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Percorsi di significato

di Sergio Garufi

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Una delle immagini più suggestive, nel Trionfo della morte di D’Annunzio, è quella della scoperta del Duomo di Orvieto, quando il protagonista del romanzo percorre un dedalo di vicoli angusti nel centro storico della città e alla fine prova questa epifania scioccante (“d’un tratto, in fondo a una via, un miracolo: il Duomo“), come di un mostro sorto dal nulla.
Il tema del percorso, di come cioè un’opera si sveli attraverso il tragitto (interno o esterno, tattile o visivo) che ci conduce a lei, si ritrova pure negli studi che riguardano Castel del Monte. Mentre il primo è una brusca apparizione che sconcerta perché inattesa, il secondo si palesa subito, e si scorge già a grandi distanze. La strada da Andria scorre dritta per chilometri e il castello è là, in fondo, minaccioso e terribile come una corona imperiale poggiata sul terreno. Il tracciato è lo stesso dei tempi di Federico II, e l’impressione, man mano che ci s’avvicina, è che l’effetto intimorente sia deliberato. Un simbolo di potere così grandioso e inaccessibile da scoraggiare sul nascere qualsiasi velleità di sovvertirlo, provenisse da sudditi rivoltosi o da sovrani belligeranti.

Pure il percorso interno è rivelatore, e ha permesso agli studiosi di individuarne funzioni e gerarchie, per quella che fino a poco fa era considerata solo un’architettura ideale, basata su astrusi ed elaborati riferimenti matematici, zodiacali, filosofici; e dunque priva di finalità pratiche. L’analisi delle decorazioni di prospetti e retroprospetti ha tracciato una sorta di percorso interno obbligato che assegna i compiti a ciascun ambiente, ristabilisce le gerarchie degli spazi; tutti, insolitamente per l’epoca, d’identica dimensione.

Percorso tattile, invece, è quello di Antonioni ne Lo sguardo di Michelangelo, lo splendido documentario che ci svela il Mosè di san Pietro in Vincoli a Roma. Non un commento, una parola, una musica di sottofondo accompagnano la mano incerta dell’anziano regista che accarezza, sfiora e lambisce i lineamenti e i panneggi del gigante del Buonarroti in un silenzio udibile, materico.

La Rondanini è posta al termine del percorso obbligato del museo del Castello Sforzesco. Prima c’è la sala dell’Asse, coi lacerti del trompe l’oeil leonardesco, poi le armature rinascimentali, infine i frammenti del Gaston de Foix del Bambaia. Per le sale s’incontra poca gente: due donne sui quaranta assieme a un ragazzino, e una coppia di anziani che si tengono per mano.

La Pietà è stata appena restaurata, ed è molto più luminosa di prima. Dal lato destro la Madonna appare tozza e massiccia, mentre da quello sinistro la verticalità della composizione cede il passo a una curva sinuosa, concava, come una conchiglia che ricongiunga e fonda le due figure insieme. In un documento redatto da un anonimo ufficiale giudiziario poco dopo la morte di Michelangelo, al fine di inventariare tutti gli oggetti presenti nello studio dell’artista, si parla di due figure attaccate insieme. Inconsapevolmente, l’oscuro funzionario aveva visto giusto. Il fulcro dell’opera è lì, in quell’abbraccio della madre che, più che sostenere il figlio, lo avvolge e lo copre, quasi a volerlo riprendere dentro di sé.

Nel mentre giungono i due anziani, sempre mano nella mano. Quel gesto, nella senilità, mi ricorda il finale de Il soffio della notte di Grytzko Mascioni, l’ultima lirica della raccolta Angstbar (Aragno editore). Sono versi dedicati alla moglie, e il poeta sapeva che gli restavano pochi giorni di vita. E’ una poesia di un una naiveté che sconcerta perché rasenta la banalità, ma a volte è proprio in quella inermità priva di affettazione che si acquatta il sublime (tanto per dire che non è stata invano/ la candida avventura, sorridere nel vento, camminare/ la mano nella mano).

Arrivano le due donne col bambino. La madre lo tiene vicino a sé con le mani posate sulle spalle, similmente alla Rondanini. Il piccolo è insofferente, vuole uscire, forse più per il fatto che lei discorre animatamente con l’amica di avvocati e alimenti, che per la noia di stare in un museo. I frammenti del discorso sembrano presi da una transazione commerciale: “ho investito molto in quel rapporto”, “lui me l’aveva venduta così”. Il lessico dell’economia è diventato l’alfabeto del mondo.

Gli anziani tacciono. Prendono un volantino esplicativo sull’opera e lo leggono attentamente. Vi si dice che è un palinsesto di redazioni scartate e bruschi pentimenti; e si aggiunge che Michelangelo vi lavorò fino a pochi giorni prima di morire. Omette di segnalare uno dei particolari più interessanti, cioè che la scultura non aveva committenti. Oggi è prassi normale che un grande artista crei senza avere in mente un destinatario preciso, ci penserà poi il mercato a trovare degna collocazione; ma nel Rinascimento era un fatto assolutamente raro. In Michelangelo, poi, che già in vita era venerato come un Dio e che riceveva più richieste di quante potesse evaderne, si tratta di un evento eccezionale. La Rondanini è l’icona di un disperato monologo interiore, una sfida fra l’artista e la materia che terminò solo con la sua morte.

