Antiromanzo

di Livio Borriello

Piero Manzoni Alfabeto.jpg Nella vita quanti scrivono romanzi? Diciamo che nella vita il romanzo non esiste. Quando qualcuno racconta una storia mai accaduta, viene censurata come frottola o menzogna e espunta dalla circolazione sociale. Certo il racconto, la narrazione, il mito, sono già presenti nella vita, ogni racconto che ascoltiamo al bar è una narrazione, ma è la narrazione di una realtà, o di un’irrealtà, nel caso del mito, ritenuta reale.

Nella scrittura ha assunto invece un’importanza spropositata un tipo di narrazione immaginaria che ha certo una sua funzione o disfunzione, una sua utilità o disutilità, ma che non si capisce affatto perchè debba egemonizzare gli spazi editoriali, sociali e psichici dei lettori.

Personalmente non leggo più romanzi, oppure lo faccio da “addetto ai lavori” (per quanto secondarie siano le mie mansioni e inadeguata la loro esecuzione), per informarmi o per istituire vaghi raffronti (ricordo che Moravia, con un suo certo tipico analitico candore, dichiarava negli ultimi anni di leggere romanzi solo per vedere “come se la cavavano” gli altri…).
Quando in libreria sfoglio le pagine di uno dei numerosissimi romanzi editi, dopo un po’ si formano in me questi pensieri: questo romanzo è scritto bene, magari splendidamente, la scrittura è densa e plastica, l’affollamento di immagini e aggettivi indica chiaramente che l’autore ha un apparato immaginativo più brillante di quello del suo prossimo, la sintassi è competitiva, l’intreccio sicuramente (me lo assicura la fama dell’autore) riuscirà a giocare coi miei meccanismi emotivi prima producendo una sufficiente curiosità, poi piacevolmente appagandola. Tuttavia, poichè a me personalmente non interessa che costui sia più intelligente di me – e anzi a dirla tutta preferirei credere di essere più intelligente io – poichè non gioco nemmeno a carte e non mi piacciono i bisogni o le curiosità indotti, qual’è il vantaggio o il costrutto che posso trarre da questa lettura? Perchè dovrei destinarle varie irripetibili e irrecuperabili ore della mia vita, oltrechè i vari euro necessari all’ acquisto? E quasi sempre non lo compro.

Se sono in uno stato d’animo un po’ astratto e trasognato, le domande assumono una forma insieme più puerile e più radicale: come può una persona adulta, presente a se stessa, vivente nel XXI secolo e in contezza di tutte le sue acquisizioni andare avanti per 200 pagine a raccontare questa storia mai accaduta, spesso improbabile, che non accadrà mai e che non sembra nemmeno interessare nessuno? chi è questo tizio di cui parla il libro? di questo michele o alessio, che telefona a un’amica depressa e le dice che ha spostato la pianta sul balcone se il romanzo è minimale, o fa a listelli un gatto e ci impicca un cane se è pulp, mi interessa davvero? il fatto che tutto ciò sia accaduto alla 17 e15, ha un senso, anche considerato che non si sa le 17 e 15 di quale giorno, secolo e universo siano, e che in ogni caso quel misterioso minuto aveva contenuto in realtà tutt’altro, nel caso migliore altre piante e altri gatti?

Infine, mi pongo questi altri dubbi di ordine più teorico: certo, il bisogno di miti è connaturato all’uomo, ma possiamo dire altrettanto di quel costrittivo modulo rappresentativo che è il romanzo? Non si è imposto il romanzo così come oggi è codificato – a parte qualche vago e locale antecedente in Petronio e Apuleio, e sporadici riaffioramenti barocchi – in epoca romantica, non sembra aver occupato un segmento limitatissimo nonchè dell’eternità, della storia alfabetica umana in occidente, non sembra essersi espresso pienamente in Tolstoj, Dostoievski o Mann – per poi cominciare a sfaldarsi già nel ‘900 con Joyce, Proust o Musil, e veder magari rappresentata la sua parabola discendente e dissolutiva nel percorso letterario di un Calvino?
E concludo con una perplessità che mi pare decisiva: è vero, esiste un bisogno permanente o residuo di raccontare storie, anche se esso non mi sembra poter attingere più al centro della nostra vita individuale e sociale, ma questo bisogno non è soddisfatto in maniera molto più potente dai linguaggi iconici, dal cinema e la tv in particolare?
In questo senso, il romanzo sembra oggigiorno essere diventato una specie di televisore molto portatile, utile in spiaggia o dovunque mancando la corrente non sia possibile seguire le vere rappresentazioni mitiche, quelle della tv, e ci si possa contentare di quelle a più basso voltaggio, più flosce e esangui, della scrittura.

La risposta affermativa a queste domande retoriche mi sembra confermata abbondantemente dai dati editoriali: nessuno legge nulla in Italia, ma poichè si pubblicano solo romanzi, è corretto affermare che nessuno legge romanzi. Né è vero che sia sempre stato così: a parte la considerazione che rispetto al passato il rapporto fra acquirenti di libri e alfabetizzati è misero, e miserrimo quello fra lettori e consumatori di musica, cinema e tv – è evidente che già fino a 30 anni fa lo scrittore, l’intellettuale, riusciva a incidere la realtà, a progettarla, a “aggiustarla”, cosa che al momento mi pare insostenibile: i pensieri e le percezioni di Pasolini e Sciascia, i prodotti del loro lavoro intellettuale, circolavano nella realtà, la inducevano, la producevano, uno Zanzotto, un Magrelli o un Celati sono loro malgrado dei perfetti ectoplasmi sociali, che sembrano far parte di un sottosistema sociale a parte, e svolgere nella collettività una funzione accessoria, vagamente illustrativa o esornativa, forse quasi parassitaria.

D’altronde è la stessa interiorità che sta dimagrando, diminuendo, che sta diventando una nicchia. Non abbiamo solo una letteratura di nicchia, ma un’anima di nicchia. Il volume intrapsichico cede al volume interpsichico e sociale, la soggettività all’oggettività. Il vincitore dei nostri giorni, Berlusconi – vincitore per quante sconfitte possa subire, perchè sarà necessariamente sostituito da un nuovo Berlusconi, magari di sinistra – è l’essere perfettamente sociale, perfettamente normale. Berlusconi vince perchè siamo noi, è la nostra nuova anima estroflessa. E quest’anima è strutturata come un romanzo. Se Berlusconi scrivesse, scriverebbe un romanzo, un genere perfettamente codificato, perfettamente esteriore, la cui pasta semiotica è costituita dall’elemento più riscontrabile e convenzionale: il fatto, la vicenda, l’atto dei corpi visto dall’esterno.
Il romanzo è il genere più americano e più convenzionale. Non per nulla Mediaset trasmette solo romanzi, e anzi persino i suoi reality show sono romanzi, mentre nel vero laboratorio della cultura e del pensiero libero occidentale, la Francia, dominano da decenni le scritture anti-narrative, almeno nella produzione alta.

