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Realismo ed esperienza

di Francesco Pecoraro / Tashtego

Provo sommessamente a mettere in fila due o tre punti sulle questioni sollevate da Temperanza, senza allargare per ora il campo.

Realismo.
La facoltà di scegliere una cifra narrativa, qualsiasi essa sia, realistica, visionaria, metaforica, fantastica, eccetera, si basava sulla consapevolezza che esistesse comunque una REALTA’ CONDIVISA, da narrare e interpretare, da leggere e far leggere secondo il modo che si riteneva più opportuno efficace, eccetera.
Sono convinto, assieme a molte altre persone, che oggi la realtà che percepiamo sia una cosa GIÀ NARRATA e che non sia possibile sollevare, o squarciare, il velo di narrazione secondo il quale viene fornita, per riferirvisi direttamente: anche la lettura ideologicamente più estrema e contro-intuitiva del mondo, ha bisogno appunto di qualche dato di prima mano sul mondo, anche su un mondo “privato” e apparentemente ristretto.
Dunque non è il realismo ad essere “minato dall’interno”, ma la stessa realtà come referente ultimo di ogni narrazione.
Oggi la parola scritta arriva per ultima, dopo che il campo dell’evento (e quello generico del vivere) è stato già arato e defoliato a tappeto da ogni altro possibile mezzo di comunicazione (cioè di narrazione): nulla deve sfuggire alle maglie del convincimento, nessun paradigma ideologico deve sopravvivere alla distruzione di fine Novecento, nessuna lettura che voglia in qualche modo essere “completa”, può nemmeno pensarsi.
Si può lavorare solo sui frammenti e sui frammenti dei frammenti, e comunque sempre sul già detto e sul già scritto, narrato, rappresentato, lavorato, digerito.
Il narratore scrivente manca anche lui di un accesso alla realtà (la chiamo così per convenzione e con la convinzione che qualcosa del genere esista “fuori di noi”) esterna, al referente ultimo di ogni sua intenzione narrativa.

Esperienza.
Non sono ben sicuro di aver capito cosa intende Temp per trasmissione dell’esperienza, ma probabilmente si riferisce alla narrazione come mezzo per riassumere e trasmettere il già vissuto ad uso di chi deve ancora vivere e per farlo, possibilmente attraverso la sintesi artistica (mi si perdonino certe formulazioni). Roba così.
Lei parla di rottura della catena dell’esperienza. È vero. Sono d’accordo, ma questa crisi, che è anche crisi dell’età matura (vedi l’ultimo numero della rivista ZERO), risale a quando il tasso di trasformazione del mondo assimilabile da un individuo che ci vive dentro non ha raggiunto un punto di intollerabilità, oltre il quale ogni esperienza acquisita nelle vite precedenti, non serviva più a un catzo.
Nel mio precedere per “convincimenti provvisori”, credo che gli anni Ottanta del novecento abbiano sancito questo passaggio.
Ma oggi siamo ben oltre.
Oggi non si tratta più del tasso di trasformazione tollerabile da un individuo, ma di una vera e propria parcellizzazione dell’esperienza nei confronti di una realtà, ripeto, percepibile solo attraverso altre narrazioni capaci di dirigere ed orientare già dal primo istante dell’evento.
Anzi, ben prima dell’evento.
Cosa può, in questo quadro – molto impreciso, provvisorio e approssimativo – darci ancora la narrazione, divenuta narrazione di narrazione, di narrazione, eccetera?
Come può riuscire a porsi come “sintesi artistica” dell’esistenza, come suo picco conoscitivo et polisemantico?
E anche se lo potesse, vista la forza delle altre narrazioni, chi la leggerebbe?
Come si vede non sono domandine.
Ma prima delle risposte, che non conosco, mi piacerebbe sapere cosa si pensa qui di domande così formulate.
Probabilmente già poste più volte con molto maggiore efficacia, altrove.

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21 Commenti

  1. Prima ce la menate con i nick nei commenti e poi pubblicate addirittura post in prima pagina firmati da nickname… confermo: ARIDATECE MORESCO!

  2. Avendo il nome, il cognome e il curriculum giudichereste diversamente le sue considerazioni e la sua scrittura? Mumble, mumble.

