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Il santo parricida

di Linnio Accorroni

sainjulien.jpgL’idea di portare a termine un antico progetto, la scrittura di una novella sulla figura di San Giuliano l’Ospitaliere, venne a Flaubert proprio mentre attraversava uno dei periodi più bui e cupi della sua esistenza: la causa prima di questa disperazione (curiosa coincidenza con ciò che era accaduto, pochi anni prima, a Beethoven con il famoso nipote Karl) stava nella difficilissima situazione finanziaria di una sua nipote, verso la quale lo scrittore nutriva un trasporto affettivo persino eccessivo, transfert ricorrente in chi devia e surroga la paura/desiderio di paternità, indirizzandola verso un membro prediletto della propria tribù d’appartenenza.

Il debito che sua nipote e l’altrettanto sprovveduto marito avevano contratto era tanto elevato da far temere addirittura la vendita del famoso pavillon di Croisset, vicino Rouen, sorta di buen retiro-grembo-guscio nel quale Flaubert preservava gelosamente la propria misantropia, curando allo stremo aggettivi e sintassi della sua cesellatissima prosa. Scrive in una lettera del 9 luglio 1875: (detto per inciso: penso che tra le gioie più intense che la vita possa riservarci quella della lettura dell’epistolario di Flaubert sia una delle più pure; si pilucchi, per prova, il carteggio, recentemente edito da Carocci, della sua corrispondenza con George Sand “Fossili di un mondo a venire”):

“Guardo ora Croisset con l’occhio di una madre che osservi il figlio tisico dicendosi : “quanto durerà ancora ?” e non riesco ad assuefarmi all’idea di una separazione definitiva”

Per sua fortuna, l’eremo di Croisset si salva ma, per tacitare i creditori più insistenti, Flaubert è costretto a vendere la fattoria di Deauville. Nell’ agosto dello stesso anno, quando la débâcle finanziaria è giunta al suo epilogo, Flaubert si rifugia, in sdegnosa solitudine, in un hotel, prefigurando foschi scenari :

“ Si annunciano giorni molto tristi: ristrettezze, umiliazioni, un’esistenza sconvolta. Ci mancava solo questo, il mio cervello è annientato. Non me ne risolleverò, mio caro amico. Sono colpito nel midollo” scrive sconsolato al caro amico Turgenev.

Benché si sia ripromesso di non scrivere niente, sopraffatto dalla cognizione annichilente del vanitas vanitatum, gli torna in mente un antico progetto, accarezzato anni prima, nel lontano 1835, quando rimase folgorato, come ci testimonia Maxime du Camp, dalla vicenda bizzarra e tragica di San Giuliano l’Ospitaliere, istoriata nelle vetrate della cattedrale di Rouen.

Il francese Michel Butor, nel suo “Improvisation sur Flaubert”, azzarda l’ipotesi che la rapidissima stesura dei “Tre racconti”( “Un cuore semplice” “Erodiade”, “La leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere” ) scritti di getto tra il 1876 e 1877, equivalga ad una sorta di atto penitenziale: la scrittura come espiazione per non essere stato in grado di impedire né la catastrofe della guerra contro la Prussia, rovinosamente persa dalla Francia, né di aver accortamente vegliato sulla buona gestione della fortuna paterna.

Anche Calvino assume un’ottica similare, additando nel finale del racconto di san Giuliano “l’arduo punto d’arrivo cui tende l’ascesi di Flaubert come programma di vita e di rapporto con il mondo. Forse i Trois Contes sono la testimonianza d’uno dei più straordinari itinerari spirituali che siano mai stati compiuti al di fuori di tutte le religioni”.

È Jacopo da Varagine, nella sua Legenda Aurea del XII secolo, il primo a tracciare l’agiografia di questo santo così bizzarro; così come poi accadrà anche nel mirabile racconto flaubertiano, essa appare incastonata all’interno di una dimensione narrativa onirica e rarefatta, in cui alcuni paradigmi della favolistica classica si incastrano magistralmente con l’irresistibile attrazione di un ineludibile amor fati.