La poesia, la gregueria filosofica, il diario, il frammento, lo zibaldone, ogni emissione spontanea e sorvegliatamente anarchica di parole, ogni rappresentazione discontinua o molecolare; ma anche in altro senso la documentazione, la cronaca, perchè la cronaca è una delle funzioni naturali dell’uomo, è uno degli strumenti oltre che degli oggetti della sua passione; e infine la preghiera, che è il momento in cui la parola coincide con l’essere, e in cui il corpo affronta il silenzio che è dall’altra parte – tutte queste scritture, in un modo o nell’altro, si definiscono a partire da un punto interno al corpo, e prendono vita e forma nelle pulsioni inesauribili e irruducibili del corpo. Il romanzo è il vero conio del potere, è il modulo prestampato che distribuisce il sistema editoriale, e che il romanziere accetta suo malgrado di compilare.
In questi anni è stato riproposto da più parti, come un fenomeno nuovo, un ritorno alla scrittura come artigianato, come esecuzione impersonale, come adesione e adeguazione a un canone condiviso. Ma questa concezione, che si rifà a lungo termine a quella classica (il canone greco) o alle culture orientali, e che nella scrittura si potrebbe azzardare che abbia perdurato fino a Baudelaire, comporta in ogni caso un rifiuto della modernità, di quel conflitto fra l’individuo e l’altro da sè che la caratterizza. Se il superamento dell’individualità è necessario, esso deve passare in ogni caso attraverso l’individuo, ovvero attraverso il corpo, che è ciò che lo divide dal mondo, non può essere una resa alla meccanicità sociale, e alla pseudo-obiettività scientifica.

A me sembra insomma che il romanzo attualmente si sorregga da una parte sull’esistenza di una tradizione, di un’ aspettativa culturale (l’inevitabile critico che a un certo punto dice sconsolato al giovane: beh, ma gli manca il romanzo…come se gli mancasse chissà che organo vitale) e di un bacino d’utenza già disponibile, dall’altra sul fatto che l’uomo è organismo vivente intimissimamente gregario, e si adegua senza saperlo a tutte le aspettative di pubblico, critici e editori vivi, morti e futuri. In conseguenza di ciò, una certa quantità di umani si decidono a un certo punto a cimentarsi nell’esecuzione dell’esercizio romanzo. Sono gli scrittori che si mettono davanti al computer e dicono: vediamo un po’ che mi devo inventare (con quel riflessivo apparente che fa tutta la differenza rispetto a Tolstoj), come devo fare a cincischiare per 150 pagine in maniera più destra e virtuosa di quel tal collega. Se non ha niente da dire è pure meglio perchè così il romanzo risulta meno pesante, e avrà quella levità e quella naturalezza oggi tanto in voga presso i celatiani, i post-cannibali o certi cultori del noir (è la naturalezza di Fiorello, o quella che abbiamo quando ci facciamo la barba, è perfettamente inutile, ma vi convengono casualmente la pigrizia dei lettori e il disincanto dei critici, e finisce per mettere d’accordo tutti). Se è ignorante e poco dotato linguisticamente, è ancora meno un problema: grazie alla naturalezza, buttando avanti le parole prima o poi uscirà qualche giro di frase diciamo ready made, passibile di una lettura critica come i ferri da stiro di Duchamp, sufficiente all’alibi culturale. Un ritmo neurale da passista, senza sbalzi di tensione, fa il resto, e il romanzo è fatto.

Io credo invece che la letteratura – che la scrittura – debba puntare ad altro. Non deve più imitare, e non deve nemmeno prefigurare ciò che sarà davvero raffigurato dal cinema. Deve invece sfruttare i tempi lunghi e le forme complesse che gli sono più propri e specifici, e tentare di arrivare dove non accedono gli altri linguaggi.
Deve scendere in se stessa, e disporsi nello spazio della parola, che comprende e include in sè quello del romanzo, ma insieme ad esso tutte le altre espressioni e manifestazioni linguistiche dell’uomo. La forza della scrittura, infatti, è proprio questa: che la scrittura è l’impressione sul supporto, della parola. E la parola, più del cinema, o della musica, è ciò che ci costituisce, ciò che ci compone, ciò che struttura il nostro tessuto psichico.
Se l’uomo è l’uomo, lo è perchè pensa, se lo è diventato, è stato da quando, per caso, o per necessità ha duplicato il suo corpo su un supporto materiale (che dapprima era ancora nel suo stesso corpo, era in un settore del suo stesso sistema neurale – come in una memoria ram ), poi è riuscito a articolare i segni di quel corpo duplicato, poi li ha piegati a riflettere il mondo.
La parola deve scavare, deve forzare la realtà, deve astrarre, deve spiegare (e cioè mirare all’assente, scrive Cesare Viviani) più che descrivere, deve precedere gli altri alfabeti, deve sbattere wittgenstainianamente contro le pareti del linguaggio, deformarle, provare a perforarle. Deve negare la realtà (il non albero non esiste nei linguaggi iconici, è una mera apparizione verbale), deve produrla, ma non nel senso in cui la produce il cinema – che altro non fa che riprodurre incongrui montaggi e perverse deviazioni morfologiche, ovvero produrla tecnicamente, bensì in quello di sconfinare, di elaborare nuovi pensieri plausibili e accettabili, di sviluppare nuovi volumi psichici, di sedimentare strutturando nuovo materiale umano. Deve spiegare, deve addentrarsi in quegli oscuri e nitidissimi reticolati della logica, nelle inferenze e le concatenazioni in cui l’uomo, apparendo, si è disposto. Deve essere, sì, anche pesante, complicata, pretenziosa, falsa, contorta, perchè questa è la sua natura. Non deve temere gli intellettualismi, perchè è di intelletto che siamo fatti, perchè quando il pitecantropo ha impugnato il bastone, già ha peccato di intellettualismo – con la sola differenza che lo ha fatto meglio di certi intellettuali odierni. Deve essere sporca di pensiero, ma anche di presente, di realtà. O essere limpida, incisa e luminosa, ma perchè ha mutato il rapporto con lo spazio che la circonda, perchè ha captato e assorbito in sè il sillabare disperso dagli uomini nello spazio mentale.
Deve infine pregare. Deve dire l’indicibile, e cioè non dirlo, se è tale, e dunque dire a malapena il dicibile che confina con l’indicibile o vi si addossa, vi si approssima: ma è importante che sia proprio la parola a non dirlo. Così è nata forse la letteratura, dalla preghiera, questa è stata all’inizio, formula magica e apotropaica o canto di sgomento di fronte al fulmine, alla preda, alla morte o agli impensabili rigonfiamenti della Venere paleolitica, ma non aneddoto, prova di destrezza, calligrafismo, diporto. (Forse ritrovando la propria dimensione metafisica e sacrale, la scrittura riuscirà a captare in profondità le correnti irrazionali che alimentano i movimenti religiosi, o che, deviate o stravasate, ristagnano nelle nevrosi o nelle tossicomanie).
Scriveva Bataille che nel romanzo si vede il nostro destino. Io non nego che il romanzo possa ancora assolvere questo bisogno profondo. Autori come Handke, o in Italia il Celati dei narratori e delle foci, o alcuni “cannibali” come Aldo Nove, dimostrano che la narrazione ospita ancora pulsioni reali, che, come si dice di un fiume o un lago, è ancora viva. Sono autori che hanno espresso attraverso di essa sentimenti e percezioni nuove, che hanno cioè trasformato il loro corpo piuttosto che trasformare le strutture esteriori del romanzo (le neo-avanguardie), o semplicemente raffinarle e complicarle (quasi tutta la narrativa americana).
Il romanzo è, talvolta, una delle forme che assume la parola. Credo però che non ne sia più la forma necessaria, e constato come non sia più possibile scrivere un romanzo dal suo interno, ma solo disponendosi nello spazio che lo contiene, solo nel movimento di ripiego necessario a rientrarvi.

