L’imperfetta armonia di Manganelli

Intervista a Andrea Cortellessa

di Piero Sorrentino

manganelli.jpg Da qualche anno prosegue, da Adelphi, la pubblicazione dell’opera completa di Giorgio Manganelli. Testi introvabili e nuove raccolte di inediti e dispersi dello scrittore milanese, in buona parte articoli e saggi variamente editi su quotidiani e riviste. La favola pitagorica, che esce ora a cura di Andrea Cortellessa (pp. 214, 13 euro), riunisce per la prima volta i reportages dei viaggi in Italia che Manganelli, a partire dal 1971, pubblicò su giornali e settimanali.

“Qui si parla di quadri e per quadri: opere in primo luogo fisicamente determinate: periture anche, e alterabili per vicende di tempi e restauri; creature non solo altissime, ma fragili e provvisorie”: è una frase tratta da “Un viatico preziosissimo”, uno dei pezzi – riferito al Viatico di pittura di Roberto Longhi – che formano Cento libri, la serie di schede letterarie che a partire dal 1960 Manganelli redigeva assieme a Cesare Garboli sul “Giorno”. Non ti sembra, sostituendo “luoghi” a “quadri”, una definizione perfetta anche per questa raccolta?

Interessante. Avevo dimenticato che la parola “viatico” che uso arbitrariamente all’inizio della Favola pitagorica avesse un precedente in questa scheda longhiana di Manganelli.
Per un verso sarei propenso a risponderti di sì, nel senso che sicuramente l’avversione di Manganelli per il capolavoro, a più riprese conclamato in questi testi, in particolare quelli fiorentini, avvicina anche le opere d’arte alla categoria del provvisorio, dell’evanescente, del volatile, che per Manganelli è una delle caratteristiche dell’umano operare. Per l’altro proprio le pagine fiorentine, da questo punto di vista, denunciano anche un’ambiguità, un’ambivalenza; perché poi a differenza dell’essere umano, dei suoi desideri, delle sue volizioni, alcuni luoghi (nell’accezione densa che ha questo termine in Manganelli) e alcune opere (anche qui la definizione di opere è problematica), alcune permanenze si caratterizzano proprio per il loro sopravvivere; ed è un po’, quella della sopravvivenza, la categoria concettuale sotto la quale ho inscritto nella postfazione il valore-guida che l’arte ha nelle vicende italiane per questo Manganelli. C’è quella pagina piuttosto sorprendente di Giorgio Colli, scritta all’indomani della seconda guerra mondiale, che allude proprio a una sopravvivenza delle opere d’arte, in particolare delle opere architettoniche, in muratura, delle pietre dure, rispetto alla fragilità dell’elemento umano. Del resto la dialettica tra umano e inumano, tra umano e artificiale, domina a tutti i livelli non solo questi testi italiani di Manganelli ma proprio tutto il suo immaginario. Di conseguenza verrebbe da dire che se le opere d’arte mantengono un quantum d’umanità nel loro riferirsi se non altro a chi le ha composte, a chi le ha dipinte, concepite, appartengono a loro volta alla categoria dell’impermanente e del volatile; ma in quanto appartengono anche a tutto un altro ordine di considerazioni (quelle delle idee fisse, del platonismo manganelliano, della sua tendenza all’astrazione) le opere partecipano poi di una dimensione eterna, trans-storica. Quindi proprio le opere (viene da citare un titolo gaddiano o pseudo-gaddiano: il tempo e le opere), proprio le opere permangono. Manganelli questo lo dice in quella pagina molto bella sugli Uffizi, laddove contrappone la permanenza delle opere alla fragilità di chi le guarda.

Provo a dirla brutalmente: questo Manganelli è un devastante ordigno anti-Arbasino. Se devo pensare a un antidoto all’Arbasino scrittore di viaggi penso proprio al Manganelli viaggiatore, innamorato del viaggio in sé (“ogni viaggio è il più bel viaggio del mondo. Non fanno il viaggio né la lunghezza né la durata né le cosiddette meraviglie, i capolavori che ci può accadere di vedere”, scrive nel Viatico della Favola pitagorica), lontano dai capannelli di turisti sudati al seguito di guide annoiate (“viaggiare è operazione solitaria o di sparuta e congeniale compagnia”)…

…in sostanza contrapponi l’esotismo di Arbasino all’anti-esotismo di Manganelli, a quello che definisco il suo “esotismo interno”…

…sì, ecco, è questo. Insomma, al contrario di Arbasino mai te lo immagineresti, Manganelli, a misurare col metro dei festival, delle mostre, dei concerti, il valore e la necessità del viaggio che ha fatto…