Già nell’incipit del racconto flaubertiano ci si muove in uno sfondo incantato: un affresco gotico-cortese, un Eden di straziante bellezza perché in tanta perfezione c’è già la premonizione della sua caducità: un paesaggio idilliaco dove i fossati sono pieni d’acqua, le rondini fanno il nido tra le punte dei merli, e le sentinelle, appena il sole brucia un po’ di più, si rintanano nella garritta per addormentarsi come frati oziosi, mentre gli armadi, le botti e i forzieri traboccano di biancheria, di vino e di monete. In questo scampolo di Paradiso Terrestre, la nascita del figlio del re e della regina giunge a suggello di tanta felicità: la sua è un’educazione perfetta, accudita serenamente da balie, maestri d’equitazione, di dottrina e di botanica; sua madre, stupita dall’attitudine misericordiosa e compassionevole del proprio erede, lo immagina arcivescovo e suo padre, notata l’eccitabilità della sua fantasia che lo induce ad esplodere in grida quando sente narrare imprese belliche, lo immagina conquistatore. Un giorno, durante la messa, Giuliano nota un topolino sbucare da un buco del muro: per intere settimane è ossessionato da quella visione fugacissima che, puntualmente, si ripete ogni domenica ed, alla fine, decide di ammazzarlo: è la scoperta di una vocazione irrefrenabile, la sfrenata voluttà di chi gode, assegnando la morte altrui. Quando Giuliano abbatte a pietrate un colombo e lo finisce, strangolandolo, scopre quale “ voluttà selvaggia ed impetuosa” gli deriva dal porre termine a queste povere esistenze, tanto che “all’ultimo sussulto si sentì mancare”: la descrizione di un orgasmo, praticamente. Le poche gocce di sangue del topolino si trasformeranno via via, con la progressione del racconto, in un drappo che tingerà l’intero cielo di rosso; da qui parte una escalation di uccisioni di animali che, per attingere a traslati retorici, non replica la monotona serialità dell’anafora, ma semmai il crescente parossismo di un climax ascendente.

Tutto però si muove all’interno di una scena che appare rarefatta, sospeso: violenze gratuite, crudeltà inimmaginabili, su cui Flaubert indugia con sadica minuziosità, vengono portate a termine come se il carnefice agisse sotto l’effetto di una trance ipnotica. Suo padre, che nulla sa della furia selvaggia del figlio, lo avvia all’arte venatoria, preparandogli una muta di cani la cui complessa composizione è frutto di un cerimoniale raffinato e cifrato, uno sperpero di bellezza e lusso che val la pena elencare, a rinsaldare lo spessore allucinatorio del racconto: 24 levrieri barbareschi, facili alla collera, 17 coppie di cani bretoni, saldi nel non mollare la preda e possenti urlatori, 40 grifoni, perfetti per la caccia al cinghiale, mastini di Tartaria, dal colore del fuoco, di dorso largo e garretto diritto, spaniel dal nero mantello e alani che non conoscevano paura. Una specie di ossessione cinegetica che è tipica invenzione flaubertiana, poiché non è presente né nella vetrata di Rouen, né nella agiografia di Jacopo da Varazze.

Idem dicasi per la suggestiva schiera dei falconi: terzuoli del Caucaso, sagri di Babilonia, girifalchi di Alemagna, falchi pellegrini. Nella caccia, Giuliano trova la compensazione e la soddisfazione della propria follia assassina che lo pervade anche quando ritorna a casa, coperto di sangue e fango, con spini tra i capelli e addosso l’odore selvatico delle bestie feroci. Durante queste grandguignolesche battute di caccia, si diletta della furia dei mastini che masticano pezzi d’animali sbranati e, in una pagina che sarebbe piaciuta a Villon, Giuliano si difende con un bastone da lupi che divorano i cadaveri ai piedi di una forca.