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Immagine Piero Manzoni, Alfabeto.

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41 Commenti

  1. Borriello, mi sei troppo simpatico. Chi non ha provato la tentazione, leggendo il classico “La marchesa uscì alle cinque… “, di domandarsi: “Ma a me che ‘mme frega de legge ‘sta roba?”.

    Poi, però, gli capita in mano “L’arpa d’erba” e fin dalle prime pagine scatta la considerazione contraria: “Me frega, me frega!” e va fino in fondo:-)

    Insomma, il piacere della lettura esiste, eccome! (Bibliografia sborona: Lucio Angelini, “Il fantomatico piacere della lettura” in “Quel bruttocattivo di papà Cacciari!, edizioni Libri Molto Speciali) solo che NON tutti i libri sono fatti per piacere a tutti. Ognuno, con santa pazienza, deve andarsi a scovare quelli che, misteriosamente, parevano aspettare proprio lui:-/

  2. Scusa Borriello,
    non per fare il pistino, solo in ricordo di Man Ray;
    quando parli di ferri da stiro, forse alludevi all’opera di Man Ray, non di Duchamp,
    un ferro da stiro con saldati sulla base dei chiodi: Cadeau. 1921.
    O no?

  3. Questo articolo tocca un punto che ritengo molto interessante, cioè quello del mito. Se tralasciamo le sedimentazioni storiche del termine e ci concentriamo sull’attuale “senso comune”, che cos’è il mito e la fascinazione che è capace di produrre? Da un punto di vista teorico non mi sembra esserci grande accordo in proposito, però voi scrittori ne avrete sicuramente un’ottima conoscenza empirica. Dunque vi chiederei: cos’è per voi il mito? E quella specie di “manico” psichico che inconsciamente offriamo alle manipolazioni altrui, come risulterebbe dalle “mythologies” di Barthes (un tale meccanismo psichico avrebbe un significato “evolutivo” piuttosto chiaro, quale caratteristica che favorisce al tempo stesso il “coordinamento” sociale ed il “dominio dell’uomo sull’uomo”) oppure esso conserva un nucleo di positività, quale una sorgente di “energia” (per quanto illusoria o mistificante rispetto alla “cruda” realtà) indispensabile alla sopravvivenza psichica? Ovviamente non sto teorizzando, ma se è per questo penso che tutte le teorizzazioni in questo ambito siano ampiamente illusorie. Però mi piacerebbe davvero sentire qualche opinione al proposito, ammesso che così facendo io non abusi di questo spazio (in tal caso ditelo, non c’è problema). Massimo Leone, in un pregevole articolo su Golem, “Preservare il senso”, afferma “La persuasione ha infatti bisogno di miti, e nell’utilizzarli per i suoi fini commerciali (che si venda un prodotto o un politico, non fa molta differenza) essa li lorda, li ammacca, li appanna, ne corrode il senso profondo, quello di un messaggio all’umanità di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le circostanze”. Ambivalenza e universalità mi sembrano due chiavi interessanti … ricollegandomi al tema del romanzo, io me ne sento attratto soltanto quando riesco a intuire all’interno dell’opera proprio una valenza di “universalità”.

  4. Ma i sostenitori (ancora!) dell’antiromanzo lo saprebbero scrivere un romanzo tradizionale?

  5. non spetta a me commentare il pezzo di un amico con cui da anni ci scambiamo impressioni sulle nostre scritture e su quelle altrui. trovo che il suo pezzo merita una grande attenzione. ci sono almeno una decina di punti su cui si può riflettere a lungo: trovo squallido che taluni intervengano solo per commentare i pezzi di autori ritenuti importanti.
    il limite del pezzo, dal punto di vista della godibilità della lettura, è che si percepisce il lavorio di chi scrive, il suo badare alla sostanza delle questioni (che nel caso di Livio Borriello è essenzialmente un guardare il mondo in chiave mistica, un misticismo senza chiese, comprese le chiesette di carta dei romanzi).

  6. Arminio, ascolta: la morte di Dio, la morte del romanzo, la caduta dei valori, la fuga e il ritorno di mille altre cose sono già state annunciate e smentite dozzine di volte. Insomma non c’è mai nulla di effettivamente nuovo sotto questo cielo. Borriello fa benissimo a non leggere più romanzi. Altri fanno benissimo a leggerne ancora. Quanto alle chiesette di carta, siamo tutti polvere, se per questo, e polvere ritorneremo.

    La seconda parte dell’articolo, quella ‘construens’, è comunque un po’ gigiona: “La parola deve dire l’indicibile, e cioè non dirlo, se è tale, e dunque dire a malapena il dicibile che confina con l’indicibile o vi si addossa, vi si approssima… “. Suvvia, qui casca un po’ l’asino, anche se Borriello è tutt’altro che un asino:-)

  7. Non ricordo qual tale si chiedeva se la vita culturale sarebbe riuscita a sopravvivere alla scomparsa dei domestici. Per leggere romanzi – per di più se in maniera “contemplativa”, senza cioè essere in qualche modo un “addetto ai lavori” (studenti, docenti, aspiranti, mediatori ecc.) – ci vuole molto tempo ed una disposizione d’animo adatta. Inoltre nel passato alfabetizzazione e disponibilità di tempo tendevano certo a sovrapporsi molto più di adesso. Quindi, tutto sommato, la situazione attuale non mi sorprende affatto. Trovo peraltro ridicolo che si pretenda da gente che spesso non il tempo neppure per respirare, che riempia le sue pause con artefatti che richiederebbero una lunga, meticolosa e per giunta arbitraria (vista l’enormità dell’offerta e l’incertezza dei “benefici”) preparazione cultural-spirituale, così come trovo insopportabili le geremiadi degli snob nei confronti delle masse: questi genii non sembrano proprio paghi del vivere la propria eccellenza, vogliono assolutamente che tutti “sappiano” del loro stato di inferiorità rispetto a loro. Umpf!

  8. il pezzo è scritto benissimo, seppure con un certo trombonismo precoce. ma vabbè, qui, in questo paese, i tromboni impazzano, a tutte le età. che dire? mai provato a farsi il culo quadro su un romanzo, borriello? lei, arminio, vada a farsi benedire nelle chiesette di chiesa dei romanzi e poi torni qui, pentito. pentitevi, miscredenti! scrivere un romanzo oggi è un’impresa difficilissima! lo dico da amico di vari romanzieri. il romanzo è morto? col cazzo.