  3. mi chiamo francesco pecoraro.
    sono uno scrivente, non uno scrittore.
    vivo a roma.
    ho una certa età.
    domani finalmente riesco a partire per un paio di settimane, dunque non potrò rispondere a possibili commenti.
    me ne scuso.
    grazie a tutti per l’eventuale attenzione.

  4. Concordo con le considerazioni espresse da Caterina e vorrei invitare a valutare le parole scritte a partire dal contenuto e non dal nome.
    Sono solo un piccolo Trespolo di provincia, ma qualche dubbio mi viene leggendo i 4 commenti inneggianti a Moresco e Scarpa che, ripeto, non conosco e vedrò di informarmi.

    Non mi pare che Tashtego abbia scritto castronerie; si possono condividere o meno le sue idee, si possono criticare, smontare, persino fare a pezzetti, ma mi pare maleducato ignorarle e invocare il nome di chi non c’è.

    Buona serata. Trespolo.

  5. In effetti anche io speravo in un proseguimento del dibattito. Avrei voluto sentire anche il parere degli indiani.
    Ma probabilmente la riserva è deserta causa ferragosto.

  6. Se non capisco male (ma può darsi che capisca male), tutto questo potrebbe essere ricondotto a una concezione postmoderna (del pensiero, del mondo, della letteratura).
    Ma se si è postmoderni, se si ritiene – pur rammaricandosi – che il pensiero è sempre e comunque debole e che non c’è più una realtà condivisa, come si fa a dichiarare (non qui, nella discussione sul post “Apparition”) che si è in grado di “dire esattamente come stanno le cose”? Oppure – come Temperanza – considerare il “dire come stanno esattamente le cose” una semplice “base”, un punto di partenza?

    E poi: se si guarda in particolare alla letteratura, la crisi del romanzo (il romanzo classico, quello ottocentesco con l’autore onnisciente e onnipotente, quello che presumeva – per l’appunto – di giungere alla “sintesi artistica” dell’esistenza) non è una cifra di tutto il novecento?
    Le “narrazioni” non sono ibride e molteplici e “deboli” da molto tempo?

    E ancora: non vale più la considerazione della particolare difficoltà della letteratura italiana a sfornare romanzi plausibili? Difficoltà vecchia anche questa, mi pare…

  7. cara Emma,
    ma io, Temperanza, sono postmoderna? O – se lo sono inevitabilmente – lo sono con felicità, o cerco di trovare una strada per non esserlo? Sono malata di nostalgia e dunque spero che si possano dire “le cose come stanno”, o l’invito a “dire le cose come stanno” è solo una mia patetica mancanza di lucidità?
    Se la possibilità di dire “le cose come stanno” è minata, vale forse allora la possibilità di “dire alcune cose fin qui nominate così come stanno in questo momento o in questo contesto”?
    Sono proprio domande, nel senso che in questo momento mi viene solo di rispondere alle tue domande con altre domande, proprio perché alcune delle cose che tu dici in questo commento avrei potuto dirle anch’io.
    Spero di poter leggere qualche altra risposta tra oggi e domani perché sono anch’io in partenza come tashtego.

  8. Cara Temperanza, non volevo né intendo offenderti. In effetti non so se sei postmoderna o no :-) (suppongo comunque che la tua presenza su N.I. significhi che – se lo sei – non sei particolarmente felice di esserlo :-).
    Il punto di vista di una persona che – come te – lavora nell’editoria, mi sembra particolarmente interessante, contestualizzato, concreto. Tuttavia – senza con questo sminuire l’importanza delle questioni “pratiche” o dei fatti così come sono o come, talvolta dolorosamente, accadono – mi piacerebbe sentire anche altre voci.
    Insomma, tu hai sollecitato l’intervento di un economista. Ben venga l’economista, ma – data la rilevanza delle questioni sollevate – perché non anche un filosofo, o un artista, o uno scrittore, o un non addetto ai lavori, un semplice lettore interessato e a rischio di luoghi comuni?

