, come ripetono i Books Brothers miei amici terronici (Cappelli & Trecca & Verrengia), che si spazzasse per sempre via la “monocultura del dolore” che continua a signoreggiare nelle narrazioni meridiane così come quell’altra insopportabile maniera wallaciana che impernia certe storie che l’industria culturale del Nord ci rifila come merce pregiatissima. Siamo dannatamente indietro.

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6 Commenti

  1. Scusami, Livio Romano, soltanto alcune cose sparse:

    1) un minuscolo rilievo all’ultima riga del tuo intervento: Forster Wallace promosso dall’industria culturale del Nord? Mi risulta che Wallace, in Italia, sia pubblicato interamente a Roma: minimum fax, Einaudi Stile Libero e Fandango… Fa eccezione il libro matematico, non narrativo, sull’infinito, pubblicato dalle edizioni Codice, che mi pare siano genovesi. Forse certe semplificazioni andrebbero evitate.

    2) Sei sicuro di conoscere la narrrativa di Aldo Nove? Nei suoi libri si parla di lavoro, soprattutto di lavoro: penso al protagonista di “Amore mio infinito”, per esempio. Se poi un narratore che scrive anche un libro sull’infanzia (“La più grande balena morta della Lombardia”) è accusato di regressione e il suo percorso di scrittore è tracciato, già dato per definitivo perché ha dedicato un libro all’infanzia, be’, che dire… Mi sembra che il tuo intervento in molti punti non sia obiettivo.

    3) E chi l’ha detto che l’arte deve essere “avanti” o “indietro”? Chi l’ha detto che questa tua poetica del rispecchiamento sia quella giusta? Forse noi (italiani? del sud? del nord? del centro? dell’estremo? orgogliosi e giustificati da longitudini e latitudini?) non siamo né più avanti né più indietro, ma su un’altra strada, su un altro percorso, su altre forme di invenzioni.

    4) I romanzi di Hornby non sono gran che. E Hornby è l’esempio peggiore che potevi fare, perché è proprio il narratore principe dei propri gusti musicali, è un cantore di gruppi rock e pop, di classifiche di lati A e lati B di dischi…

    Grazie comunque del tuo intervento che ho commentato a caldo dopo una prima lettura notturna, ma su cui continuerò a riflettere.

  2. non credo che il problema sia copiare gli americani o gli inglesi, e non credo che gli americani o gli inglesi siano dieci anni avanti a noi. forse è da considerare il fatto che gli americani e gli inglesi scrivono in inglese, mentre noi italiani scriviamo in italiano. il target -anche numerico- a cui un autore italiano si rivolge è differente a quello di un autore in lingua inglese. forse anche il tempo lavorativo che sta dietro ad un romanzo americano è diverso da quello che sta dietro a un romanzo italiano, così come l’impatto mediatico.

  3. Sono un lurker di N.I. e questo dibattito avviato da Moresco mi ha preso, e, al di là dei toni adoperati ogni tanto, forse eccessivi, ma comunque giustificabili, lo trovo interessante. Esso, tuttavia, non è nuovo, e si presenta con frequenza nella storia letteraria del nostro Paese. Basti pensare al Novecento, sia ai suoi inizi che negli Anni ’60, o allo scontro, cui ho assistito personalmente quattro o cinque anni fa a Lucca, tra Cesare Garboli e i nuovi critici e narratori, tra cui, ricordo, Perrella e Affinati.

    Questo significa che ciò che state dibattendo è privo di originalità? Nient’affatto, giacché ciascuno di questi dibattiti va considerato sempre in relazione al proprio tempo: dunque, ricorrente, ma mai uguale a se stesso. Ce ne fossero, almeno ogni due o tre anni!

    Essi hanno sempre portato, poi, una qualche novità, anche se in un primo tempo sono stati snobbati o derisi.

    Tuttavia, vorrei fare un’osservazione e una (implicita) critica benevola. Tutte le volte che si avviano dibattiti come questi, si tende a proiettarsi – anche giustamente, s’intende – nel futuro, e si dimentica il passato.

    Voglio dire che i movimenti che da questo tipo di dibattito nascono tendono quasi sempre a sradicarsi (liberarsi) dal passato.