Le carneficine, che turbano per la loro trasognata crudeltà, vengono narrate con la anestetica freddezza di un contabile da Monte dei pegni: conigli sbranati dai bassotti, un gallo cedrone addormentato a cui vengono recise entrambe le zampe, due caproni, uno pugnalato e l’altro che, dall’orrore, si getta nell’abisso, un castoro assassinato, un branco di cervi in un vallone circolare che, atterriti perché impossibilitati ad uscire da quella trappola mortale, fanno gemere Giuliano di piacere perché pregusta il massacro prossimo venturo, inevitabile.…Un repertorio zoologico che smarrisce le tinte gradevoli e tenui che addolcivano certi bestiari medievali per assumere la stessa fosca tinta d’ “un cielo rosso come una coltre di sangue”. Il massacro di una famiglia di cervi superstite (il piccolo, con una freccia, mentre sta poppando, la madre in pieno petto) è l’ultimo atto di questa cruenta sarabanda: l’unico superstite della famiglia, un grande vecchio cervo avanza verso Giuliano e, prima di morire straziato dalle frecce, gli urla: “ Sii tu maledetto; assassinerai tuo padre e tua madre”.

Ammazzare il cervo significa compiere il primo parricidio: la sua vecchiaia, la sua barba bianca, i suoi occhi fiammeggianti, la sua taglia mostruosa sono spie fisionomiche che ricorrono anche nel ritratto del padre di Giuliano. Già in precedenza, Flaubert aveva sottolineato le caratteristiche zoomorfiche dei genitori: il padre è sempre avvolto da una pelle di volpe e sua madre, di carnagione bianchissima, può essere scambiata per una cicogna: Giuliano capisce, anche sulla base della profezia del vecchio servo, che “ dalla morte degli animali dipendeva la sorte dei suoi genitori”. Su di lui scende il peso di una insostenibile solitudine: cani e cavalli lo abbandonano, corre a casa, non riesce a dormire, tormentato dalla profezia del cervo e da pensieri che lo atterriscono: “ non posso ucciderli – e poi pensava “e se lo volessi invece?”

Tre mesi di nigra melanconia lo inducono ad abbandonare la caccia e la casa avita, perché solo allontanandosi da potrà ribellarsi alla maledizione-ingiunzione del vecchio cervo. La svolta è radicale: si arruola in una banda di soldati di ventura e, dopo una rapidissima carriera, ottiene il posto di comandante. Diventa un cavaliere da chanson de geste: coraggioso, nobile, altruista, protettore di orfani, vedove e vecchi: Flaubert, in una pagina tra Salgari e Pratt, ci trasmette la seducente bellezza di questo epos bellicoso e fiabesco:

“Combatté scandinavi ricoperti di scaglie di pesce, Negri muniti di rondacce di cuoio d’ippopotamo e che cavalcano asini rossi. Indiani color oro che, al di sopra dei loro diademi, brandivano grandi sciabole, più lucenti di pecchi. Vinse i trogloditi e gli Antropofagi. Attraversò regioni così torride che al calore del sole le capigliature prendevano fuoco come fiaccole, ed altre così gelide che le braccia, staccandosi dal corpo, cadevano a terra; e paesi dove vi era tanta nebbia che si camminava circondati da fantasmi”.

Questo onorevolissimo catalogo di res gestae gli consente di sposare la bellissima figlia dell’imperatore di Occitania: solo in sogno rivive le proprie ossessioni, alternando vagheggiamenti zoofili ad incubi popolati da massacri ed eccidi. Torna ad imbracciare l’arco, a scoccare giavellotti, quasi a depistare l’accidia che lo pervade, ma quando i suoi nuovi amici lo invitano a caccia, rifiuta perché certo del legame esistente fra l’uccisione degli animali e il destino dei propri genitori. In una meravigliosa notte agostana, dei guaiti di volpe (l’animale totemico di suo padre) gli impediscono il sonno e Giuliano, riposseduto dalla sua antica vocazione, parte. Contemporaneamente, due vecchi si presentano a corte e, dopo essersi assicurati della devozione filiale del figlio, confessano la loro vera identità: sono il padre e la madre di Giuliano, che non hanno resistito alla curiosità di rivedere il proprio figlio e di conoscere la nuora..