  9. Non mi sono affatto offesa, ci mancherebbe. Se sono o meno postmoderna, se “siamo” o meno postmoderni, e se è possibile non esserlo nella pratica (perché le intenzioni sono un’altra cosa) era una domanda che mi facevo anch’io su me stessa. Certamente vivo con una certa problematicità le cose che dicevo, soprattutto nei commenti in coda all’altro thread. Diciamo che ho un atteggiamento piuttosto sperimentale, mi interrogo, e sarei curiosa anch’io di sapere come vive il rapporto con l’esperienza e con un sistema di valori debole, sempre che lo senta debole, anche qualcun altro. Ma soprattutto mi interessava sapere se questo è un problema davvero sentito anche dalla generazione successiva alla mia, o se per i più giovani non “fa” problema. Quale sia poi l’esito sulla scrittura (che a me soprattutto interessa) deriva in fondo da questo.

  10. Rispondo a temperanza, per quel poco che ne so (da esperienze scambiate con coetanei) e può competere a me: il primo problema è oggi un sistema italiano debole, che non offre né chiede competitività. Se hai una rendita, puoi permetterti decente sopravvivenza; se hai un impiego, sei soggetto a ristrutturazioni e flessibilità indefinite; se hai nulla, metti saccoccio in spalla e via a cercar fortuna. In tali condizioni, da saccoccianti, l’unica maniera per stare saldi è avere un’identità forte e l’elmetto perennemente calato: i nemici sono i diretti superiori (e precedenti, come generazione), del tutto inadeguati ma ben saldi alle poltrone. Se pensassero un po’ meno a speculazioni e privilegi di posizione, se cioè si impegnassero a creare valore invece che utili per sé e gli amici degli amici, la barca si rimetterebbe in rotta, le prospettive migliorerebbero e anche il lusso di poter pensare “debole” potremmo concedercelo. Si è cioè rotto un tacito patto generazionale che ha funzionato discretamente, finché c’erano i soldi; ora sono finiti e si sperimenta tutti i giorni, sulla pelle di chi non ha entrature. In questo senso, la realtà supera la letteratura: i resoconti di Aldo Nove dal mondo del lavoro precario, erano un valido esempio. Purtroppo, concludo, è mancata una guerra: la pax atomica ha consegnato l’Italia ad una generazione di bacucchi arzilli che giocano (alcuni) a fare soldi o (altri) “pensiero”, gli uni e gli altri beatamente fottendosene di ciò che ci stanno lasciando in eredità, e che dovremo pagare.

  11. caro/a Giusco,
    non credo che ti consolerà, ma la precarietà riguarda anche la mia generazione, io lavoro molto a progetto, ma se il progetto non c’è non lavoro, lavoro per l’editoria quando l’editoria mi propone un lavoro, ma se non ce l’ ha, non lavoro, a volte ho troppo lavoro e non oso dire di no, perché possono arrivare i tempi in cui nessuno me lo chiederà.
    Ma tu parli di identità forte, che è una cosa diversa mi pare.
    In ogni caso quello che mi pare interessante e che per me è già una risposta, è che in pratica mi dici, non ho né il tempo né la voglia per chiedermi se il pensiero è debole, perché io devo essere forte per sopravvivere. Il che, se non altro, vuol dire che sei ben oltre vattimo;–)
    Ma tu, per esempio, che cosa leggi, e perché leggi? Che cosa cerchi in un libro diciamo così di “letteratura”? E in generale, la “letteratura” ti interessa in qualche modo, o ha una parte microscopica nella tua vita?
    Se mi rispondi che l’unica cosa che ti interessa nella vita è la politica ovviamente queste domande cadono, ma se c’è una forma di espressione estetica che in qualche modo ti rappresenta, o con la quale ti senti consonante, qual’è?

  12. cara Temperanza, dopo aver letto troppo da ragazzo, sopporto ora solo la poesia: è la maniera più diretta di conoscere e la forma esteticamente meno annacquabile. Preferiti: Celan (in traduzione, il tedesco non lo conosco), Muldoon, Szymborska (in traduzione, polacco zero); fra gli italiani, De Angelis e, tra i riconosciuti del ‘900, Saba. Simpatizzo Betocchi e trovo che il più rilucente, in assoluto, sia stato Sandro Penna.