  9. bravo carlo martello! La si finisca una buona volta con queste lagne sul romanzo morto e sull’antiromanzo! E’ + di un secolo che sentiamo questi piagnistei, ben scritti come questi di borriello o malscritti che siano. Il romanzo è vivo, la gente li legge, i romanzi, e non solo quelli commerciali, alcuni scrittori (pochi) coi loro romanzi ci campano, i romanzi buoni segnano la loro epoca, non passano inosservati. Non è un atto di fede, è la verità.

  10. Credo che scrivere e scrivere un romanzo siano due attività che talvolta trovino punti di incontro ma che siano fondamentalmente diverse. Un romanzo non si conclude nell’inventarsi una fiction da leggere in spiaggia, ma richiede un non-scritto su cui la fiction narrata risiede: un romanzo è una reinterpretazione del reale, reinterpretazione all’interno della quale ci può essere una fiction che viene stesa a beneficio del lettore. Non credo si possa scrivere un buon romanzo senza prendere le proprie convinzioni, idee, mitologie, quotidianità, e tessere una fitta rete di relazioni tra queste cose per inventarsi -più che una fiction- un ‘world-model’ come lo chiamano gli inventori di interactive fiction, un ambiente più o meno verisimile in cui la fiction vera e propria si svolge: e questo world model è già una creazione tale da giustificare l’esistenza del romanzo ed il suo affezionato pubblico.
    Io non sono quasi mai riuscito a finire di scrivere un romanzo, ma faccio parte della schiera di quelli che dicono, sì ok ammazza il romanzo, ma prima scrivine uno decente.

    f.

  11. No, scusate, giusto per capire: per voi un critico musicale è uno che necessariamente DEVE saper eseguire una sonata in Do maggiore di Mozart?
    Se a mia sorella dico che non mi piace come s’è dipinta la bocca col rossetto, poi devo essere capace di passarle l’ombretto sugli occhi e il phard sulla faccia?

  12. Interessante f., credo però che tutti abbiano un “world model” incorporato, basterà rifarsi a quello, no?

  13. La mia piccola esperienza al riguardo mi suggerisce che no, non è la stessa cosa, che il modello romanzo, per quanto abbia margini di lavoro, “imponga” una ratificazione del proprio ‘world model’ che altre forme di scrittura possono permettersi solo di richiamare o di suggerire. Stabilire un impianto che regga le cinquecentomila battute invece che le diecimila non è solo una questione contabile ma di identità del testo che si sta scrivendo.

    Per il resto no, se a te non piace il genere romanzo non devi scrivere uno, ma se scrivi un documento che mi invita a non scrivere romanzi perché è una forma di fiction berlusconiana mi chiedo quali romanzi hai scritto*.

    f.

    *o letto, certi libri non sono televisori portatili da spiaggia, ad esempio infinite jest di foster wallace: pesa.

  14. > Se a mia sorella dico che non mi piace come s’è dipinta la bocca col rossetto, poi devo essere capace di passarle l’ombretto sugli occhi e il phard sulla faccia?

    Intrigante osservazione: ma forse, se tu imparassi davvero a farlo, tua sorella non considererebbe più il tuo un “giudizio ingenuo” ma un “giudizio competente” ;-)

  15. appuntino estetico da quel vezzoso correttore che è il merriam webster
    FARD : to paint (the face) with cosmetics

  16. Di narrazioni c’è biogno per campare?

    Sì, ammette anche Borriello.

    La narrazione scritta è diversa da quella audiovisiva?

    Sì: a causa della fondamentale dote di una più elevata polisemia di un libro rispetto a un video e della conseguente grande attività di interpretazione e immaginazione cui dà vita la lettura.

    Se è vero quanto sopra, la narrazione scritta (e il romanzo come sua forma sufficientemente lunga da produrre un coinvolgimento soddisfacente) ha una funzione insostiuibile.

    Che ne fruiscano in pochi, per me, è solo la prova che leggere narrazioni scritte è (oltre che bello) più impegnativo che ammazzarsi di fiction-spazzatura in tivù.

    Che molti scrittori ci tengano a dire che “li schifa” fare i narratori, perché magari semplicemente non sono dei narratori, non significa secondo me che la scrittura non sia un supporto per certi versi – vedi sopra – insostituibile per la narrazione.
    (Curioso che gli scrittori non narratori scoprano spesso, poi, di non avere contenuti alternativi alle storie, e si scoprano destinati ad avvitarsi in improbabili avanguardie stilistiche del: nulla.)

    Saper scrivere non significa aver qualcosa da dire, purtroppo.

    Gli scrittori-narratori, dignitoso sottogruppo degli scrittori, dal canto loro perlomeno hanno questa fortuna: il senso per le storie. Un’umile, meravigliosa capacità di cercare i contenuti grazie all’osservazione, di alimentarsi così.

    Io dico che i narratori sono grandi pazienti raccoglitori. I narratori trasformano il cascame delle vite altrui in vite nuove.

    Ciao
    Michele G

  17. Trovo davvero penoso e ozioso questo modo trombonesco (giusta parola!!!) di parlare di letteratura da parte di Borriello. Sembra una pagina di un manuale malriuscito per la scuola secondaria, con tutta quella sfilza di nomi e le pretese di dare ordini a questo e a quell’altro su cosa leggere o non leggere.
    E’ vero, poi, che non bisogna saper scrivere un romanzo o una sinfonia per giudicare, ma almeno bisognerebbe aver ***capito*** la forma romanzo e la forma sinfonia, prima di avventurarsi per terreni minati! Se ***capisco*** quello che leggo o ascolto o guardo, posso poi anche dirne qualcosa che abbia senso, altrimenti è probabile che spari solo vongolate. Non vi pare?
    E anche Arminio, con queste protestine delle chiesette, la smetta di fare il bamboccetto, e si metta a leggere di più, prima di aprir bocca.

  18. si, aumentiamo il numero dei lettori, così,con questi squilli di tromba. già i lettori sono una legione. diamoci dei gran colpi sulle palle. ma si, chissenefrega, mors tua vita mea, no? narratori contro scrittori, poeti contro tutti, prosatori, fini dicitori, critici contro critici contro tutti, plagiari del cazzo che si fanno pubblicità, tanto la gente dimentica presto. questo mondo letterario è proprio un mondo di merda.

  19. Anticommento
    Era maggio, e Borriello stava per lasciare l’Italia, dove non lo capivano, per andare in Francia, dove lo capivano. Lì lessero la frase “ogni emissione spontanea e sorvegliatamente anarchica di parole, ogni rappresentazione discontinua o molecolare” e la trovarono pulp almeno quanto l’immagine di un gatto fatto a listelle per impiccarci il cane. Sei pulp?, gli chiesero, e lui Che schifo!, e raccontò ai francesi la storia dell’uomo primitivo che per caso o per necessità si era duplicato su un supporto materiale, così rendendo sacra la parola e il pensiero che ci stava dentro come sta la crema nel cremino, la noce nel nocino, il succo nel frutto e così via. Ma i francesi dissero che no, che prima di dire a o ba, il supporto materiale su cui l’uomo primitivo aveva duplicato il suo corpo era la donna primitiva, ma che l’immagine andava bene per farci un romanzo di formazione, pieno zeppo di primitivi infelici, ma Borriello disse che su quello di cui non si poteva parlare non si poteva fare un romanzo, e citò pure le fonti: Però se volete vi faccio una fiction… E chiamò Arminio che era esperto di marketing. Ma i francesi, che producevano solo letteratura alta, si offesero, e al Borriello mandarono a dire che solo un miracolo avrebbe fatto di lui uno scrittore edito. Allora Borriello si rifugiò in una chiesa di campagna e si mise ad aspettare che la prima parola cominciasse a pregare… Ma, accidenti, erano tutte sporche di pensiero, quelle povere paroline smarrite!
    Finì curato in un racconto nero di Maupassant. E’ ancora lì, ma non lo sa.

