Scrivere sul fronte meridionale III

Scegliere di combattere

di Vins Gallico

aspromonte.jpg [Dopo la pubblicazione della lettera a Nazione Indiana circa lo Scrivere sul fronte meridionale ho ricevuto diverse risposte da autori che hanno riflettuto sullo scrivere da sud. Pubblico qui l’intervento di Vins Gallico. rs]

Ho dei ricordi. Di quando ero bambino, ad esempio. La mia famiglia viveva in un grande condominio con un cortile interno. Tutti gli altri bambini del cortile rubacchiavano alla Standa che stava sulla strada parallela.

Ma non lo facevano perché erano morti di fame, nel condominio non c’era la fame, il bisogno, lì abitavano famiglie benestanti, appartenenti alla borghesia di Reggio Calabria.

Rubacchiare era un modo per dimostrare la loro furbizia; dato che la furbizia allora era una qualità molto importante. Uno dei miei compagni di giochi mi ripeteva in continuazione che non dovevo “farmi fare fesso” da nessuno, fottere gli altri era molto meglio che essere fottuti.
Io ero incapace a rubare. Ci provai due volte. Quelli del controllo mi beccarono la prima volta con una penna cancellabile e la seconda volta con un nastro adesivo, nascosti addosso.

Un giorno (avevo circa otto anni) camminavo per il quartiere con altri due amici coetanei e canticchiavo. Uno qualche anno più grande di me (poteva avere 12, 13 anni?) mi passò affianco e poi mi appiccicò al muro, dicendo che gli avevo mancato di rispetto. Che in sua presenza bisognava tenere gli occhi bassi e non fiatare. Gli altri due miei compagni di passeggiata se la squagliarono facendo finta di non conoscermi. L’omertà dunque s’impara da piccoli.

Alla scuola media, al cesso, tre tipi dell’ultimo anni mi chiesero mille lire per garantirmi la loro protezione. Protezione da che? Gallico, paga e stai zitto, mi risposero. Dissi che non avevo addosso le mille lire. Mi presero con la forza, mi perquisirono. Quando trovarono cinquecento lire nelle mie tasche, mi arrivarono una raffica di ceffoni e un paio di insulti. Ero un infame che non capiva una minchia.
I più forti bisognava onorarli!

Sono episodi da niente, ripescati a casaccio fra tanti, eppure a osservarli capisco come la mentalità mafiosa s’incuneasse allora in ogni quotidiano infantile, quanto si mescolasse ad ogni traccia biografica indipendentemente dal livello sociale ed economico di provenienza.

Ho assistito ad un numero infinito di liti causate per lo più da uno sguardo. Non si aspettava molto a tirar fuori i coltelli. Ho visto gatti morti squartati, lasciati come avvertimento sullo stuoino della mia vicina di casa: una baronessa vedova che aveva deciso di non pagare il pizzo ai mafiosi (gli assassini di suo marito). La prima volta che ho sentito la puzza di plastica che fa una macchina bruciata è stato a metà degli anni novanta: era la Lancia di un amico dei miei, che faceva l’ingegnere e non aveva accettato alcune pressioni.

Reggio Calabria è rimasta nei miei ricordi da bambino come la città dei duecento omicidi l’anno. Negli anni ’80 la media era quella, Reggio città di delitti, un morto di lupara ogni due giorni, la faida fra i clan. Poi la capitale del delitto divenne Palermo, mentre Reggio all’inizio degli anni ’90 assunse il ruolo di città dolente, quella della corruzione non soltanto politica, dove il sindaco, facendo il pentito, denunziava tutta la giunta comunale , ma della corruzione generale, a tutti i livelli.