  13. Certo che dei poeti che dici i più giovani hanno più di cinquant’anni, è curioso, se come mi pare di aver capito tu sei della generazione successiva. Ma certo, che la poesia sia la maniera più diretta di conoscere e la forma meno esteticamente meno annacquabile, anche se so che non è vera, è sottoscrivibile;–)

  14. intorno alle questioni sollevate da francesco pecoraro e riprese dai commenti: sono cruciali, importantissime, almeno tanto quanto sono “ambigue”, “intricate”, “confuse”; ma uso questi termini in senso wittgensteiniano: parlare di narrazioni, di narrazione, di realtà, di media, ecc., significa toccare questioni speculative che sono al centro di ampie riflessioni teoriche (come è ovvio); varrebbe davvero la pena metterci mano, ma con strumenti e riferimenti adeguati, e farlo anche coralmente, ognuno portando un proprio riferimento privilegiato;

    io mi sono occupato di teoria del romanzo e di funzione cognitiva delle narrazioni in un libro dal titolo “l’eroe segreto. il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo”; il taglio del lavoro è piuttosto accademico, ma provero’ a postarne qualche passaggio a settembre

  15. qualche osservazione (a ruota libera) su letteratura e realismo:

    Qualche tempo fa in un film hollywoodiano anni novanta ci fu una scena straordinaria. Lui, golden boy , belloccio, elegante va a dormire da lei appena conosciuta dopo un ristorante. Fanno l’amore, in un letto separato dal resto della casa giusto da una tenda quasi trasparente e di tanto in tanto arrivano i colpi di tosse, disumani, del figlio. Lei va, poi torna, e quando dice all’amante , quasi scusandosi che suo figlio soffre di una malattia respiratoria grave, quello si alza , si veste e prima di andarsene quasi gli intima:
    ” Too much realist”
    Da allora mi chiedo che cosa volesse dire il tipo, ma che lo dicesse uno così mi faceva poco sperare. E perchè non esistesse da noi, nelle lingue latine o nella cultura europea un espressione equivalente.

    Quando k diventa Gregor Samsa che diventa insetto, il realismo di k li contiene tutti e tre. Muove le zampette come se effettivamente fossero state da sempre sue, esattamente come Gregor che ha una sola preoccupazione, anch’essa realista, di non arrivare tardi al lavoro.
    Quello che mi spaventa è l’orda di scriba dell’ombelico, che ti ripetono fino alla nausea, io racconto solo cose che so, anzi solo io potrò raccontarvi di incesto, di omosessualità, di aids, di violenza carnale, di serial killer, di sassi dai ponti delle autostrade…

    E anche quando la realtà ci è troppo insopportabile si può essere realisti come Anna Maria Ortese, nel mare non bagna Napoli e in particolare nella figura della bambina che tra le due percezioni della realtà, con gli occhiali e senza, una volta in possesso delle preziosissime lenti, non ce la fa a vedere…
    Ecco, e non vuole essere una risposta, la letteratura non deve essere mai in competizione con la realtà. E se la realtà racconta meglio di voi, cioè in maniera assolutamente fantastica, ciò che è, ovvero, i fatti, inutile tentare di far meglio.
    Chiedetelo a Robertino Saviano quando nelle sue scritture vi cronaca e sembra quasi che sia lui a inventarle, delle storie inverosimili, surrealiste, di camorristi capizona che si chiamano Sandokan o Zorro, ecc, ecc. Il ritardo anche di un solo giorno, della letteratura sulla realtà, disinnesca ogni capacità di produzione e di invenzione anche solo linguistica della realtà. Il romanzo, la poesia hanno una funzione innanzitutto conoscitiva della realtà ma ciò accade perchè il romanzo, la poesia creano attraverso i personaggi, cioè esistenze possibili, un destino possibile.
    Oppure la letteratura disinnesca la realtà quando la denuncia, ovvero scrive nero su bianco cose che tutti sanno o fanno finta di sapere, com’è successo sempre a Robertino, come ben scriveva su NI a proposito dell’interogatorio seguito alla pubblicazione del testo sulla realtà della camorra nel casertano.

    Riflessioni sul rapporto tra letteratura e la realtà le trovai in uno splendido libro di Nabokov, Avant le coucher du soleil, se non ricordo male (tradotto ma non lo so in italiano, suonerebbe prima del tramonto) o nell’introduzione (edizione francese) di Witold Gombrowicz a Cosmos.

    @ Andrea. secondo me le tue pagine, bellissime ( le conosco) sul romanzo dovresti postarle. E non solno solo io a pensarlo visto che marco Giovenale, al telefono mi diceva la stessa cosa.

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