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“Guadagno più di te e quindi ne so più di te”

di Aldo Nove

gerarchia.jpgLeonardo ha più di 30 anni e dirige una piccola e agguerrita casa editrice.
Per vivere, dopo la laurea umanistica, ha fatto diversi lavori. E’ anche lui figlio della grande bolla del Web.
Questa è la sua storia.
E la sua attenta concezione del mondo che cambia.

Come va?

In un modo molto, molto strano.

Cioè?

Cioè che non capisco più se sono vittima o carnefice.

Ti riferisci al lavoro?

Certo. Proprio a quello. Ne ho accettato le regole. Vengo da una famiglia borghese, che mi ha mantenuto agli studi. Il primo anno, dopo l’università, senza l’aiuto dei miei genitori non sarei riuscito a sopravvivere. Del resto, siamo una generazione che vive erodendo il capitale raccolto nel passato. Comunque, ho iniziato a lavorare in una Dotcom come responsabile della comunicazione interna e esterna.

Cos’è una Dotcom?

E’ un’agenzia che si occupa di operazioni produttive e commerciali legate strettamente al mondo del web. Comunque, l’azienda, all’apparenza florida, è entrata in crisi e io, come responsabile delle comunicazioni, avrei dovuto avvallare dei licenziamenti. Ho preferito non farlo, e andarmene.

Dove sei finito?

In un’azienda più grande. E quindi di fronte a ancora più grandi meschinità, a meccanismi di costanti bassezze umane praticate ogni giorno.

Ad esempio?

Ad esempio un giorno c’era una riunione con un capo. Il progetto faceva capo a tre responsabili, di cui uno assente. E per tutto il tempo si parla di sue presunte mancanze. Dico che bisognerebbe sentire l’opinione anche dell’assente, a maggior ragione perché non c’è.

E loro?

Mi viene detto che no, e dell’assente se ne dicono di tutti i colori. Me ne torno in ufficio e la persona che avevo timidamente difeso, l’assente appunto, mi chiama per chiedermi il motivo per cui avevo parlato male di lui. Tutto questo perché chi lo aveva effettivamente attaccato si era pure premurato di chiamarlo per dirgli che io, che lo avevo difeso, ero stato quello che avevo parlato male di lui. Normali tecniche di carrierismo belligerante. Nella totale assenza di qualunque etica dei rapporti. Me ne sono successe anche altre, tante…

Me ne racconti qualcuna?

Dopo poco che ero entrato ho saputo che era già stato preparato un dossier su di me. Ad esempio che avevo lavorato per un Centro Sociale e questo era bell’evidenziato nel mio controcurriculum approntato per mettermi in cattiva luce. Comunque, le regole del gioco, oggi, sono chiare…

E quali sono?

Uno contro tutti. Senza pietà. Per questo ti dicevo, all’inizio, che non capisco più se sono vittima o carnefice. Infatti credo, come diceva Elsa Morante che non è il fine a giustificare i mezzi ma sono i mezzi a denunciare i fini. Stare nel gioco ti obbliga a interpretare entrambi i ruoli, spesso senza una differenziazione netta. Ho visto tante di quelle persone fatte fuori così, senza un motivo reale, per pure relazioni di potere, per reattivo sfogo sull’inferiore delle frustrazioni accumulate con il superiore. L’impressione mia è che i rapporti umani siano tornati a quelli di un’altra epoca storica, ben determinata.

Quale?

Il medioevo.

Non mi sembra esaltante.

E’ molto deprimente, e comunque si rimane qui, per sopravvivere. Ho riscontrato una cosa. Che è a seconda dei rapporti gerarchici che due persone possano o meno entrare in contatto. Se il rapporto è troppo distante di solito non ti si risponde nemmeno. C’è un bene, oggi, astratto, che diventa sempre più raro. Ed è il tempo.

Il tempo?

Nel senso che nel mondo del business chi non ha vantaggi immediati nell’ascoltarti non ti risponde nemmeno, non considera neppure la tua esistenza. Ad esempio con la mia casa editrice i tentativi di comunicazione con alcuni uffici stampa delle realtà editoriali molto grosse cadono puntualmente nel vuoto. Non ti dicono neppure di no. Semplicemente non esisti.

C’è un motto che dice che il potere per escluderti non ti dà contro, ma ti ignora…

Ed è esatto. Solo che oggi questo mi sembra accada a qualunque livello. E’ per questo che ho parlato di medioevo. Pensa alla figura del pr, non è strana? Esiste per fungere da filtro, anche insistente, tra mondi che diversamente non si degnerebbero di prenderti in considerazione. Il pr è una persona che vende il suo tempo per obbligare gli altri a dedicarti del tempo.