Me ne andai, soffocato da quell’ambiente. Non avevo paura a restare lì, più che altro m’era passata la voglia. Mi deprimeva, mi faceva incazzare quella staticità, quella melma che immobilizzava ogni idea, ogni speranza.
Sono ormai dieci anni che non abito più al sud, da cinque anni non vivo più in Italia.
Ogni tanto torno a trovare mio padre. I miei vecchi amici, alcuni si sono rincoglioniti ed adeguati al sistema, diventando ciechi di fronte ai problemi sociali, più che evidenti, altri continuano a combattere. Quando chiedo loro perché, mi rispondono: è la nostra terra.

Io questo concetto di legame alla terra non l’ho mai capito. È uno dei punti forti del meridionalismo, una corrente che a mio parere non ha portato giovamenti al sud, esaltando troppo gli aspetti positivi del meridione, ma ridimensionandone eccessivamente cataclismi e catastrofi. Il meridionalismo ha comportato a volte che i problemi venissero cancellati, li ha resi inesistenti.

A volte mi viene in mente di tornare, di trasferirmi di nuovo a Reggio. Per provare a creare resistenze, antifada sociali, nicchie culturali e vitali dove poter respirare, per me e altri come me.
Perché non è vero che se ti fai i fatti tuoi, puoi vivere bene; no, al sud o combatti o ti hanno sopraffatto. O combatti oppure prima o poi c’è uno che viene e ti appiccica al muro se sei troppo libero. E ti dice che devi tenere gli occhi bassi e non fiatare.
E allora mi chiedo se ne vale la pena. Se fosse per il legame con la terra non me ne sbatterebbe nulla, ma si tratta della dignità umana. Di solidarietà con gente che ogni giorno lotta contro il clima mafioso.
Forse prima o poi deciderò che devo tornare.

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21 Commenti

  1. io una volta andavo in bici davanti allo stretto. era un pomeriggio di agosto. al mare coi miei non ero voluto andare. eravamo vicini di ombrellone del giudice scopelliti. che quel pomeriggio di agosto è stato ammazzato mentre dal mare ci ritornava.
    tutto il paese andato a vedere subito la macchina rovesciata. anche io con la mia bici.

  2. Noi di Fano (provincia di Pesaro Urbino) consideriamo meridionali tutti quelli che abitano da Ancona in giù. Quando, dopo anni di residenza a Venezia, sposai una veneta, suo padre le domandò: “Di dov’è questo ragazzo?”. Risposta: “Di Fano, sotto Rimini”. Commento vagamente allarmato: “Ah, de zo par de à![= di laggiù”]”
    Qui a Venezia, invece, tutti quelli che abitano al di là del ponte della Libertà sono considerati campagnoli. Comunque la scelta di “Gallico” come nick di uno di Reggio Calabria mi sembra abbastanza inappropriato:-)

  3. Non sarete mica tutti come Roquentin, che voleva denunciarmi all’amministratore (?) del sito per aver reso pubblico ciò che lui stesso aveva reso pubblico, eh?

  4. a parte il simpatico fake, cioè a parte lui che è così simpatico, credo che ognuno abbia il diritto di dimenticare le proprie origini, di rinnegare i luoghi dove è nato e vissuto, senza doversi sentire perennemente responsabile del degrado che li affligge e delle culture di cui sono intrisi.
    l’opposizione individuale ad un intero ambiente, oltre che pericolosa, è anche inutile, di solito.
    ho lavorato per qualche anno a Reggio Calabria e ho percepito mondi mentali, oltre che fisici, per me decisamente incomprensibili e però forti e radicati, capaci di deformare l’intera modalità relazionale di un individuo, a partire dal lavoro.
    roba seria e antica, però, che non si sradica in un decennio e manco in un secolo.
    non so.

  5. @ tashtego
    Non si tratta di responsabilità intesa come senso di colpa: oddio, me ne sono andato, me ne fotto di ciò che succede a coloro che per caso sono nati dove sono nato io, allora sono un verme, un codardo… No! Si tratta di responsabilità intesa come solidarietà, cosa ben lontana dall’altruismo. Cioè quel senso di giustizia del quale ognuno dovrebbe godere come vorremmo goderne noi, in prima persona, senza privarci di nulla. Non è sacrificio o concessiole, ma divisione legittima, ripartizione dei diritti…
    Neanch’io confido negli eroi solitari, ma credo che alcune figure singole possano smuoverne altre, creare una dimensione critica e collettiva (una subcultura) ai dinosauri mafiosi del sud, ad esempio come fa Roberto con i suoi articoli creando una resistenza (almeno) intellettuale.