     

  20. x fabrizio venerandi:
    Il tuo discorso mi sembra plausibile, ma cosa intendi più precisamente per “ratificazione”? Ovvero, in quale misura pensi che riusciresti (in linea di principio, non ti chiedo di farlo qui) ad esplicitare, intersoggettivamente, il funzionamento interno del tuo motore affabulatorio?

  21. questi commenti mi deprimono un poco. ripondo qua e là in breve e per correttezza.
    non so scrivere 1/2 riga di romanzo. scrivo testi antinarrativi, dunque polemizzo pro domo mia. e ne ho tutto il diritto, e il dovere.
    a copetti: hai ragione, il mito era un punto da discutere…ma il problema è distinguere tra mito e allucinazione collettiva.
    a angelini: ma pensa alla lingua tagliata della sirenetta: quello è l’indicibile…o ad agostino che scrive: chi non ascolta dio (e io intendo il dio che è in me) non ha nulla da dire al mondo
    franco, hai ragione: volevo stanare qualche nordico, ma quelli hanno da riempire server interi di quel tema di importanza capitale: la restaurazione! capperi, ne va della nostra felicità!
    berlusconi romanziere: certo è un’iperbole, ma non gratuita (cortellessa mi segnala la stessa analogia in cordelli e raboni)
    hironique: sei brillante, brava…applauso
    e poi tutti questi nick…non mi scandalizzano, potrebbero alienare l’io consueto, permettere maggior sincerità… un po’ di squartamento d’anima…ma dove sta questa sincerità? questo è tutto?

  22. “E infine la preghiera, che è il momento in cui la parola coincide con l’essere, e in cui il corpo affronta il silenzio che è dall’altra parte”.
    Ero pure d’accordo, in linea di massima, ma poi sono arrivato alla frase che riporto qui sopra e sono rimasto inter-detto, sai, come una formica persa nel fogliame e sono restato lì a chiedermi: ma chevvordì che “la parola coincide con l’essere”?
    E perché proprio con l’essere e non anche con l’avere?
    E poi, sarà anche vero che nella preghiera “il corpo affronta il silenzio che c’è dall’altra parte”: ok, ma quale parte?
    Cioè rispetto a dove, c’è un’altra parte?
    Ma questa persona, Livio Borriello, non stava scrivendo sul problema che non ce ne frega più una beneamata nerchia di sapere quello che c’è scritto nei romanzi – che io pensavo che era un problema solo mio – che c’entra allora questa cosa del silenzio che sta “dall’altra parte”?
    Me lo sentivo vicino, persino amico – già lo chiamavo per nome tipo Livio -, credevo che toccava un punto decisivo della RESTAURAZIONE e cioè che non ce ne frega più una mazza dei romanzi – che io c’ho pieno il comodino e il comò e il ripiano sopra il letto e la libreria piccola attaccata alla parete piena di romanzi che sono arrivato sì e no a pagina 10, qualche volta cinquanta, ma è grasso che cola – ma lui invece no doveva per forza dire questa cosa della preghiera e del corpo che affronta il silenzio dall’altra parte e io mi sono disamorato anche di lui, cioè di Livio, e non saprò mai perché non riesco a leggere romanzi.
    L’ultimo che ho preso è francese – condivido che la Francia è il centro, che Livio dice prima di die del corpo che prega verso l’altra parte – eccetera – si chiama Spinoza incula Hegel, giuro che si chiama così, non mi bannate.
    Chissà perché l’ho comprato.

  23. Michele G dice:
    “La narrazione scritta è diversa da quella audiovisiva?

    Sì: a causa della fondamentale dote di una più elevata polisemia di un libro rispetto a un video e della conseguente grande attività di interpretazione e immaginazione cui dà vita la lettura.”

    Ora, dire che uno scritto sia polisemico mentre un film no mi pare assolutamente un errore. Piuttosto e’ che mentre nessuno di noi (spero) legge Ken Follet, tutti noi guardiamo i thrillerini di Holliwood; mentre la letteratura americana ancora non ci ha colonizzato, il cinema americano rappresenta il 70% di quello a cui siamo sottoposti.
    Allora piuttosto che parlare di polisemia del testo scritto, io direi che il problema sta nella concezione americana e anglosassone del linguaggio, una concezione che deriva da un’idea della scienza quale verita’ rivelata. I film americani rappresentano quella concezione del linguaggio come significante univoco, idea che Wittgenstein esprimeva dicendo che il linguaggio rappresenta i fatti del mondo.
    Io, di mio, credo che il cinema abbia una potenza molto maggiore rispetto alla letteratura (pensate a Linch, a Tarantino, a Kubrick). Il cinema e’ veramente l’opera d’arte totale, la tragedia Nietzscheana.

  24. Tutte le volte che mi imbatto in un pezzo che viene dal gruppo degli Zibaldoni provo un misto di sconcerto e di irritazione. Raffinatezze e ingenuità, impulsi fecondi e piccineria, scontro con il luogo comune e riproposta di luoghi comuni rimasticati e conditi da un tasso di psicologismo imbarazzante; il tutto come una freccia diretta nel buio più buio, in una confusione reduplicata da uno stile saggistico, lo conosciamo bene, che mette insieme Fiorello e Toltoj, Bataille e Berlusconi.
    Per esempio, Borriello, il tuo assunto non è spiegato e non può essere nemmeno condiviso. Non leggi più romanzi. Bene: la cosa riguarda solo te, finché non ci darai una spiegazione meno inconsistente. Perché la storia della tv e dei media vale veramente poco per le cose che possono interessarci.
    Tu procedi per asseverazioni, con questa smorfia iniziale che dovrebbe dare un senso a tutto, metti là qualche esempiuccio di “pulsioni reali” (?) nella scrittura e tiri a far tornare i conti. Esempiuccio non lo dico in riferimento ai nomi sia chiaro. Nove mi va bene e provo per lui un’autentica simpatia soprattutto per le sue indignazioni e le sue incazzature, e Handke è un maestro. Ma tu tiri a far tornare la micragna, che risulti micragnosa il più possibile. Perché? Boh! Se poi consideriamo il fatto che molti di quelli che chiami romanzi sono in realtà narrazioni il quadro si fa proprio nero. Non si vede nulla. Piove sul bagnato.