In effetti è molto alienante…

Tutte le relazioni diventano così relazioni di potere. Lavoro da dieci anni, ormai, ed ho una certa esperienza. Ed è tutto così innaturale. Così fantastico. I leccaculo fanno carriera. E questo crea isolamento. Finzione. Credo che sia una cosa positiva quando un sottoposto ti dice quello che pensa. E’ molto più utile ma forse immediatamente meno gratificante, nel tipo di alienazione che viviamo. Comunque, tanto per spiegarti ancora meglio l’ambiente, due giorni prima che entrassi nel mio nuovo posto di lavoro ho saputo che esistevano due lettere tese al mio licenziamento… Magari solo voci, ma assai verosimili.

Pazzesco…

Sì. Un tempo ci si poteva appassionare dei grandi intrighi di potere, delle saghe di spionaggio internazionale. Oggi, in un processo di democraticizzazione assoluta del peggio, l’intrighetto è alla portata di tutti, fa parte del lavoro quotidiano e rientra nell’alterazione dei rapporti in campo lavorativo nei termini in cui ne stiamo parlando, che sono poi quelli del lavoro com’è oggi, come lo vivo io oggi sulla mia pelle, e non credo di essere paranoico, anche perché si tratta semplicemente di fatti, sono cose del tutto normali. Ne sento tanti, di racconti così. Ti racconto la storia di un mio amico.

Sentiamo.

E’ uno che già nel Novantanove ha provato a fondare un sindacato del precariato. Un grande idealista….

Cosa faceva?

Andava nei call-center e ascoltava le storie dei lavoratori, di come stessero l’uno peggio dell’altro. Assorbiva tutte le loro storie di disperazione quotidiana e poi diceva “va bene, proviamo a metterci insieme e a fare qualcosa per protestare”. A quel punto scappavano tutti. Terrorizzati. Per la paura di rischiare. Per la paura di perdere il posto. Per la paura di perdere i soldi. E’ questo il dramma, se accetti il gioco oggi. Vittima o carnefice?

Perché pensi che accada tutto questo?

Per un misto di paura e di fatale rassegnazione. E in fondo anche per un po’ di vigliaccheria. Un po’ siamo anche noi gli arbitri del nostro destino. E’ che tutti si lamentano, ma alla fine non rischia nessuno.

Raccontami la tua giornata media di lavoro.

Alle sei e mezza del mattino mi alzo. Rispondo alle mail, penso, leggo, e poi vado al lavoro verso le otto e mezza. Il grosso del lavoro lo faccio quando sono solo. Poi diventa un delirio. Ci si disperde in telefonate, in applicazioni reciproche di mobbing. In un contesto in cui è tutto inventato, è tutto finto.

In che senso, è tutto finto?

Ad esempio le date di consegna non corrispondono alla realtà, mai. Sono gonfiate in modo che ogni superiore, rispetto al sottoposto, ricavi dei margini di tempo da utilizzare di per sé. Ancora, il problema del tempo. Tutto è follemente velocizzato, e in questo processo, dove a perdere tutto è la qualità, ciascuno cerca di “fare la cresta” rubando il tempo degli altri. Credo che questo succeda ovunque.

Mi interessa molto, questa riflessione sulla qualità.

In un sistema in cui si produce una quantità mostruosa di informazioni che poi si buttano, la qualità non è più in alcun modo un requisito significativo. Prima che qualcuno si renda conto della cattiva qualità di un progetto, il progetto è già finito. Pensa ai libri, che dovrebbero rappresentare il luogo in cui viene custodita la qualità del pensiero. Le case editrici sono talmente diventate delle macchine di produzione ininterrotta che la quantità di refusi presente anche nei titoli delle case editrici più blasonate è impressionante. Ma chi se ne frega? Tanto un libro dura in libreria come un pesce sul balcone del pescivendolo. Subito ne arrivano degli altri, il ciclo continua, e ci si dimentica di tutto…

Torniamo a te. Qual è il tuo ruolo esatto, all’interno dell’azienda in cui lavori? Mi parlavi di “responsabile della comunicazione”… Ti definisci meglio?

Pubblicità, cura dell’immagine, del marchio, delle sponsorizzazioni… in realtà è un ruolo trasversale in cui faccio molte cose, che sconfinano in diversi ambiti ma sempre in relazione alla comunicazione. Anzi, alle comunicazioni… Insomma, è anche una figura coagulante attorno alla quale dovrebbero convergere un po’ tutti, non fosse altro che per gli interessi comuni. E questo forse mi fa rendere conto di quanto, invece, le cose progressivamente peggiorino. Ho fatto delle letture che mi hanno molto impressionato, recentemente…

Quali?

Il Piano Rinascita di Licio Gelli e 1984, di Orwell. C’era già scritto tutto quello che accade oggi. Il governo Berlusconi in questo senso è il risultato di un processo che è incominciato parecchio tempo fa. Poi lui l’autoalimenta molto bene, questo processo, essendone un entusiasta epigono. Ma il concetto secondo il quale oggi si può dire qualunque cosa, tanto domani tutti se la sono dimenticata, e l’altro concetto, “la qualità non è importante”, hanno la stessa matrice e procedono dallo stesso processo. Ci sono delle regole molto forti di produzione della comunicazione che manipolate secondo interessi forti diventano le basi della nostra società.

Ad esempio?