    @ Angelini
    Mistero svelato: il cognome è quello. Per il nome non ci vuole tutta ‘sta fantasia, protesterò con i miei amici e conoscenti che hanno iniziato a chiamarmi così, abbraviando il mio nome di battesimo, solo che dopo un po’ anch’io mi ci sono abituato.

  6. Penso che Gallico se ne sia andato da Reggio Calabria per ragioni di lavoro, così come fanno altri.

    Questa è una ragione comprensibile, amara ma comprensibile.

    Tutte le altre ragioni (corruzione, mafia, omertà, degrado sociale, e così via) avrebbero dovuto consigliare di rimanere.

    Se quelli che potrebbero insieme modificare le cose, se ne vanno, non ci sono molte speranze per il sud, o no?

    Bart

  7. Per V. Gallico. Ah, ho capito. O ti chiami Avicenna o Vin Santo. Di qui non si sfugge.

  8. Credo che alla Standa abbiano rubato tutti Vins; nell’Italia di provincia (fine anni’70/primi anni ’80) se non lo facevi eri considerato una mezza sega!

    Circa questo auto esiliarsi, questo autosradicarsi di cui scrivi qui, bhè, credo sia come portarsi costantemente nel petto il focolare di una battaglia. Per certe coscienze il luogo di nascita è sinonimo di dolore sia che si decida di restare, di partire o di tornare; difficilmente si trova la pace, ma vale comunque la pena di agire per sentirsi almeno in pace con se stessi.

    Mia Hoffmann

  9. Mi sembra molto centrato quel che dice Mia – che la geografia è anzitutto dell’anima. E della radice nulla si può dire, la si sente. Qesto, almeno, è ciò che sento io.

  10. si possono sentire e dire tante cose, quando si parla di sud. Il fatto è che molti termini- non è il caso di gallico- rischiano di essere semplicemente inadeguati. Tempo fa ne parlavo con un amico e mi venne da citare La danza immobile, di Scorza. Si può scegliere l’amore o la rivoluzione poi comunque, alla fine, si rischia di pensare che l’altra scelta sarebbe comunque stata la migliore.
    Del resto una volta mi dissero che noi del “sud” venivamo da un mondo dove si muore se si resta e si muore se si va via.
    Vado da anni tutte le estati a Reggio Calabria- città di mia moglie- e vedo le cose di cui parla Vins. Capisco il dialetto ormai; forse capisco anche il senso di un’espressione che suona “m’indi futtu” e che non è spiegabile nel suo metasignificato a chi non ha il desiderio di uscire dal senso comune delle parole : non ci vedrei assonanze di significato col “me ne frego” fascista- pronunciato a voce dura e alta- nonostante l’evidente sembianza dei significanti. Il “m’indi futtu” è pronunciato generalmente a voce bassa, con una lieve alzata di spalle, con la neanche tanto sottesa certezza della condivisibilità da parte dell’interlocutore.
    C’è stato un periodo, con Falcomatà- il sindaco di una breve stagione di tentativi- in cui sembrava che una persona “simbolo” potesse spingere a scaricare quella locuzione di tutto il suo essere. Succede al sud- raramente, molto raramente- quando si pensa che la politica potrebbe in qualche maniera fermare l’entropia, quanto meno quella delle menti che avrebbero molto da produrre in termini di pura fattualità. Falcomatà aveva dato un segnale, in qualche modo forte e concreto, che qualcosa si poteva fare per superare il senso di superiore decadenza che si respira a Reggio e molti ci hanno creduto. Anche perché altro non c’era. Falcomatà è morto e- credetemi- mi è sembrato che da un giorno all’altro fossero morte anche le cose minime, basilari, che lui aveva a suo modo indicato.
    Per cui io capisco tutti i cenni alla geografia come luogo dell’anima o al chissenefrega della terra, ma, come appunto dice vins, non è una questione di legame con la terra ma di dignità umana, di solidarietà per chi laggiù lotta, quella cosa che fa pensare che forse è proprio il caso di tornare. Avremmo sempre occasione di pentircene, poi…