Flaubert monta parallelamente due scene che paiono agli antipodi: in una l’eleganza affettata e cortese delle cure della nuora che offre ai suoi suoceri persino la propria camera da letto e, dall’altra, la caccia di Giuliano che ben presto si trasforma in una ridda fantasmatica, surreale: cinghiali e lupi che lo irretiscono e lo deridono, jene che sbucano dalle tombe dei morti, un toro furioso che Giuliano colpisce e che, al contatto con la lancia, sparisce. Anche il viaggio di ritorno sembra più una danza macabra, un carnevale dei pazzi: foresta di liane che nascondono occhi d’animali, frecce e pietre tirate senza alcun costrutto, poi un corteo di tutti gli animali, vanamente inseguiti in quella spedizione farsesca, che, beffeggianti e sornioni, lo accompagnano fin verso casa..

Entrato in camera, smanioso ed inquieto, scorge due corpi sul letto: convinto che siano sua moglie con l’amante e inizia a pugnalarli selvaggiamente. Un lume portato da sua moglie illumina la scena della strage appena consumata: i due sul letto erano suo padre e sua madre, la profezia del vecchio cervo si era compiuta.

Giuliano, sconvolto, lascia il palazzo, i vassalli, i beni, senza nemmeno tenersi i vestiti che aveva indosso, né i sandali: “ Se ne andò, mendicando la vita per il mondo”. La nuova vita, la terza sua esistenza, da novello paria, è all’insegna del dolore e della sofferenza che vengono esibiti, mostrati, volendone aumentare l’insostenibile gravame: quando Giuliano racconta la sua storia, tutti scappano facendosi il segno della croce. Chi lo riconosce gli tira addosso sassi, urlandogli di andarsene, evitando di guardarlo in faccia come si fa ad un paria, ad un Untermensch.

Vive come un anacoreta, cibandosi di radici, di frutti buttati via e di molluschi che cerca lungo le spiagge, espone la propria persona a tutti i pericoli, traendone la dantesca sensazione che persino l’abisso lo rifiuti. Giunto ad un fiume dal corso violento e pericoloso, capisce che mettere la propria vita al servizio di altri in un luogo così inospite e desolato, può rappresentare una possibile forma di espiazione. La determinazione “con la quale smuove pietre appoggiandole sulla pancia per trasportarle spezzandosi le unghie, scivolava nella melma, vi affondava, rischiando più volte di morire” rievocano una struggente, dolorosa sequenza del film Mission quando De Niro, per impedirsi l’oblio del fratricidio, si porta appresso, anche tra i più impervi ostacoli dell’impenetrabile foresta amazzonica, la propria corazza, memento inalienabile dell’abiezione di cui si era macchiato.

Giuliano trasporta esseri e cose, non chiedendo nulla per la sua fatica, vivendo in una condizione di estremo, solipsistico ascetismo, in una capanna che ha buchi al posto delle finestre, che d’inverno gela “inducendo un folle bisogno di mangiar carne” e in primavera puzza di marcio, passando mesi senza veder nessuno, rammemorando, ogni volta che chiudeva gli occhi, suo padre-volpe coperto di pellicce, sua madre-cicogna con un alto copricapo bianco.

Una notte, durante l’esplodere di un potente uragano, si sente chiamare dall’altra sponda del fiume: accorre con la barca e scorge la figura di un lebbroso, il cui corpo è ricoperto di croste squamose, enormi rughe gli solcano la fronte, dalla bocca esce un alito denso come una nebbia e fetido, al posto del naso un buco. Giuliano lo porta nella sua capanna e subito il lebbroso viene rifocillato con quel poco che Giuliano ha. Poi quel corpo macilento, tremante, con le ulcere che colano, viene portato da Giuliano sul letto e coperto con la tela della sua barca: “ ho freddo, vienimi vicino, fammi sentire il calore del tuo corpo”. Giuliano si sdraia vicino a lui “nudo come nel giorno della sua nascita”, sentendo il freddo della pelle del lebbroso, la sua coscia ruvida come una lima : “riscaldami, non con le mani, ma con tutto il corpo. Sto morendo”. Giuliano gli si distende sopra completamente, baciandolo: il lebbroso si trasfigura in un giovane bellissimo che, abbracciato a lui come una sposa chagalliana, si innalza nel più alto dei cieli. Quel lebbroso era Gesù.