Ti rispondo con un nì. C’è un elemento perfettamente, diametralmente contrapposto e quindi in qualche misura speculare al viaggiare di Arbasino. Arbasino è fondamentalmente (o meglio era: nei suoi testi vicino alle Muse a Los Angeles; perché per Marescialle e Libertini andrebbe fatto un discorso un po’ diverso, forse) uno scrittore antropologico: è un antropologo. Quello che gli interessa (e quello che detesta, anche ma che gli interessa sadicamente) è l’antropologia italiana, in particolare, l’antropologia di chi alle mostre, ai musei, alle prime d’opere si reca. E, nel recarsi in questi luoghi, disturba il soggetto percipiente principe che è io, colui che dice io. Se questo può avere una connotazione sadica nel tratteggiare satirico più violento che è tipico di Arbasino però non esclude una forte partecipazione conoscitiva, che fino alle Muse a Los Angeles, appunto, c’è, nei confronti dell’universo antropologico acculturato. Manganelli è uno scrittore che non si può definire antropologico nella misura in cui è uno scrittore radicalmente anti-umanistico, anti-umano. L’elemento umano per lui è assolutamente accessorio, allotrio; lo dice, sempre a proposito di Firenze, quando scrive che lui ignora se in quel momento è amministrata da una giunta di sinistra o meno; per quanto lo riguarda potrebbe essere amministrata dai marziani…

… dai lèmuri, anche…

…questo totale disinteresse nei confronti dell’elemento umano denuncia anche un radicale disinteresse, o meglio una radicale censura, dell’elemento soggettivo. Quanto Arbasino è ulceratamente sé stesso, è ulceratamente in prima persona nel guardare, nel dileggiare epperò nel contempo essere schiavo delle masse, delle frotte dei turisti, così Manganelli le ignora, ne prescinde, e allo stesso tempo però prescinde anche da sé stesso: non si guarda, non guarda sé stesso e addirittura censura se stesso il più delle volte. Anche nelle città, nei luoghi che nella “vita precedente”, come la definisce lui stesso, l’hanno visto biograficamente partecipe per eventi della sua vita, lui prescinde completamente da questo aspetto. Quindi in questo i due scrittori effettivamente sono agli antipodi. Quello che invece li accomuna è la straordinaria capacità di risalire alle precedenti generazioni. Se gli italiani, gli italici del presente, gli autoctoni (“gli indigeni”, come diceva a proposito dei romani nel Pasticciaccio nelle schede che hai citato prima) interessano poco a Manganelli, in quell’elemento permanente, in quell’elemento trans-storico che dicevo sopra, l’italianità invece in qualche misura gli appartiene. Lo dice a proposito di Firenze – nei pezzi successivi alla serie dei cinque pubblicati sul Corriere della sera -: il diventare italiano è il percepire la quantità di generazioni che italiane si sono professate o sono semplicemente state in virtù della loro lingua e della loro comunanza antropologica; e questa capacità di avvertire nel presente il cascare a pioggia delle generazioni precedenti è propria anche di Arbasino (anche se forse anche in questo si può vedere una differenza nel fatto che poi quello che interessa Arbasino è la decadenza dell’oggi più che il risalire alle generazioni precedenti).

Questa raccolta ha il peso di una pietra messa definitivamente e finalmente sulla vulgata critica che vuole (e propaganda) un Manganelli funambolo della parola, sempre in bilico sul filo della sintassi, complicatore barocco di frasi, fatale tapiro col muso sempre immerso nelle pagine di un dizionario alla ricerca della parola ricercata, sorgiva…

