Bella giornata

di Piero Sorrentino

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“Ma bella giornata voleva dire bella per conto suo, come la natura che è indifferente al destino dell’uomo. Voleva dire una gioia che sembra sempre lì, a portata di mano, proclamata dall’azzurro raggiante del cielo, e che però non si può condividere. Voleva insomma dire una idea ostinata in fondo alla testa, radicata nell’animo, nel sentimento delle cose, ed è rispetto a quell’idea che tutto si misura”.

Sulla metafora centrale di Ferito a morte, su questa potente “idea ostinata” che ha fatto da impalcatura concettuale al suo romanzo più famoso, Raffaele La Capria è tornato più volte nel corso degli anni, con una passione che a poco a poco è scivolata impercettibilmente nell’insofferenza, nell’impazienza di un confronto serrato con sé stessi e con le proprie idee diventato soffocante, assoluto, esclusivo, e dal quale, in un mondo innamorato delle etichette com’è quello letterario, è difficile venire fuori.

Uno dei tentativi per alleggerirsi le spalle dal peso dolce della “bella giornata” sta in un capitolo de L’Armonia perduta, intitolato appunto “Descrizione di una bella giornata”, da cui è tratto il passo riportato all’inizio. La “bella giornata” per La Capria è il luogo dell’immaginazione mitologica che irradia da due opposte disposizioni dell’animo: uno spazio limpido, illuminato “dall’azzurro raggiante del cielo, e che però non si può condividere”; un’idea ariosa, solare, “ostinata in fondo alla testa”, allo stesso tempo abitata dall’immedicabile e dolorosa percezione della sua distanza, della sua irraggiungibilità. Filippo La Porta si è chiesto che fine avesse fatto la “bella giornata” nei libri dell’ultima leva di scrittori meridionali, se si fosse impigliata da qualche parte della loro “benché fervida” immaginazione o se invece – nonostante gli scrittori napoletani si caratterizzino comunque “per una personalità stilistica forte, per l’onestà della rappresentazione, per l’originalità dei loro temi” – fosse andata irrimediabilmente dissolta: “della bella giornata non avvertono neppure la mancanza per la ragione che non ne hanno veramente esperienza. Ma il presente, senza il senso di una mancanza, può avere significato? E’ come se scrivessero tutti ad apocalisse già avvenuta, quando non c’è più da salvare o prendersi cura di qualcosa”.

Ho contattato qualche scrittore per chiedergli cosa pensasse dell’articolo di La Porta. Qualcuno non nasconde un disagio sottile ma tenace, una perplessità che rasenta lo sconcerto e che si traduce in affermazioni affilate e ironiche; qualcun altro glissa, preferisce non rispondere. Qualcun altro ancora è impegnato col lavoro oppure è in viaggio e non ha tempo per replicare. Riporto qui di seguito le risposte che ho ricevuto: icastiche e formulate in modo volutamente provocatorio o articolate e più attentamente strutturate, mi sembrano tutte un piccolo e interessante contributo alla discussione sulle idee espresse da La Porta.

Diego De Silva: “Dopo aver letto l’articolo di La Porta ho finalmente capito che la vita è bella: infatti ambienterò il mio prossimo romanzo, a maggio, nella villetta del Mulino Bianco”.

Maurizio Braucci “E’ certo che la modernità ha notevolmente ridotto le occasioni di vita rispetto al passato, ma la romantica perentorietà della risposta di La Capria (che a chi gli chiedeva cosa mancasse agli scrittori napoletani aveva risposto “La vita…” n.d.r.) non corre il rischio di lasciar intendere che agli scrittori napoletani, oggi, più che la vita manchi la dolce vita?”.

Franco Arminio: “La Napoli in cui è vissuto La Capria è lontanissima dai posti in cui vivo.
Gli scrittori meridionali vanno visti uno a uno, non accetto giudizi seriali. La letteratura è una collezione di anomalie. Quel centro ipogeo di cui parla La Porta è una formulazione suggestiva e merita di essere considerata, ma alla fine non so se lui è capace di calarsi a cogliere queste profondità, quando ci sono. Per prima cosa io non so che significa Napoli e dintorni e la trovo comunque una dizione scorretta. Esiste Napoli come esiste Bisaccia, il mio paese. Esistono poi scrittori meridionali che scrivono altrove e lo stesso La Capria mi pare che non c’entri nulla con quello che è oggi il sud, nel bene e nel male. Io non so cosa sia la bella giornata di La Capria e neppure quella di La Porta. Sono vissuto e vivo tra migrazioni, frane e terremoti. Direi che si scrive non per la bella giornata ma per salvare le brutte giornate che una dietro l’altra infiliamo in una matassa di sfinimento che non finisce di finire. La Porta avrà i suoi buoni pensieri che lo spazio esiguo di un articolo non gli ha consentito di illustrare adeguatamente. Ripeto, il suo discorso sul centro ipogeo è interessante, ma a questo ci accosterei il problema del “disincanto realistico egotico nichilista della prosa moderna” di cui mi parlava in una mail il mio amico Gianni Celati. A questo punto ci vorrebbe un discorso lunghissimo che mi evito e ti evito. Io scrivo e vivo come se un medico mi avesse diagnosticato un’ora di vita. La mia non sarà una bella giornata, ma è intensissima e mai banale. E la letteratura ha solo due compiti, in fondo, rifuggire la banalità e cercare l’intensità”.

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