    L’alternativa vera a una prosa accessoria sarebbe dunque: la poesia, la guerreria filosofica, il diario, il frammento, lo zibaldone, la preghiera. Dio ce ne guardi e liberi: Perché? Che c’è di più e di meglio in queste cose? Tu non lo dici. Si potrebbe smettere di leggere anche questa roba e dedicare le irripetibili ore della nostra vita a qualcosa d’altro.
    Dovremmo sciropparci quello che vuoi tu? Degli ex voto? Ma che razza di riflessione e di proposta è questa. Con in più un argomento indecente nei commenti: io non scrivo romanzi quindi sostengo la mia parte.
    Non ho inteso? Quindi tutta la fecondità che il ventre della narrativa (non dico nemmeno del romanzo) riesce a tirare fuori è roba che non ti riguarda perché scrivi poesie e frammenti?
    A me sembra ci sia qui un’idea piccola piccola di letteratura, e stento a capire che parentela abbia con queste posizioni il postatore, l’intrepido Roberto Saviano.

  25. gentile nelli, borriello c’entra solo con se stesso. se le sono antipatici gli zibaldoniani se la prenda con loro. e mi pare che la carica polemica nei confronti del suo testo si trasformi in attacco alla persona. borriello sostiene una tesi radicale, ma lo fa in modo civile.

  26. Sconcertante, signor Nelli, davvero sconcertante. Sono un lettore di riviste letterarie, e anche un lettore di Zibaldoni, non affezionato ma diciamo almeno attento. Cosa che certo non si può dire di lei. Lei mi sembra tutto tranne che attento, signor Nelli, mi dispiace ma devo proprio dirglielo. Neanche a me piace il modo di scrivere di Borriello – qualcuno ha detto trombonesco: io condivido, ma aggiungerei: ingenuo; quindi: ingenuo trombonesco – e non mi soffermo sui suoi presunti assunti (come li chiama lei), perché assunti che seguono a modi tromboneschi non se ne danno, a mio avviso; dunque, dicevo, neanche a me piace Borriello, ma da qui a fare di Borriello un “esemplare” del “gruppo degli Zibaldoni”, accomunando in condanne quantomeno penose (per lei, signor Nelli) scrittori come Gianni Celati, Antonio Prete, Giorgio Messori, Rocco Brindisi, Alessandro Banda (e non cito i più giovani solo per non irritarla – ma, sia detto per inciso, i più giovani che scrivono su Zibaldoni a me sembrano a volte anche più valenti degli altri). Ebbene, questi scrittori provocherebbero in lei, signor Nelli, “sconcerto e irritazione” poiché mescolano “raffinatezze e ingenuità, impulsi e piccineria, etc…”. Io invito allora chiunque abbia letto anche solo qualche breve passo di uno solo di questi scrittori che ho citato, a rintracciare “piccineria”, “confusione” e “stile saggistico” nella misura sproporzionata voluta dal signor Nelli, che evidentemente di letteratura capisce abbastanza per poter coltivare un campo di patate, ed è preso – è chiaro – piuttosto da qualche astio recondito, e presumo di vecchia data, che da valide ragioni (praticamente assenti del tutto dal suo post penoso). Chiunque rintracci insomma un qualche esempio di “piccineria” o “confusione” in libri come “Trenta gradi all’ombra” (di Prete) o “Fata morgana” (di Celati) o “La città del Pane e dei Postini” di Messori – tutti libri pubblicati in parte o in toto in Zibaldoni e che io ho avuto la fortuna e il piacere di leggere GRATIS prima che venissero pubblicati su carta – mi faccia un cenno, e magari ne faccia uno anche al presuntuosissimo e tronfio signor Nelli.
    E detto questo, non ho detto tutto, s’intende. Perché la cosa più stupida di tutte quelle che dice il Nelli è proprio la pretesa di rintracciare un “gruppo” laddove spesso – sc. certe riviste letterarie – gruppo proprio non c’è. Anche se, come dicevo, non sono un lettore accanito, non mi è certo sfuggito che in Zibaldoni convergono esperienze anche diversissime e, a volte, contraddittorie, per non dire, almeno per i miei gusti, del tutto spiacevoli, come ad esempio questa di Borriello. Marchiare quindi tutti quelli che scrivono su Zibaldoni come facenti parte di un “gruppo di imbecilli” (questo è il succo dei suoi assunti, signor Nelli), ripeto, è penoso, per chi lo sostine, e squalificante per la stessa Nazione Indiana, che – dico anche questo per inciso – resta per me uno dei luoghi più interessanti della rete. Uno dei luoghi sui quali, tra le altre cose, è possibile leggere scritti di molti autori che mi pare partecipino contemporaneamente all’impresa di Zibaldoni (Arminio, Borriello, Sebaste, etc). Ha provato a chiedersi, allora, signor Nelli, come mai Nazione Indiana accolga oggi al suo interno tanti “imbecilli”: che siano forse transfughi o relitti o scarti dei tanto vituperati Zibaldoni? Chissà? D’altronde, l’intervento di Arminio qui sopra mi pare faccia capire proprio qualcosa del genere (ma è una mia supposizione).
    Nella speranza che adesso lei non venga a dirmi che ho forzato certe sue parole – le ho semplicemente “tradotte” – la saluto comunque cordialmente, esortandola a leggere di più, e meglio, prima di mettersi in cattedra a sparare cazzate, ossia prima di dimostrare tanta provincialissima “piccineria”.
    Giuseppe Esposito

  27. E’ saltato un “ce ne corre…”, dopo questa parentesi: “…a volte anche più valenti degli altri)”.
    G. E.

  28. Dice Boriello: “angelini, pensa alla lingua tagliata della sirenetta”. Ma scusa, proprio adesso che mi sono fatto un culo così per contribuire al rilancio dell’Andersen ROMANZIERE? Suvvia, un po’ di tatto:-)