I disegni preparatori testimoniano un’apostasia stilistica. Michelangelo, ormai quasi novantenne, rinnega gli stilemi manieristici che lo resero celebre per avanzare in un percorso di smagrimento, di spiritualizzazione.
Come dice Antonio Paolucci in un’eccellente monografia, il Cristo, prima erculeo e possente, sorretto a stento dalla madre, via via si assottiglia, si scarnifica, perde peso. Più che afflosciarsi su se stesso, pare risucchiato dal ventre della madre, come in un processo di fusione. L’inversione di tendenza è denunciata soprattutto dal braccio spiombante isolato, che appartiene alla prima versione. Tutto il resto del corpo, dal tronco in su, verrà tolto di mezzo, per poi ricavarlo dal marmo dedicato a Maria.

Da vicino si scorgono grumi di luce depositati sulla superficie tormentata, scabra e irregolare, lì dove sono più evidenti i colpi di scalpello. E’ un’emozione intensa, poter ammirare i segni autografi di Michelangelo.
A tratti paiono unghiate, strisciate lunghe ed energiche, altre volte sono picchiettamenti nervosi, frenetici, soprattutto in prossimità dei volti. Sono figure larvali, maschere tragiche, sinopie di fantasmi. Tutto denunci un’insoddisfazione perenne, una ricerca incessante fatta di abbandoni e riprese.
In una definizione dell’arte di Franco D’Amico, si affermava che un’opera d’arte è tale quando l’autore perde la titolarità dei propri enunciati, cioè quando arriva a dire ciò che non sa di dire o non voleva dire.

Ecco, fra i tanti percorsi di significato inconsapevoli che offre un’opera come la Rondanini, c’è anche il valore che viene attribuito ai pentimenti, alle scelte sbagliate che contrappuntano la vita di ognuno. La compresenza di elementi frutto di redazioni diverse probabilmente si deve solo alla morte dell’artista; ma in ogni caso oggi l’opera si presenta così, e noi così la dobbiamo valutare. E ciò che ci dice questa Pietà coi suoi pentimenti, è che siamo il risultato sia delle nostre intenzioni che dei nostri errori, e che quest’ ultimi non vanno archiviati come meri inciampi della vita, temporanee deviazioni dalla via maestra che hanno comportato solo una perdita di tempo.
Chissà se lo ha compreso pure quella donna col figlio, tutta intenta a recriminare sull’ex marito senza accorgersi che il bimbo che ascolta è figlio di entrambi, è frutto di quello sbaglio. Nietzsche, rivolgendosi a Lou von Salomé, (nel Triangolo di lettere), scrisse : l’uno avverte in una felicità trascorsa un suo possesso, l’altro una sua perdita.

Pentimenti, vocazioni, quant’è comune il lessico fra arte e religione? La Rondanini, in questo senso, è la terribile confessione, in articulo mortis, di un artista che ammette che per lui l’arte è stata idolo e monarca, il suo Dio, la sua legge, la sua religione. Ma si potrebbe pure citare Marc Rothko, con la sua utopia artistica, che intendeva disseminare il territorio di cappelle laiche pieni di quadri dove potessero sostare in raccoglimento i pellegrini dell’arte. Forse, l’amore per l’arte testimonia la medesima frustrante aspirazione all’assoluto di chi crede che la vita abbia un senso e una giustificazione.

La coppia di anziani si allontana. Il percorso del museo è terminato. Per tutto il tempo della visita non hanno scambiato una parola. Sono rimasti in silenzio, immobili, tenendosi per mano. Solo poco prima di uscire lui si è staccato, si è avvicinato alla statua, gli ha girato un po’ intorno e si è soffermato a lungo ad osservare – con le mani giunte dietro la schiena, in quella buffa postura che assumono i pensionati quando guardano i lavori in corso – il viso tumefatto, dolente, privo di vita del Cristo. Aveva un’espressione insieme curiosa e malinconica, come se in quelle occhiaia sprofondate, in quel misero sudario, presentisse una figura del proprio destino.

(Già pubblicato su “Stilos” – luglio 2004)

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7 Commenti

  1. Off Topic
    Mi dispiace che Moresco lasci Nazione Indiana. Da fuori, per un commentatore, è difficile capire che spaccatura c’è, si intuisce che c’è qualcosa e basta.
    In contemporanea c’è stato il commiato di Giulio Mozzi dal suo blog. Continuerà con Vibrisse.

  2. Però che impietoso quel Giuseppe Genna! Scegliere due foto di Mozzi e Moresco che commuoverebbero anche i sassi, per dare l’annuncio del loro commiato nel suo blog…

  3. Off topic per A.Moresco…

    “Se invece c’è da correre qualche altra avventura collettiva più forte di Nazione Indiana (come N.I. è stata più forte, incombaciante e asimmetrica rispetto a “Scrivere sul fronte occidentale”), con persone veramente motivate e coerenti e disposte ad assumersi qualche rischio per quello in cui credono, per fare una cosa radicale, creativa, spiazzante, coraggiosa e felice, allora io sarò il primo a starci. Ma per fare di più, non di meno. ”

    Speriamo, caro Moresco!

  4. Che bel gesto! Ma il perché non è chiaro fino in fondo. Forse il Moresco si offeso per qualche commento cattivo o sgarbato?

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