Bisogna naturalmente tenere conto della differente destinazione dei pezzi. Manganelli era uno scrittore profondamente retorico, la retorica per lui è la disciplina principe. Manganelli riscopre la retorica già negli anni ’40, nel periodo in cui era più negletta, ben prima che se ne occupassero sia Lausberg che Roland Barthes. Ho studiato i testi giovanili inediti di Manganelli, depositati all’università di Pavia nel Fondo manoscritti: quaderni di appunti critici, taccuini di lettura di un giovane intellettuale (all’epoca si era appena laureato, aveva ventisei anni) che sta leggendo o rileggendo un po’ tutto il corpus della letteratura occidentale: dalla poesia latina, Ovidio, alla poesia medievale inglese (che resta una delle sue terre d’appartenenza) fino ai classici italiani. E leggendo la Storia della letteratura di De Sanctis studia il capitolo sulla scuola siciliana, in cui De Sanctis depreca alcuni autori in quanto, rispetto ai primi iniziatori del sonetto e della poesia in volgare italiana, li considera “autori di scuola”. Ecco, questa espressione, “autori di scuola”, scatena in Manganelli, già all’altezza del ’48-’50, una riflessione che è perfettamente neoretorica. Ragiona così: in fondo ogni poesia è di scuola, perché se non lo fosse, se non avesse dei caratteri di comunicazione, sarebbe, come nel Dialogo dei massimi sistemi di Landolfi, una poesia scritta in una lingua che appartiene a una sola persona, perfettamente incomprensibile. Di conseguenza se noi leggiamo delle poesie vuol dire che condividiamo degli elementi, dei codici comuni: questo è il punto di partenza di ogni pensiero retorico (la riscoperta della retorica sarà poi esplicita negli anni ’60 quando Manganelli recensisce Lausberg…). Questo indica come, per capire Manganelli, bisogna sempre capire la sua straordinaria attenzione alla componente retorica e quindi alla destinazione di ogni suo scritto. Così come l’autore di Hilarotragoedia e Nuovo commento approfitta di una situazione editoriale in cui il massimo ardimento sintattico, lessicale e strutturale è concesso e anzi incoraggiato, invece il “pubblicista” (come amava definirsi) da quotidiano, da settimanale, già dagli anni ’70 sceglie una lingua semplificata. Naturalmente semplificata a suo modo, perlopiù sintatticamente. Ricordo per esempio che sull’Europeo, al quale Manganelli collaborava nei primi anni ’80, c’era addirittura una rubrica, che di spalla ai suoi articoli li accompagnava, che si intitolava “Le parole difficili di Manganelli”, in cui per i singoli lessemi complessi c’era il rinvio al dizionario da parte di una redazione che capiva come, a dispetto della semplificazione, dal punto di vista lessicale restava questo collezionismo, questa capacità di sommuovere la lingua in tutti i suoi strati diacronici, differenziali ecc. Allora quello che conta per capire Manganelli è che, di ogni suo scritto, lui aveva una perfetta comprensione della destinazione, del luogo, della funzione. Più in generale, all’inizio degli anni ’70 (che è poi il termine post quem in cui comincia a scrivere questi testi raccolti qui) Manganelli ha un po’ una soluzione di continuità stilistica che tendo a ricollegare all’esperienza dei viaggi, più ai viaggi in generale che a quelli in Italia (il viaggio in Africa del 1970 è uno spartiacque fondamentale dell’esperienza di Manganelli). Tra il ’70 e il ’75 cambia tutto: a livello biografico, di scrittura, compie svariate e importanti esperienze, letterarie e non. Infatti negli anni successivi a questa cesura escono i libri di maggiore successo di Manganelli, a partire da Centuria. Un libro come Centuria, che vince il Viareggio ed è un (relativo) successo di vendite, sarebbe stato letteralmente inimmaginabile dieci anni prima.

Se sottoponessimo questi reportages all’elaboratore elettronico – di cui parla Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore – che registra la lista di tutte le parole contenute nel testo, al primo posto troveremmo di sicuro “geometria” variamente declinata in avverbi, aggettivi, sostantivi, verbi… secondo te sulla base di quale formula magica l’alchimista Manganelli è riuscito a far stare nelle stesse pagine il massimo dell’astrazione, questa passione continua e divorante per le linee, gli angoli, i poligoni, i coni, “le forme pure della geometria che annullano il tempo e annichiliscono la storia” (come annoti nel tuo saggio conclusivo) col massimo del coinvolgimento sanguigno e amabilmente crapulone delle pagine su Chianciano o della bellissima lettera-appendice sulla Toscana?

Manganelli è uno; è una persona estremamente complessa ma è pur sempre una persona, a dispetto di quello che lui poteva dire di se stesso (non si riconosceva come una entità, come individualità definita) è uno scrittore che i suoi lettori e appassionati riconoscerebbero tra mille. Però il problema di una contrapposizione tra una retorica geometrizzata, e la retorica dell’empatia, per usare le categorie di Worringer, c’è. Sono i due poli del suo immaginario e secondo me anche della sua scrittura. In questo libro sono presenti entrambi. Lui lo dice proprio in quella pagina dell’83 che ho scelto come introduzione, quando contrappone al Partenone l’Africa. Da un lato la geometria, l’astrazione, l’apollineo dell’identità occidentale visti come negazione del magmatico, dell’informe, del violento, del pre-razionale, ipostatizzata appunto nella savana africana. Entrambi questi poli si contendono l’immaginario di Manganelli. Da un lato abbiamo Firenze, trasposta sul piano di una geometria fantastica (tra l’altro dopo la pubblicazione del libro mi sono stati segnalati altri possibili referenti di questo immaginario geometrico: da Emilio Cecchi che in una sua pagina su Firenze definisce la città “una scacchiera”, suddivisa in quadrati bianchi e neri in cui avvengono conflitti fittizi ma non per questo meno violenti, come racconta Manganelli quando parla della “rissa geometrica” a proposito delle cappelle medicee; Silvano Nigro ha ricordato il Viaggio in Italia di Andrei Belyj, dove si parla di una specie di lotta tra i monumenti di Firenze…