  11. Io sono una di quelle che da Reggio se ne sono andati perche’, come vins, si sentivano soffocare.
    Chiaro, me ne sono andata dalla citta’ mafiosa dei Rosmini, dei Libri, dei Pesce, dei Bareca.
    Me ne sono andata dalla citta’fascista che vive ancora nel mito del BOIA CHI MOLLA e di Ciccio Franco. Ma quella da cui principalmente me ne sono andato e’ la citta’ ottusa e servile del ” sempre a vostra disposizione” e del “comandiamo ‘Gnuri”, dalla citta’ che ha sempre bisogno di un padrone di cui sentirsi vittima e schiava ma da cui continuare a sperare qualcosa. Reggio non conosce la parola ” diritti”, questi a Reggio si chiamano ” favuri” e non si pretendono, si chiedono a mezza voce, biasciando timorosamente ad un orecchio che “conta”.
    Io ci ho provato a “resistere” in questa citta’ che elemosina e si autocommisera, che si sente furba e non si accorge di vivere nel terrore. Ma il guaio e’ che, anche se si fotunato, anche se poi alla fine non ti rincoglionisci, anche se riesci a mntenere una certa lucidita’ e a salvare il tuo senso critico, anche se ci riesci, rimani comunque da solo.
    La “mafiosita’” a Reggio e’ la matrice che plasma tutti i processi relazionali: nelle scuole, negli uffici, nelle sedi di quei partiti che a certe dinamiche dovrebbero opporsi, anche dove non ci vuoi credere anche nei centri sociali. Io me ne sono andata perche’ mi sentivo diversa, e mi e’ costato emanciparmi da certe logiche. Ritornarci?
    Non ci penso.

  12. P.S. Io nella stessa Standa ho rubato una colla stick e un gomma. Sara’ che la il reparto cartoleria era vicino all’uscita!

  13. Io non conosco direttamente la realtà del sud, se non attraverso i racconti – e voi certo me la state facendo conoscere meglio. Voglio dire che non so quale sarebbe (stato) il mio modo d’essere laddove fossi nato al Sud. Io sono nel centro-nord, e non sento questo legame forte con la terra che traspare dalle vostre parole – sia di chi resta sia di chi se ne va. Per me la geografia è davvero più che altro un luogo dell’anima. Ma il modo di vivere lo spazio cambia – a seconda dello spazio stesso, appunto. E conseguentemente, anche il senso di responsabilità e solidarietà assume diverse connotazioni, e de.finizioni.

  14. Se non me ne fossi andata trent’anni fa, il Sud avrebbe soffocato la mia anima: oggi, trent’anni dopo, quando torno laggiù trovo solo cadaveri e macerie, e le erbacce che crescono dove c’erano germogli di cose belle. Non mi sono pentita: non ero e non sono abbastanza forte, il conformismo meridionale ha una potenza incredibile. Per me che sono lucana, non è “mi’ ndi futtu”, è la rassegnazione al non poter agire, insieme alla volontà di non volere agire, racchiusa nel sospirato ” e ch’amma fà”?”che vulimmo fa?”

  15. Le città come le persone cambiano: anche Reggio Calabria è cambiata. Non è più la città invisibile che diventava vera solo in prima pagina. Oggi alle fermate dell’autobus ci trovi le persone: forse non ancora piene di speranza, ma persone. Scrivere da Sud è questa la vera emergenza:dare vita attraverso le parole a chi non sempre è stato vivo.

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