Ad esempio hai in mente l’“I want you!” dell’esercito americano? Rispondeva perfettamente ai dettami di una psicologia comportamentale secondo la quale io ti bombardo con una cosa molto netta, molto chiara, ti do lo stimolo e tu reagisci… In questo quotidiano meccanicismo reattivo alla pubblicità viviamo e si generano i nostri desideri.

Mi stavi raccontando la tua giornata di lavoro. Torniamo a quella…

Sì, ti dicevo che la maggior parte del tempo la impiego a cercare di dirimere le piccole strategie con cui ciascuno cerca di fare le scarpe agli altri… poi c’è il lavoro vero e proprio, che è una piccola parte, e poi il ritorno a casa, verso le otto e mezza di sera, e poi riprendo la mia vita normale, dopo qualche ora di decompressione perché ho bisogno di un buon periodo di decompressione, prima di tornare a una normalità di base… Tutta la violenza che ingoio in qualche modo la devo buttare fuori… Allora alla fine della giornata pensi alla mostruosità del sistema in cui ti trovi, alle sue anomalie assolute…

Ad esempio?

La gerarchizzazione assoluta in base al potere effettivo e non alle competenze. Il fatto che spesso chi sta sotto ne sa di più di chi comanda ma deve sottostare. E’ come se tu vai dal medico, ti fa male la pancia, senti che ti fa male e sai anche che il giorno prima hai mangiato qualcosa che non andava e quello ti dice che hai l’otite, e tu per rispettare le regole del gioco devi dire di sì, che hai l’otite, ti tieni il mal di pancia e prendi le medicine per l’orecchio che il medico pazzo ti prescrive.

Che impressione.

E’ così, nel campo delle comunicazioni succede così. Ci sono delle leggi, è una vera e propria scienza, ma chiunque crede di saperne di più. Il vero principio è “io guadagno più di te e quindi ne so più di te”, e si ritorna alla formula di prima, secondo la quale la qualità non ha più nessuna importanza.

Mi parli della tua famiglia?

Mia madre viene da una famiglia bene, andata in rovina durante il fascismo. Mio padre, di sinistra, è di origine operaia, studiava ma poi ha dovuto mollare gli studi per mantenere la famiglia, se ne sono andati all’estero e hanno fatto gli emigranti. Poi mio padre ha trovato un buon lavoro a Londra, ha lavorato in Germania, e in coincidenza con la mia nascita sono tornati a Milano. Adesso da qualche anno se ne sono andati da Milano, e mio padre sogna di passare i suoi ultimi anni nel terzo mondo, per vedere un altro modo di vivere. Credo che anche lui sia convinto che viviamo in una forma tutta particolare di dittatura.

Che dittatura?

Una dittatura economica. Discreta quanto potente. Gli interessi dell’informazione sono legati agli interessi economici, è ovvio. Prendi un quotidiano come “La Repubblica”, che dovrebbe essere contro Berlusconi. Alla fine non affonda mai. Poi uno pensa, magari sbagliando, quanti interessi economici, in campo pubblicitario, sono legati alle proprietà del capo del governo?

Andiamo indietro nel tempo, a quando eri bambino. Cosa sognavi di diventare, da piccolo?

Alle elementari ero molto pigro. Quindi sognavo di diventare bidello. Era la figura sociale, tra quelle che conoscevo, che mi sembrava facesse di meno. Poi quando è incominciata l’università mi è cambiato completamente l’atteggiamento. Diciamo che mi è venuta voglia di fare, anche se ho vissuto la classica crisi di fine del percorso di studi, nel senso che ho fatto tutti gli esami di corsa, poi ho fatto il servizio civile, ho perso tempo e per laurearmi ci ho messo un bel po’ di tempo.

E alla fine dell’università?

Alla fine dell’università, nel Novantasei, ho iniziato a fare giornalismo sul web, che allora era una cosa relativamente nuova, ho imparato quel linguaggio, e in quell’ambito poi sono rimasto, anche dopo la crisi, che c’è stata agli inizi del Novantanove.

Quindi la bolla è durata un paio d’anni?

Sì, dal Novantasei a tutto il Novantotto. Era un bel periodo. Come si fossero clonati per un attimo gli anni Ottanta nella seconda metà dei Novanta. Soldi facili per tutti. Nuovi panorami economici che si sono afflosciati su se stessi in 24 mesi. C’era l’illusione di un futuro possibile che poi è scomparso.

E’ scomparso il futuro?

La sua percezione. La sua sicurezza. Diciamo che dopo la crisi reale, quello che è successo dopo, compreso il crollo delle Torri gemelle e tutto il resto, a livello planetario, ne è stata la conseguenza. La conseguenza di un nuovo ordine mondiale.

Fammi un esempio, per capire meglio…

C’è un dialogo bellissimo, in un libro di Don De Lillo, in cui un terrorista e uno scrittore parlano di arte. A un certo punto lo scrittore dice al terrorista che è lui, che può modificare l’arte. Proprio a livello di informazione, il terrorista e la rete che ne sostiene, anche indirettamente, la parola, è diventato il massimo comunicatore. Tutto questo, per quanto terribile, mi pare oggi evidente.