…a Roma Cortàzar fa invece duellare le statue dei Dioscuri nella piazza del Quirinale…

…sì, qui invece c’è un combattimento araldico tra i monumenti di Firenze. Insomma, i riferimenti sono tanti, e Manganelli, che era coltissimo, li conosceva anche. Però, ripeto, questa presenza della geometria è poi un suo connotato fortemente psicologico. C’è una pagina della Letteratura come menzogna dove si parla di Flatlandia di Abbott: “un luogo è un linguaggio”, dice Manganelli; e si può dire anche il contrario: un linguaggio assomiglia a un luogo, ha delle coordinate spaziali prima ancora che diacroniche, temporali, e sono queste che interessano Manganelli. Però poi nel libro (e comunque nelle sue esperienze di viaggiatore) c’è anche il polo “africano”, il polo empatico, magmatico, dell’informe, tutto sommato riconducibile all’esperienza abruzzese. In Abruzzo poi Manganelli fa esperienza a sua volta, en abime, della stessa dicotomia. C’è sì la montagna cubista del Gran Sasso, scomposta e non riconducibile a un ordine geometrico; però poi c’è anche la risoluzione, di ogni luogo che visita Manganelli in Abruzzo, nel tentativo di ricondurlo ogni volta a dei solidi, a dei prismi, a delle figure geometriche. Quindi da un lato l’Abruzzo è terra meno geometrica, meno ordinata, meno razionale e platonica di quanto non sia Firenze; dall’altro però anche lì, in presenza di questo magma in forma di regione, Manganelli tenta (o, per meglio dire, è costretto dal suo immaginario) di ricondurlo a un ordine tendenzialmente geometrico. Tra l’altro è interessante notare che Firenze è bidimensionale, mentre la geometria abruzzese è tridimensionale, come ad alludere a uno spessore, a una densità che già in qualche misura inquina la perfetta armonia delle forme del Manganelli più platonizzante.

__________

Pubblicato su STILOS il 26.04.05

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9 Commenti

  1. E’ la seconda intervista che leggo qui, firmata da te. Entrambe molto interessanti. Sei bravo, altroché!

    Immagino che tu sia quel piero sorrentino con cui dialogai qualche volta, su it.cultura.libri, alcuni ani fa.

    Complimenti. Leggo qui con piacere anche Sergio Garufi. E se aggiungo il pezzo di Lucio Angelini apparso qualche giorno fa, mi sembra di essere tornato indietro nel tempo.

    Un caro saluto.

    Bart

  2. Tu non sei cambiato, e ti seguo con piacere anche qui, quando fai il discolaccio:-)

    Forse piero sorrentino non sa che il suo pezzo è stato pubblicato su NI.

    Avrei voluto domandargli anche se ha una parentela con il Sorrentino, inviato speciale del Corsera o della Nazione 30 o 40 anni fa, che scriveva così meravigliosamente bene i suoi articoli dall’America. Mi pare si chiamasse Lamberto, ma invecchio e non posso giurarci. Dei leprotti sai più nulla?

    Bart

  3. Ma certo che Piero Sorrentino lo sa, è stato lui a proporlo. E in ogni caso su Nazione Indiana si chiede sempre agli autori se ci concedono i pezzi. E questo è stato anche rivisto accuratamente da Andrea Cortellessa.

  4. Grazie.

    Spero che Cortellessa non abbia rivisto anche le domande:-)

    Colgo l’occasione per dire che non sarebbe male che NI ricordasse scrittori pubblicati nel Novecento da grandi case editrici e oggi pressoché dimenticati.

    Ecco qui alcuni autori di cui mi sono occupato in questi ultimi tempi: Barolini, Bianciardi, Bilenchi, Cialente, Palazzeschi, Papini, Tobino, Tomizza, Alianello, Brancati, Compagnone, Corti, Dessì, Fiore, Incoronato, Jovine, Marotta, Ortese, Ottieri, Salvatore Satta, Puccinelli, Fracchia, Ghilarducci, Saltini, Teglia, Petroni, Alvaro, Benedetti, Cicognani, Micheli, Chiara, Parise, Puccinelli, Venturi.

    Sono scrittori notevoli, che avrebbero molto da insegnare agli autori di oggi. Pubblicavano con Editori assai più esigenti di quelli dei nostri giorni. Bisognava essere bravi sul serio, essere dotati di grande talento.

    Bart

  5. caro bart, ti scrivo da un internet cafè parigino grazie per i complimenti. No, non ho parentele con i cronisti del Corriere… un abbraccio e grazie ancora, Pie.

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