  29. difficile rispondere bernardo, soprattutto a freddo su un forum. parlando genericamente, la mia impressione è che la messa in cantiere di un romanzo ti richieda una concretizzazione formale del procedimento narrativo che stai imbastendo, che per propria natura obbliga ad una tessitura (fatta magari in fase di scrittura o a posteriori) fra le varie operazioni di ‘traduzione’, diciamo così, di quello vai scrivendo.
    questo formalismo prende ad esempio lo stesso concetto di personaggio, tenere un personaggio per cinquecentomila battute significa che questo personaggio non sarà solo quello che è, ma sarà anche quello che è stato, saranno le sue convinzioni e quelle di quelli che incontra, saranno le sue relazioni con altri personaggi e con gli ambienti e le situazioni con cui ha a che fare, sarà la sua infanzia, la sua mitologia privata e sarà l’apparato mediatico cui è sottoposto. e sarà quello che è all’inizio del romanzo e quello che sarà alla fine del romanzo.
    queste sono costrizioni narrative cui posso non essere sottoposto con altre forme di scrittura, ma che insieme fanno parte del fascino e della potenzialità della forma romanzo*. e bada che non parlo di protagonista, ma di personaggio e quindi il discorso che ho fatto poc’anzi va moltiplicato per ogni aspetto della storia narrata in una relazione che richiede un lavoro di scrittura e -appunto- di progettazione di world model che ritengo esemplare per uno scrittore di narrativa.
    non dico che scrivere un non-romanzo sia più facile che scrivere un romanzo, dico che scrivere un romanzo è più difficile. in generale**.
    il fatto che un buon romanzo sia in genere più godibile di un non-romanzo non è ascrivibile unicamente al fatto che berlusconi è presidente del consiglio o al fatto che si legga poco, ma che il lavoro che si fa sul romanzo è appunto un lavoro di traduzione e di codificazione della tensione narrativa che ha l’autore, traduzione e codificazione che producono una finzione oggettivamente più fruibile per il lettore, occasionale o meno che sia. a me, persona di media cultura che fa l’impiegato con un foglio di calcolo e un database, la lettura di un romanzo è più ‘fattibile’ della lettura di una silloge poetica che mi richiede tempi e spazi che non sempre posso avere. ma questa è una potenza della forma romanzo, non una mancanza mia che lavoro in ambiti non letterari.
    io ho letto per un annetto la trilogia di beckett, la cui ultima parte ‘l’innominabile’ è per me il non-romanzo per eccellenza, tutta la trilogia è un grado zero di scrittura, da lì in poi è cambiato tutto. poco tempo dopo ho letto, e ci ho messo di nuovo il mio bel tempo, l’infinite jest di wallace che è il contrario, è il grado 1000 di scrittura all’ennesima potenza, questa volta incapsulato in una forma romanzo, benché beffeggiante ed inconsueta. ecco, io credo che il lavoro ‘preparatorio’ che è stato dietro alla creazione dell’uno e dell’altro, solo casualmente ha a che fare con la stessa finalità: fare una cosa con delle pagine e della roba scritta dentro.

    f.

    * è un po’ come scrivere in versi con metriche e forme chiuse: secondo me non si può scrivere in verso libero se prima non si è scritto in metrica e forma chiusa.

    ** e chiudo: nella mia piccola esperienza, la scrittura di una serie di storie tra loro correlate e legate da una ambientazione in una forma da metaromanzo (e quindi non-romanzo) e la scrittura di un romanzo, anch’esso contenuto in una ambientazione, ha significato due lavori con caratteristiche radicalmente diverse: nel primo caso c’è una maggiore libertà di scrittura, ma anche una maggiore autoreferenzialità e una minore godibiltà finale per il lettore; nel secondo caso c’è un lavoro che sto riscrivendo per la terza volta perché se un personaggio ha determinate caratteristiche a inizio romanzo, pare che io ne debba tener conto anche cinquecentomila battute dopo: ma questo personalmente lo vedo come un arricchimento della scrittura e non il contrario.

  30. Signor Esposito, l’inizio del mio commento è leggero e stupido. Me lo rimangio. Io non so chi lei sia né chi siano Borriello e Arminio. Il mio non è un attacco agli Zibaldoni, che non conosco, bensì la manifestazione di un dissenso verso due interventi comparsi su Nazione Indiana in momenti diversi (Paoloni e Borriello). Fu Paoloni a rimandarmi al suo Timballo, che lessi così come ho letto le cose di Borrello. Quanto al resto, non c’è niente da rimangiarsi, e anche se mi dispiace per il carico di sofferenza che queste cose portano con sé, non ho altro modo per esprimermi che prendere la parola e dire ciò che penso. Mi sono occupato di posizioni, di idee, di atteggiamenti. Gli argomenti non sono ad personam anche se mi pare ovvio che non possono non toccare la persona. Nessuno possiede l’alchimia dello scorporo e dunque mi sembra inutile stare a levare in ogni commento la giaculatoria dell’inciviltà. Ribadisco che l’intervento di Borriello mi sembra un lancio al buio, che non ci vedo né idee né radicalità, e questo detto da uno che ha sempre provato disagio nei confronti di un’ipertrofia della narratività ecc. ecc. Lei invece, nel mentre elargisce patenti a destra e a manca, rilegittimando persone che non mi sono mai sognato di criticare, anche per il semplice fatto che non le conosco, incurante del merito del discorso, trova il tempo per insultare non solo me ma anche Borrello. E non c’è assolutamente modo di sbagliarsi, sono proprio insulti.

  31. Scrive Nelli:

    “L’alternativa vera a una prosa accessoria sarebbe dunque: la poesia, la guerreria filosofica, il diario, il frammento, lo zibaldone, la preghiera. […] Che c’è di più e di meglio in queste cose?”

    Mi associo alla domanda.

    E vorrei anche rilanciare: a me sembra molto intempestiva la guerra alle narrazioni, in un periodo in cui il valore della narrazione come amplificatore emotivo di contenuti è sempre più richiamato negli usi più diversi.
    Proprio un paio di settimne fa sulla prima di TTL della Stampa Gawronski ha fatto una piccola carrellata di studiosi che propongono applicazioni eterodosse della narrativa e della consapevolezza delle sue dinamiche all’organizzazione aziendale, al marketing e non so a cos’altro
    Ora, non mi interessano personalmente queste applicazioni, ma per me sono sintomatiche di quanto è in errore chi pensa che una narrazione, e in particolare un testo narrativo, sia di per sé meno dirompente, o anche solo meno potenzialmente utile a parlare del mondo, di un testo in una delle forme ipotizzate da Nelli o in altre.

    (Peraltro non considero poesia e diari come forme scevre di contenuto narrativo, naturalmente)
    CiaoM

  32. bene, questi attacchi indiscriminati mi hanno chiarito le idee. qui di fondo c’è un problema di corpo, un problema di percezione. ogni segno rimanda a una percezione esperita da un corpo, il segno “rosso” o il segno “infinito”, e senza comune esperienza non c’è comunicazione. il problema allora di chi é? la questione è indecidibile. quello che posso dire, è che le percezioni dei commentatori di NI mi sembrano già comuni (leggevo, amavo e recensivo romanzi a 20 anni; tutti sono capaci di seguire un filo narrativo o di valutare la qualità tecnica di un’esecuzione, come si fa perniciosamente in tv ogni giorno) ed è inutile dunque comunicarle ancora, le mie percezioni ho la vaga impressione che rimandino a referenti ignoti. ecco i dati: tashtego mi bolla la seguente frase “ la preghiera è il momento in cui la parola coincide con l’essere, e in cui il corpo affronta il silenzio che è dall’altra parte” che a me pareva la più bella e essenziale dello scritto; nelli appena si accenna alle chiese parla di “sciropparsi gli ex voto”; franco arminio viene scioccamente beccato perchè rimanda al misticismo; sebaste è stato attaccato di recente per motivi simili: c’è un’insofferenza evidente e indiscriminata a ogni tematica che rimandi al sacro, all’indicibile, alla vertigine metafisica. io ho la sensazione che (mediamente, collettivamente) i lettori e molti scrittori di NI abbiano una percezione “addestrata”, da una parte, e una percezione di breve gittata, parabolica, per un altro verso. dunque non collegano alcun referente ai termini “limiti del linguaggio”, “eccedenza”, “sacro” ecc., danno del trombone – o ingenuo, o pazzo – a chi li adopera, suppongo che abbiano letto poco levinas, heidegger o lacan, ancor meno hildegarda, lo pseudo-dionigi o grossatesta, guardano le video-clip e si contentano degli oliati meccanismi dei noir, credendosi moderni, ma hanno un corpo vecchio e involuto, e ben avvolto e schermato dal tecnicismo dominante. hanno forse un corpo piccolo, un referente piccolo: poco male, è male non saperlo. io leggo arminio e compro sebaste, (che non conosco…peraltro non mi inquadro in nessuna combriccola, zibaldoni o altro) perchè trovo le loro parole esposte e vertiginose, non mi sogno di comprare brindisi o messori, che non mi aumentano di un grammo: ma quello che dico infine non è nè che il romanzo è morto né che debba morire: solo che ci sono infinite altre percezioni da esplorare. bene fanno in NI a riproporre una nuova figuratività, diciamo; malissimo fanno a far coincidere la riproposta con la restaurazione, questa reale, dello strapotere e l’egemonia della fiction, di cui la cultura del successo e quella più retriva e ortodossa sono già congestionati.