Cosa ci può salvare?

La cultura. La cultura vera. Che non sta nella produzione e nel consumo di cultura, ma nello studio serio, articolato nel tempo, della realtà e del linguaggio che lo informa. Non si tratta di assumere più informazioni perché ne siamo bombardati, ma di selezionarle, di discernere quelle importanti e capirle…

Mi viene in mente, ascoltando quello che dici, una frase di Enrico Berlinguer, che negli anni Settanta disse “Io non sono uno che legge molto. Sono uno che rilegge molto”…

Esattamente così. Provare a approfondire quando tutto vuole essere e rimane in una sconfinata superficie, che ci fa vivere sulla cresta di un mare di merci e illusioni che non dobbiamo capire, perché nel momento in cui lo capiamo poi ci può essere la reazione, la rivolta.

Torniamo alla crisi. Quali sono, nel quotidiano, i suoi sintomi?

Nell’informazione, ad esempio, l’affermarsi della cultura del “taglia e incolla”. Da qualche parte ha origine l’informazione, anzi, le informazioni, che sono infinite, e poi queste vengono riprese dalla macchina mondiale esattamente come sono. Limitiamo il campo al mondo editoriale, per fare un esempio. Prendi le recensioni. Nella stragrande maggioranza non sono vere recensioni. Sono “taglia e incolla” del comunicato stampa. Insomma. Abbiamo, all’apparenza, molte più informazioni, ed in qualche modo è vero. Ma in realtà si sono moltiplicati all’infiniti i mezzi di riproduzione, di riciclo. E’ come se vivessimo storditi da milioni di amplificatori che alla fine dicono tutti le stesse cose, e se qualcuno dice qualcosa di diverso viene coperto dagli altri, e se qualcosa di diverso riusciamo a intercettarlo il tempo scorre così veloce che non c’è il tempo materiale per mettersi a comprenderlo. Il modo in cui viviamo il tempo è anche legato alle forme in cui il tempo ci viene elargito. Nel mondo del lavoro la tendenza è a sottrarcelo…

In che senso?

L’assenza di tutele, di sicurezze, il precariato, sono tutte facce della stessa medaglia. La condizione attuale in cui tutto viene vissuto con ansia, un “qui e subito” che non ha certo a che fare con Goethe e con la bellezza dell’attimo ma con il fatto che la realtà è tutta spezzata e ci atteniamo al dato biologico, quello imprescindibile. Un eterno adesso, gonfio di paura, e poi tra un’ora è un altro giorno.

Pubblicato su Liberazione, maggio 2005.

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23 Commenti

  1. posso certificare che le stesse cose succedevano anche trent’anni fa, e hanno continuato a succedere per trent’anni, e continueranno a succedere per i prossimi trecentomila… Forse il problema bisogna affrontarlo da un altro lato.

  2. L’uomo moderno, giunto ad un nuovo gradino della scala evolutiva, potrebbe essere definito come l’homo imbaculis. L’imbecille per antonomasia, l’acritico consumatore, il volubile inseguitor di mode e tendenza, il cembalo che tintinna svuotato d’ogni principio, riempito però dai neo-valori proposti dalla moderna società. Insomma, il figlio dell’Uomo Senza Qualità. Questo uomo, alla ricerca di denaro, successo, erotismofastfood, istnat-book e via discorrende non può che essere homini lupus e a qualcuno va bene che sia così. Il segreto di questo qualcuno è che noi siamo “massa” e fino a quando rimarremo “massa” riusciranno ad avere il controllo. Questo il motivo per cui cercano continuamente di narcotizzarci e gettarci nell’incertezza e nella paura. Sia ben chiaro, io non soffro di nessuna sindrome del complotto e sono certo che l’essere umano ha di per sé dei lati oscuri, tuttavia credo anche che il progressivo invaginamento dell’umanità sia figlio del processo di violenza mediatica di cui siamo vittime. Questa violenza è intenzionale e diretta a creare uno stato di confusione tale da rendere più agevole il fine ultimo del potere, che, come considerano tutte le teorie normativiste e istituzionaliste, è sempre e solo quello di consolidare se stesso. In tal senso penso che il vero fautore del terrorismo sia questo potere, potere che però non è più nelle mani di qualche sovranità nazionale, ma è detenuto da un ologopolio industriale e mediatico. Dirò anche che il modus operandi di questo serial killer è quello di gettare ognuno nella situazione parossistica dell’individualismo in cui cane mangia cane. E’ con il risveglio e l’autonomia della coscienza individuale che riusciremo nuovamente ad essere “insieme” e non più massa inerte, ma per giungere a questo stato dobbiamo riscoprire la “fatica”: la fatica di scegliere, la fatica di ascoltare, la fatica di rinunciare, la fatica di crescere.

  3. se è per questo a me hanno rinnovato il contratto trimestrale e detto che le condizioni economiche del trimestre precendente erano cambiate. indovinate se in meglio o in peggio?