    Non più giovane (63 anni), la mia passione per la letteratura mi ha portato a seguirla sin dai tempi della scuola, attraverso riviste che hanno segnato un periodo (Il Verri, Quindici, I quaderni Piacentini, ad esempio). Passato, quindi, attraverso i dibattiti delle avanguardie, ho, con mio stupore e con il passare degli anni, acuito in me il desiderio di rivisitare il passato. La mia scoperta è stata quella di incontrare nel mio viaggio narratori dimenticati, la cui scrittura ancora oggi resiste all’usura del tempo. Qualche nome, per non restare nel generico: Barolini, Bianciardi, Bilenchi, Cialente, Palazzeschi, Tozzi, Zena, Dessì, Salvatore Satta, Ortese, Jovine, Incoronato, Compagnone, Corti, Ortese, Alianello, Brancati, Silone, Teglia, Venturi (mi fermo qui). Qualcosa delle mie impressioni ha pubblicato vibrisse di Giulio Mozzi, altre sono state raccolte dal piccolo editore Marco Valerio di Torino.

    Che cosa hanno avuto questi scrittori per durare – secondo me, ovviamente – nel tempo?

    Hanno saputo raccontare. La verità è così semplice, a volte. Hanno saputo dare un linguaggio ed una struttura al loro raccontare capace di durare nel tempo. Non vi sono, alla base, né ricerche né artifici, ma il gusto e il piacere del raccontare.

    Non so spiegarmi meglio, ma posso dire che la letteratura di oggi avrebbe bisogno di recuperare, per studiarli, certi scrittori che, invece, ha colpevolmente dimenticati e dalla loro persistente modernità e attualità ricavare un utile insegnamento. Ci sono scrittori, oggi, anche di un certo rilievo, che conoscono quasi tutto del presente, e poco o nulla del nostro passato.

    Bart

  4. uno scrittore che scrive l’avverbio ‘dannatamente’, e lo usa varie volte, in evidenza, all’inizio e in chiusura di pezzo, mi sa che è lui quello indietro, che arranca scimmiottando le traduzioni malfatte dei romanzi inglesi. chi scrive ‘dannatamente’ copiando una qualsiasi traduzione scadente, è lo stesso che vorrebbe copiare la dannatamente povera, sociologica idea di letteratura di molti romanzi inglesi

  5. Già, “dannatamente” è una parola orrenda (per quanto io quei libri “mal tradotti” li legga spesso in inglese direttamente).
    Poi, caro Tiziano:
    1)E’ vero. Mentre scrivevo ero cosciente che Wallace sia pubblicato a Roma, ma ovviamente confidavo che si intuisse che non mi riferisco a Wallace di per sé, bensì al deteriore postmodernismo di cui i lettori hanno le tasche piene.
    2)Non mi sembra tu abbia letto bene il mio pezzo. Io Aldo Nove lo conosco a fondo e lo amo moltissimo. Amo molto anche le cose che sta facendo da ultimo. Le giro alla mia mailing list. Le leggo ad alta voce a mia moglie. La “regressione all’infanzia” è bensì messa in atto da una serie d’altri scrittori ben noti i quali, per me misteriosamente, sono tutti chinati a guardare al foro interiore, al passato, agli anni Settanta, e spesso vengon fuori best seller, per carità, solo: a me l’infanzia non interessa: tutto qui. E proprio per essere “obiettivo”, ho poi citato un paio di interventi (Genna e Cappelli) che le operazioni di Nove non gradiscono.
    3)D’accordo anche su questo. Siamo su un altro percorso. Nulla di strano, né da obiettare. Siamo sul percorso della tradizione, poi, secondo me. La Grande Tradizione Letteraria Italiana. Solo che io spesso mi chiedo perchè gli italiani leggano così poco e questo mi rispondo: perchè le cose che si fanno in Italia non hanno appeal narrativo, nessuna presa sulla realtà del grafico di Matera e della vigilessa di Mantova.
    4) Quanto a Hornby, mi aspettavo anche quest’obiezione. Tuttavia H. non è solo l’autore di Alta Fedeltà, ma ha fatto anche About a boy, per dire, oltre al citato How to be good. Dico Hornby per dire di una propensione, di un approccio al novellare. Pensa: io oltre a questi che già potremmo col sopracciglio alzato definire, in Italia, Autori di serie B, io leggo anche, voracemente, schifezze come la Kinsella (passione condivisa, fra l’altro, mi diceva, da Gianluca Morozzi). E, cosa vuoi che ti dica?, chi mi conosce sa che palle che faccio al prossimo con Dickens. Bene: io trovo che questi narratori abbiano dentro qualcosa del Maestro, anche nelle cagate appena citate. Si fanno leggere. Raccontano, come faceva il vecchio Charles (“il vecchio”: no Romano! non dovresti utilizzare questi stilemi da traduzione mal fatta!), della “lonely people”, di quella gente di cui ti chiedi “da dove viene?”, delle ricamatrici a nero e dei raccoglitori di carciofi a cottimo (oltre, nei casi più alti, alle tribolazione, dicevo, della generazione di 35enni senza più alcuna bellezza a disposizione, e anzi angustiati da nevrosi e disperazioni variegate).
    Abbracci

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