  33. > è inutile dunque comunicarle ancora, le mie percezioni ho la vaga impressione che rimandino a referenti ignoti

    Beh, Livio, mi pare ovvio che le “esperienze mistiche” siano le più difficili da comunicare, e che si comunichino, semmai, “per simpatia”, mentre, a giudicare dai commenti, mi sembra ci sia parecchia antipatia in fluttuazione libera, alla ricerca di applicazioni. Però non generalizzerei troppo sulla base di dati così scarsi e scadenti.

    un grazie a f. per le sue chiare delucidazioni.

  34. Guardi, Signor Nelli, io ho semplicemente cercato di farle vedere quanti immani “cazzate” aveva avuto il coraggio di sparare in poche righe. Si offende se le dico che “spara cazzate”? Non dovrebbe, anche perché mi pare che abbia lei stesso ormai compreso quanta leggerezza e stupidità ha messo in parole che sempre più spesso capita di scrivere con troppa fretta. Guardi, le voglio segnalare un caso analogo capitatomi l’altro giorno ancora qui in N. I., un caso molto simile al suo: voglio dire un caso di “sparatore di cazzate” (la prego, non si offenda). Mentre leggevo un articolo di Sebaste su “l’unità”, la settimana scorsa, ho notato che il Sebaste medesimo confondeva il plurale di “omen” con quello di “homen”. Gliel’ho scritto in un commento a un suo pezzo qui su N. I., ma sa come ha risposto Sebaste? Con una prosopopea da intellettuale arrampicatore sugli specchi davvero scandalosa (mi scusi, ma io ancora mi scandalizzo per certe cose: non mi si offenda anche per questo!). Non insisito oltre su Sebaste; chi vuole, può andare a leggere da solo (cfr. qui in N. I. il pezzo dal titolo “I leoni” e annessi commenti).
    Dunque, dove eravamo rimasti? Ah, sì, alla fretta che abbiamo sempre più spesso nello scrivere. Signor Nelli, io deduco dalla sua foga ingenua e burbanzosa che lei sia molto giovane, e questo in parte la giustifica: giustifica, voglio dire, le sue “cazzate”. Però io credo anche che ormai chi scrive commenti nei blog o in posti come questo di N. I. spesso non abbia altri obiettivi che quello di dare velocemente addosso a qualcuno per qualche astio recondito, per cui, incurante di ogni altra cosa – in primis della correttezza e giustezza e onestà di quello che scrive – ami sopra ogni altra cosa sparare (“cazzate”) quanto più forte e alto è possibile, perché l’imperativo è ***colpire***, non importa come e a che prezzo. Prendiamo il suo esempio: lei dice che non ha nulla contro Zibaldoni, e che ha trattato posizioni, idee, etc. A me è sembrato proprio il contrario, per la verità, e anzi ci vuole una bella faccia tosta per venire adesso a sostenere una cosa completamente diversa. La parte interessante del suo testo era la critica al pezzo di Borriello, che io condivido, ma l’altra parte, che alla fine risultava addirittura la preponderante e giustificativa di tutto il resto, concerneva una evidentissima e indiscriminata ed esageratissima sfuriata nella quale lei faceva di tutta l’erba un fascio, sparando giudizi, accuse e diffamazioni (la “piccineria” non mi sembra un complimento) a tutto spiano sul “gruppo di Zibaldoni” (parole sue). Io questo ho letto, ossia questo lei aveva scritto, e il presente thread “canta”, Signor Nelli.
    Mi fermo qui, ma le do un consiglio, come lo darebbe un vecchio zio a un nipote che ha caro. La prossima volta, prima di sparare qualsiasi “penosa” (“dolorosa”, nel suo linguaggio) “cazzata”, ci pensi su qualche minuto. Prima di postare, almeno, non dico prima di scrivere. Vedrà che da una eventuale “sottrazione di commenti”, ovvero sacrosanti silenzi, guadagneremo tutti qualcosa, e forse ne guadagnerà anche la cosiddetta civiltà della discussione.
    G. E.

    PS: Neanch’io so chi è lei, per la verità, come non so chi siano quelli di Zibaldoni. Ma immagino di aver comunque il diritto di parlare in pubblico, o no?

  35. E’ vero, ho appena commesso una “sebastata” terribile (“homen”…)! Incredibile, no? Verrebbe quasi da pensare che io l’abbia fatto apposta… Ma non arriverò a sostener tanto, sebbene dopo le arrampicature specchiate di Sebaste (ieri il Nostro si arrampicava anche su “l’unità”…), tutto sembra ormai lecito a chi parla e scrive.
    Confido pertanto nel buon senso di chi legge, che mi giustificherà senza fatica considerando che trattasi nel mio caso di errore di battitura o lapsus da inconscio velocizzato o non so che. Del resto, mi son fatto un nome come “latinista” in altre stanze commentizie di N. I., no? Epperò: “E’ quel che ti meriti!” – dirà Sebaste. E chissà che non abbia ragione.
    G. E.

  36. Vabbe’, latinismi a parte, restano le CZZ di Nelli e l’esibizionismo di Esposito. In entrambi i casi, mi pare ci sia poco da stare allegri.

  37. Signor Esposito, un po’ di sangue pulsa ancora in N. I. Le ribadisco che gli Zibaldoni non c’entrano, e non c’entra né la fretta né l’astio, né la mia indiscutibile giovinezza. Lei non capisce niente e sbraita a casaccio. E ancor meno capisce al.t., il calligrafico postatore che si era appena svegliato dal pisolino del pomeriggio. Addio.

  38. Signor Nelli, lei può ribadire quello che le pare e piace: ribadire non costa nulla. Io ribadisco quello che ho letto nelle sue parole, che tra l’altro non avrebbe nemmeno bisogno di essere ribadito perché è in bell’evidenza qua sopra a futura memoria. Nel frattempo, incasso il suo ultimo, pregnante argomento (“lei non capisce niente e sbraita a casaccio”), che mi fa pensare a che tipo strano deve essere quel signor Paradiso che ha appena scritto qualcosa di esilarante in occasione della vostra morte per autodistruzione, et cetera et cetera. Ha letto, Signor Nelli? Vada a leggere, ché le farà bene.
    La saluto con affetto.

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