  4. Purtroppo la nostra società non capisce questa situazione drammatica e solo grazie a un sito come nazione indiana qualcuno al giorno d’oggi può raggiungere la verità. Io spero che verranno moltiplicati questo genere di articoli affinché un giorno ci saranno realmente gli interessi dei lavoratori, e la cultura sarà finalmente più libera dell’economia essendo diventata equa e solidale.

  5. Le classi dominate non intervengono nelle lotte simboliche per l’appropriazione delle proprietà distintive che conferiscono la loro fisionomia ai diversi stili di vita, e soprattutto nelle lotte per la definizione delle proprietà che meritano di venir appropriate e del modo legittimo di appropriarsene, se non a titolo di indizio passivo, di riferimento negativo.
    La natura, contro cui in questo caso si costruisce la cultura, non è nient’altro che tutto quanto costituisce il “popolo”, il “popolare”, il “volgare”, l’ “ordinario”. Di conseguenza, chi vuole “arrivare” deve pagare il suo diritto di accesso a tutto quanto definisce gli uomini propriamente umani, con un autentico cambiamento di natura (ed è questo, più di ogni altra cosa, l’occasione giusta di parlare di “metabasis eis allo genos”), una “promozione sociale” vissuta come promozione ontologica o, se preferiamo, come un processo di civilizzazione (e Hugo parla da qualche parte di “potenza civilizzatrice dell’arte”), un balzo dalla natura alla cultura, dall’animalità all’umanità; ma, introducendo con ciò in se stessi la lotta tra le classi, che costituisce il cuore stesso della cultura, si è condannati alla vergogna, all’orrore, se non addirittura all’odio per il vecchio uomo, per il suo modo di parlare, per il suo corpo, per i suoi gusti e per tutto ciò a cui esso era legato, il genos, l’origine, il padre, i suoi pari, a volte persino la lingua materna, tutte cose da cui si è ormai separati da una frontiera più invalicabile di qualsiasi interdetto.
    Le lotte la cui posta in gioco è costituita da tutto quanto, nel mondo sociale, appartiene all’ordine della credenza, del credito e del discredito, della percezione e della valutazione, della conoscenza e del riconoscimento – nome, reputazione, prestigio, onore, gloria, autorità, tutto ciò che costituisce il potere simbolico in quanto potere riconosciuto – concernono sempre e soltanto i detentori “distinti” ed i pretendenti “pretenziosi”. In quanto riconoscimento della distinzione, che si afferma nello sforzo di appropriarsene, anche solo sotto le sembianze illusorie del bluff o dell’imitazione, e per tracciare una linea di demarcazione nei confronti di coloro che ne sono privi, la pretesa ispira l’acquisizione, di per sé banalizzante, delle proprietà fino a quel momento maggiormente distintive, e contribuisce in tal modo ad alimentare in continuazione la tensione sul mercato dei beni simbolici; costringendo coloro che detengono le proprietà distintive minacciate dalla divulgazione e dalla volgarizzazione, a ricercare indefinitamente in nuove proprietà l’affermazione della propria rarità. La domanda che si produce incessantemente grazie a questa dialettica è inesauribile per definizione, giacché i bisogni dominati che la costituiscono devono ridefinirsi indefinitamente rispetto ad una distinzione che si definisce sempre in forma negativa rispetto ad essi.
    Come comprova l’inversione del rapporto tra le parti assegnate all’alimentazione ed all’abbigliamento e, più in generale, alla sostanza e all’apparenza, quando si passa dalla classe operaia alla piccola borghesia, le classi medie sono sempre dalla parte del simbolico. La loro preoccupazione per le apparenze, che può venir vissuta nella forma della coscienza infelice, a volte travestita da arroganza (per esempio nei “per me basta”, “a me piace” delle ville piccolo-borghesi), sta anche alla radice della loro pretenziosità, atteggiamento sempre presente in quella specie di bluff o di usurpazione di identità sociale, che consiste nel mettere le apparenze davanti alla realtà, nell’appropriarsi delle parvenze per avere la realtà, del nominale per il reale, nel cercare di modificare le posizioni delle classificazioni oggettive, modificando l’immagine dei ranghi nella classifica o dei criteri di classificazione.
    Il piccolo-borghese è colui che, condannato a tutte le contraddizioni esistenti tra una condizione oggettivamente dominata ed una partecipazione, nelle intenzioni e nelle volontà, ai valori dominanti, è ossessionato dalle apparenze che presenta agli altri e dal giudizio che gli altri danno delle sue apparenze. Poiché è portato ad eccedere per paura di non fare abbastanza e tradisce la sua incertezza e le sue preoccupazioni di esserci con la sua preoccupazione di dimostrare o di dare l’impressione di esserci, è condannato a venir percepito, tanto dalle classi popolari, che non hanno queste preoccupazioni di essere-per-gli-altri, quanto dai membri delle classi privilegiate, che, certi del loro essere, possono disinteressarsi del modo in cui appaiono, come l’uomo dell’apparenza, ossessionato dallo sguardo degli altri ed incessantemente intento a “farsi valere” agli occhi degli altri (“mi hai visto?”, “pugno nell’occhio”). Poiché fa tutt’uno con le apparenze, quelle che deve dare per adempiere alla propria funzione, vale a dire per adempiere al proprio ruolo, far credere e dare ad intendere, ispirare fiducia e rispetto e vendere il proprio