Racconto questo di Flaubert di rara perfezione, anche a giudicarlo dal punto di vista dell’equilibrio narrativo: diviso in tre parti (la prima e la seconda composte quasi dal medesimo numero di pagine) e strutturata come una tragedia classica, con tanto di scioglimento finale. Truman Capote, in uno dei più bei racconti contenuti in Musica per camaleonti e prolissamente intitolato Rigiramenti notturni ovvero le esperienze sessuali di due gemelli siamesi ha voluto riprendere la trama della novella, in uno struggente finale che completa il dialogo fra due gemelli, contraddistinti dalla sigla T. C., trasparenti alterego dell’autore, che in precedenza elencano, con quell’impudicizia piena di grazia che è cifra essenziale della scrittura capotiana, episodi e frammenti di un’ esistenza glamour messa a nudo. Le ultime pagine del dialogo sono dedicate, per l’appunto, al racconto di Flaubert, utilizzato come una preghiera : “E io mi trovavo là nella pioggia e, e più violenta la pioggia cadeva, più pensavo a San Giuliano: pregavo perché mi venisse concesso di tenere un lebbroso fra le braccia”.

La leggenda cruenta e bizzarra di San Giuliano, per motivi facilmente comprensibili, non ha conosciuto la fortuna iconografica, riversata su soggetti più degni di santa emulazione, quali, per esempio, un san Girolamo o un san Giorgio. Eppure, due fra i massimi protagonisti della nostra pittura prerinascimentale, ovverosia Masolino da Panicate (1383-1435) e Masaccio (1401-1428) si interessarono alla sua leggenda, realizzando su di essa opere assai differenti, che testimoniano il dispiegarsi di due ‘letture’ differenti.

Incominciamo da Masolino: una sequenza della vicenda di San Giuliano è dipinta nella tavoletta, oggi a Maontabaun, un tempo parte della predella del Trittico Carnesecchi di Santa Maria Maggiore a Firenze. La scena dipinta da Masolino è divisa in due tempi: nel primo di essi, si vede San Giuliano conversare affabilmente con il demonio che, pur camuffato sotto le vesti raffinate di giovane gentiluomo, mostra un’indubbia origine luciferina con gli artigli che inopinatamente sostituiscono i piedi; la seconda parte è invece dedicata alla rappresentazione dell’eccidio dei genitori: mentre l’aureola che attesta la prossima santità del figlio copre il capo della madre addormentata, San Giuliano si accanisce contro suo padre, tagliandogli la gola da cui fuoriesce una doviziosa profusione di sangue.

Una esposizione fredda, raggelata, fin troppo stilizzata, che reca però la dirompente novità della presenza del diavolo, che viene introdotta da Masolino a spiegazione, forse, della hybris spaventosa di cui Giuliano si era macchiato.

Diversa invece la versione del Masaccio: tra l’altro egli si occupò della vicenda di San Giuliano in due quadri distinti. Cominciamo da una tavoletta, oggi al Museo Horne, a Firenze, pessimamente conservata, nella quale la vicenda di Giuliano è scandita in tre tappe: nella prima lo vediamo di spalle a colloquio con un personaggio, che non emana zolfo come quello di Masolino, ma la cui disarmante quotidianità è amplificata dalla figura di un cane. Nella parte centrale, si intravedono i corpi esanimi dei genitori; con Masaccio che non indugia su accenti pulp, preferendo compiere una ellissi narrativa, non mostrando l’orrore del parricidio e matricidio. Del resto, basta la posa scomposta, il frenetico, incontrollabile agitarsi delle mani e delle braccia di Giuliano, nel terzo tempo della tavoletta, davanti allo stupore della moglie per comprendere la portata della tragedia: sorprende l’esplosione di questa crisi isterica, così espressionisticamente e modernissimamente tratteggiata.

Anche nello smembrato ed in parte disperso polittico di Pisa, Masaccio tratta alla sua maniera questo avvenimento dividendo lo scomparto della predella tra un episodio della vita di San Giuliano ed uno della vita di San Nicola. Il primo viene raffigurato in un fermo-immagine che pare eterno: il padre e la madre dormono ignari, in un grande letto matrimoniale, e Giuliano alza la spada, mirando al collo, scoperto, della madre, la cui canizie fuoriesce dal rotondeggiante copricapo. La stessa, rarefatta sospensione temporale che sembra scandire ogni pagina del breve racconto di Flaubert.

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