personaggio sociale, la propria “presenza”, la propria immagine, come garanzia dei prodotti o dei servizi che offre, ma anche per affermare le sue pretese e le sue rivendicazioni, per far valere i propri interessi e i propri progetti di ascesa, è sempre incline a una visione berkeleiana del mondo sociale, ridotto in tal modo ad un teatro, nel quale l’essere è sempre e solo un essere percepito, o meglio, una rappresentazione (mentale) di una rappresentazione (teatrale). La sua posizione ambigua nella struttura sociale – a volte aggravata dall’ambiguità intrinseca a tutte le funzioni di intermediazione tra le classi, di manipolatore manipolato, di imbroglione imbrogliato -, spesso anche la sua stessa traiettoria, che lo porta a posizioni di comprimario, di secondo piano, di eminenza grigia, di comparsa, di coadiuvante, di supplente, di procuratore o di facente-funzione, privato dei profitti simbolici legati ad uno statuto riconosciuto ed alla delega ufficiale che rendono legittima l’impostura (ed in un’ottima posizione per poterne individuare la vera ragione), tutto lo predispone a percepire il mondo sociale in base alle categorie dell’apparenza e della realtà, ed esso è tanto più incline a dedicare alle manipolazioni ed alle imposture l’attenzione sospettosa del risentimento quanto più anche lui ha dovuto servirsene.
    Ma il luogo per eccellenza delle lotte simboliche è costituito dalla classe dominante stessa: le lotte per la definizione della cultura legittima, che vedono contrapposti gli intellettuali e gli artisti, sono solo un aspetto delle continue lotte, in cui le diverse frazioni della classe dominante si affrontano per imporre la definizione delle poste in gioco e delle armi legittime delle lotte sociali, o, se preferiamo, per definire il principio del dominio legittimo, capitale economico, capitale scolastico o capitale sociale, poteri sociali la cui efficacia specifica può venir moltiplicata dall’efficacia propriamente simbolica, cioè dall’autorità che proviene dal fatto di essere riconosciuti, delegati dalle credenze collettive. La lotta che oppone alle frazioni dominanti le frazioni dominate (anch’esse a loro volta costituite in campi, divisi dal lotte organizzate in base ad una struttura omologa a quella della classe dominante nel suo insieme) tende – nella sua ritraduzione ideologica, su cui la padronanza e l’iniziativa spettano alle frazioni dominate – ad organizzarsi in base a contrapposizioni più o meno sovrapponibili a quelle che la visione dominante stabilisce tra classe dominante e le classi dominate: da un lato la libertà, il disinteresse, la “purezza” dei gusti sublimati, la salvezza nell’al-di-là, ecc.; dall’altro il bisogno, l’interesse, la bassezza delle soddisfazioni materiali, la salvezza in questo mondo. Ne consegue che tutte le strategie prodotte dagli intellettuali e dagli artisti contro i “borghesi” tendono inevitabilmente, a prescindere da qualsiasi intenzione esplicita, ed in virtù della struttura stessa dello spazio in cui si producono, ad avere un duplice effetto, e ad essere dirette, indistintamente contro tutte le forme di sottomissione agli interessi materiali, sia popolari che borghesi; “Chiamo borghese chiunque pensi in modo basso”. Questa sovradeterminazione essenziale è proprio ciò che fa sì che i “borghesi” possano tanto disinvoltamente trovare nell’arte, che l’artista produce contro di loro, una occasione per comprovare la loro distinzione; volendo sottolineare, rispetto alle classi dominate, che essi si collocano dalla parte del “disinteresse”, della “libertà”, della “purezza”, dell'”anima”, rivoltano contro le altre classi le armi che sono state forgiate contro di loro.
    Non è un caso, e lo si vede, che l’arte e l’arte di vivere dominanti si trovino d’accordo sulle stesse distinzioni di fondo, che hanno tutte per principio la contrapposizione tra la necessità bruta e brutale, che si impone alla gente comune, ed il lusso, come attestazione di distanza rispetto alla necessità, o l’ascesi, come costrizione deliberatamente assunta: sue opposte maniere di negare la natura, il bisogno, l’appetito, il desiderio; tra lo spreco sfrenato, che ricorda, in negativo, le privazioni dell’esistenza comune, e la libertà ostentatoria delle spese gratuite, o l’ascesi delle restrizioni elettive; tra l’abbandono alle soddisfazioni immediate e facili e l’economia di mezzi, attestazione di una disponibilità di mezzi all’altezza dei mezzi posseduti. La disinvoltura incontra una approvazione tanto universale, solo perché rappresenta l’affermazione più visibile della libertà nei confronti delle costrizioni che dominano le persone comuni, l’attestazione più indiscutibile del capitale, in quanto capacità di soddisfare le esigenze iscritte nella natura biologica e sociale, o dell’autorità che autorizza ad ignorarle: è per questo che la disinvoltura in materia di linguaggio può affermarsi sia in quei tours de force, che consistono nell’andare al di là di quanto richiesto dai vincoli rigorosamente grammaticali o pragmatici, per esempio nel fare le liaisons facoltative, o nel sostituire, ai giri di parole o ai termini ordinari, tropi e parole rare; sia nella libertà nei confronti delle esigenze della lingua o della situazione, che si traduce in libertà o in licenze statutarie. Queste opposte strategie, che consentono di porsi al di là delle regole e delle convenienze imposte ai locutori ordinari, non si escludono affatto: queste forme di ostentazione della libertà, rappresentate dall’aumento dei vincoli e dalle trasgressioni deliberate, possono coesistere in momenti o a livelli differenti del discorso, giacché l'”allentamento” dell’ordine lessicale può venir controbilanciato, per esempio, da un aumento di tensione nella sintassi, o nella dizione, o viceversa (il che si vede bene nelle strategie di condiscendenza, in cui, persino lo scarto tra i livelli del linguaggio che esse mantengono, traduce nell’ordine del simbolico il doppio gioco della distanza affermata attraverso la parvenza stessa della sua negazione). Strategie di questo genere – che possono essere perfettamente inconsapevoli e, proprio per questo, tanto più efficaci – costituiscono la risposta più imparabile alle strategie di ipercorrezione dei pretendenti pretenziosi; i quali, condannati a eccedere o mancare sempre in qualche cosa, sono così respinti in uno stato di ansiosa incertezza sulla regola e sulla maniera legittima di conformarvisi e, paralizzati da questo ripiegamento nella riflessione, che rappresenta l’antitesi stessa della disinvoltura, non sanno più come cavarsela. Chi “può permettersi”, come si dice, di porsi al di là delle regole, sempre inviolabili per i pedanti e per i grammatici – di cui è facile capire come mai non siano affatto portati ad iscrivere questo tipo di giochi nelle loro regole, vale a dire come il taste maker, arbiter elegantiarum, le cui stesse trasgressioni non costituiscono affatto degli errori, bensì l’avvio o l’annuncio di una nuova moda, di un nuovo modo di esprimersi o di agire, destinato a imporsi come modello e , quindi, a diventare tipico, normale, ed a convertirsi in norma, in modo da richiamare così nuove trasgressioni da parte di coloro che rifiutano di farsi mettere in riga dalle regole, di fondersi e di confondersi nella classe definita dalla proprietà meno classificante, meno peculiare, più comune, meno distintiva e meno distinta. Ciò significa, tra parentesi, contro tutte le convinzioni ingenuamente darwiniane, che l’illusione (sociologicamente fondata) della “distinzione naturale” si fonda soprattutto sul potere che hanno coloro che dominano di imporre, con la loro stessa esistenza, una definizione della superiorità che, non essendo altra cosa che la loro stessa maniera di esistere, è destinata ad apparire al tempo stesso come distintiva, differente – e quindi arbitraria (perché è solo una tra le tante) – e perfettamente necessaria, assoluta, naturale.
    L’agio nel senso di “facilità naturale”, di disinvoltura non è altro che l’agio nel senso di “condizione fortunata che assicura una vita facile”: un’affermazione autodistruttiva, giacché non ci dovrebbe essere bisogno di ricordare che esso non sarebbe ciò che è, se non fosse anche una cosa effettivamente diversa; il che fa anch’esso parte della sua verità. Errore dell’oggettivismo, che omette di includere nella definizione completa dell’oggetto la rappresentazione di questo oggetto, che ha dovuto distruggere per raggiungere la sua definizione “oggettiva”; che dimentica di sottoporre ad un’ultima riduzione, quella riduzione indispensabile per cogliere la verità oggettiva dei fatti sociali, che sono oggetti il cui essere consiste anche nel loro essere percepiti. Occorre reintrodurre in una definizione completa dell’agio quello che si distrugge quando si ricorda che l’agio, come la virtù di Aristotele, esige una certa agiatezza (o, viceversa, che il disagio nasce dal disagio), cioè l’effetto di imposizione che, con la loro stessa esistenza, realizzano coloro che non hanno che da essere quello che sono per essere quello che si deve essere. Questa coincidenza perfetta rappresenta la definizione stessa dell’agio, ed a sua volta, comprova questa coincidenza dell’essere e del dover essere ed il potere di autoaffermazione che in essa si trova rinchiuso.
    Il valore che viene attribuito dalla disinvoltura, ed a tutte le forme di distanza nei proprio confronti, dipende dal fatto che, a differenza della tensione ansiosa dei pretendenti – abbarbicati alle cose che posseggono e sempre in discussione, tanto ad opera degli altri che di se stessi – esse attestano, contemporaneamente, con la loro stessa arroganza, sia il possesso di un forte capitale (linguistico o di altro genere) che di una libertà nei confronti di questo possesso, che rappresenta un’affermazione di secondo grado del proprio potere nei confronti della necessità. Le prodezze verbali o lo sperpero gratuito di tempo o di denaro, presupposti dal consumo materiale o simbolico dell’opera d’arte, o persino, alla seconda potenza, i vincoli e le restrizioni deliberatamente assunti, che costituiscono l'”ascetismo da benestante” (per usare il termine adoperato da Marx a proposito di Seneca), come il rifiuto del facile, che sta alla radice di tutte le estetiche “pure”, sono altrettante ripetizioni di questa variante della dialettica del signore e del servo,con cui i possidenti affermano il possesso che hanno di ciò che possiedono, moltiplicando in tal modo la loro distanza nei confronti dei diseredati, i quali, non contenti di essere sottomessi alla necessità in tutte le sue forme, offrono per di più adito al sospetto di essere posseduti dal desiderio di possedere e, quindi, potenzialmente posseduti dai possessi che non hanno, o che non hanno ancora.

  6. Io credo che se tutti facessero commenti lunghi come quello di Bernardo, il problema del TEMPO evidenziato nell’intervista si aggraverebbe ulteriormente:-/
    Il confronto in rete presuppone una maggiore stringatezza.

  7. Chiedo scusa, ma ce l’avevo sul taglia&incolla e mi è sembrato particolarmente pertinente (comunque non farò più cose simili). Il testo ovviamente non è mio. Gioco per i più colti scoprire di chi sia :-)

  8. Congrats Amaro Nero! Ma dimmi, dunque, tu cosa ne pensi in proposito? Non trovi che, se queste cose hanno una loro plausibilità (naturalmente problematica) occorrerebbe anzitutto “posizionarsi” lucidamente rispetto ad esse, prima di conformarsi al solito gioco dei proclami alle masse: la “restaurazione”, berlusconi eccetera eccetera?

  9. .. sapete che c’è..?.. secondo me, tutto questo non ha futuro, prima o poi esploderà – a meno che non si trovi una fonte di energia alternativa, che sconvolgerebbe il quadro demo-economico mondiale – e quando accadrà…quando non ne potremo più temo una risposta cieca e violenta, non rivoluzionaria, bensì reazionaria. La Germania nazista, prima di entrare in guerra, non aveva più un solo disoccupato: quando aveva vinto le elezioni, pochi anni prima, ne aveva 6 milioni…

  10. La fonte di energia c’è, ed è il nucleare; per il resto, si mandino i vecchi ora al potere in pensione, hanno triturato i coglioni per incapacità e continuo ballare sul baratro nel quale stiamo cadendo: questo paese non riesce più a produrre roba media capace di stare sul mercato, il 95% della gente sta andando in rovina. Basta idioti, svegliaaaaaaaaaaaaaa!!!!!!!!!!

  11. Grazie, Pippo :
    “L’essenza della borghesia il borghese la porta nel sangue? Esistono persone che siano borghesi ‘per natura’ e che così si distinguano dalle altre? Dovremo perciò cercare in una speciale qualità di sangue, in una speciale ‘natura” una delle fonti (o forse la fonte) dello spirito capitalistico? O quale significato in genere si deve attribuire alla qualità del sangue nell’origine e nello sviluppo di questo?”
    Avevo sentito un’aria di famiglia nello stile.

  12. La borghesia purtroppo continua a dominare la nostra società creando dei finti valori come la pornografia o internet come spiega Lello Voce in quell’intervista sul Foglio. Io mi rendo conto di tutto questo ma non riesco a cambiare le situazioni circostanti e spesso anche io sono attratto da queste cose. Per esempio adesso penso spesso a certi siti e a una moto che vorrei comprare da un amico che ho conosciuto su internet. Grazie.

  13. Ragazzi sono perfettamente daccordo con Aldo e con Lello Voce. Per quanto riguarda la moto si tratta di un NS dell 83. Per maggiori informazioni scrivetemi.

  14. Una piccola deviazione a proposito delle fonti di energie alternative. Il futuro non è il nucleare. In questi giorni la Svizzera pensa di smantellare le sue centrali e già l’Economist, tre anni fa, ne aveva sfatato il mito. Vi sono alcune precisazioni a proposito delle fonti fossili che prescindono dalla loro efficacia e guardano al loro impiego. Il problema riguarda in primis l’esubero e gli sprechi. Se c’è un secchio con un foro nel fondo, prima di preoccuparsi di dove andare attingere maggior acqua per riempirlo ci si dovrebbe preoccupare di chiudere quel buco, invece in Italia si fa una legge che obbliga a viaggiare con le luci accese, che si traduce in soldoni in un consumo per macchina/anno di 40 litri di benzina in più. Per dimostrare che il nucleare è l’unica strada si costruiscono Centrali a Pannelli Solari con degli impianti di raffreddamento che consumano più di quello che producono. Siamo seri.

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