Neuropa (1 estratto)

di Gianluca Gigliozzi

LETTERA SUGLI IDIOTI A USO DI QUELLI CHE CAPISCONO 1749
O voi che vedete, trovo molta difficoltà a scrivere una lettera sugli idioti a gente la cui intelligenza non soverchia quella di molti onorevoli mentecatti, santificati da Dio, dalla società e dai codici attuali—d’altronde siete voi che vedete, no?—e poi non c’è rischio che possiate accanirvi ancora contro di me, dal momento che in prigione mi ci avete già messo—è evidente che la mia “LETTERA SUI CIECHI AD USO DI QUELLI CHE VEDONO” ha smosso qualcosa di voi che vedete—comunque vi scrivo per dirvi che starmene rinchiuso qui a Vincennes non basterà a fermarmi—può darsi che sia IO il cieco, può darsi che sia IO a non vedere—e forse gli idioti designati nella lettera presente sono quelli come me—

ma quello che voglio dire lo dirò comunque, a meno che non mi facciate crepare—ma in quel caso dovrete ridurre al silenzio tutti gli altri idioti, perché altrimenti finiranno per dirlo in qualche loro scritto, che mi avete fatto crepare per impedirmi di dire—e magari qualcuno dei loro opuscoletti potrebbe anche sfuggire ai vostri saggi roghi—e dunque voi complicatemi pure l’esistenza, ma dirò comunque quello che penso dei culti religiosi, e cioè che sono fandonie, e della natura, e cioè del suo magnifico disordine, del fatto che tutto è mutazione, e che persino le forme naturali di piante animali e persino dei nostri cari simili non conservano la forma attuale da sempre, ma sono il prodotto di una lenta articolata trasformazione avvenuta nei millenni—dirò tutto questo, bene e male, lo scriverò su fogli che forse non verranno mai santificati dalla stampa—ma quel che dovrà arrivare arriverà, non ho fretta—ma l’idiota vi scrive anche per dirvi che lo sa già che alla fine vincerete voi—forse non dovrebbe rivolgersi a chi vincerà, perché l’idiota sa che i pensieri di tutte le nazioni sono cresciuti all’ombra di un immancabile signore, di un qualche vincitore—ebbene bisogna inaugurare un nuovo filone di pensieri che offendono il signore inevitabile—ma rimane sempre quel vincolo, quella presenza—ma il pensiero senza l’ombra dell’inevitabile signore sarà davvero più libero?—non lo so—non so neanche che significhi davvero questa libertà di cui ho scritto tanto—da quando mi hanno rinchiuso qui la parola LIBERTA’ per me ha un senso piuttosto univoco, e molto concreto—scrivere, chiacchierare col mio amico D’Alembert sorseggiando tè, passeggiare con Anne-Antoinette e mia figlia nei giardini pubblici, pranzetti a quel ristorantino delizioso sul quai d’Orfèvre—la ROUTE D’OR, mi pare si chiami—voglio dirvi che non so neanche se tutto quello che ho scritto vale qualcosa—ma vale forse più il fatto che non lo so—né lo voglio sapere, perché magari lo userei contro chi ne sa ancor meno, finendo per somigliarvi—ma pare ci debba essere sempre qualcuno da inseguire, ammirare, combattere, e che infine ci spezzi—non so se è il destino naturale finire spezzati, forse potrebbe evitarsi—forse è il segno che siamo fuori della natura, noi idioti—ma forse voi che vedete ci avete costretto a strapparci dall’ordine naturale, che poi ordine non è—forse non ci sono buone ragioni per finire spezzati da voi—ma non ne vedo di ragioni per non farsi spezzare da voi, se questa sarà la conseguenza del dire ciò che va detto, comunque—e comunque sarà detto, a costo di insidiare il vostro ordine, quello che dite ordine—non so che può esserci, dopo—forse ancora voi, camuffati da noi—ma bisogna tentare di dirlo, per quanto questo insidi soprattutto chi dice—lo dicevo prima che so che vincerete—fin dall’inizio non avete visto di buon’occhio il lavoro mio e di D’Alembert, la nostra Cyclopaedia di Francia—ogni tanto minacciate, prima o poi ci fermerete, lo so—già me lo diceva l’amico, VE LO DICO SUBITO CARO DIDEROT SE I GESUITI SI METTONO IN MEZZO GIURO CHE ME NE VADO—è probabile che se ne andrà, anche se Le Breton ci deve un sacco di soldi—il mio amico Jean de Ronde è stato abituato agli onori fin da ragazzo, è naturale che si spaventi se annusa delle minacce dall’alto, come si dice—invece IO ai modi dell’alto, come dell’altissimo, sono abituato eccome—prima padre Theodore al convento dei gesuiti a Langres—poi padre Gustave al collegio d’Harcourt—poi quel figlio di puttana di mio padre, quel cane—e adesso dite pure che ce l’ho con voi perché mi ricordate quella canaglia bavosa di mio padre—o forse cominciate a vedermi, voi che vedete, come un figliol prodigo, forse recuperabile, alla lunga—pensate quello che vi pare—e poi quel boia che diede fuoco ai miei “PENSIERI FILOSOFICI”, no che non me lo scordo, quello—e so alla fine come ve la caverete—la prenderete con voi l’Enciclopedia, sarà vostra—presto sarete per il progresso, per la ragione, tra qualche secolo, o forse meno, anche per la repubblica, magari, perché no—metterete le mani su tutto, su tutto quello per cui noi idioti oggi sanguiniamo—o forse l’errore è proprio nostro—forse c’è un nostro errore alla radice, che non riusciamo a vedere—ma non possiamo fermarci paventando la vostra vittoria—oppure, che gli altri si fermino—IO non mi fermo—anche se questo servirà solo a spezzarmi—o forse tutto sarà spezzato da adesso in poi—voi che vedete renderete vostri tutti i beni della terra e dello spirito—e parlerete sempre di unità, già vi immagino—ma IO fin da adesso mi spezzo e spezzerò perché tutto, quando vi approprierete della ragione, sia reso spezzato—per rendere più evidente la menzogna della vostra unità—questo devo fare, perché non so—sarà perché mi ricordate mio padre—sarà perché mi ripugna la vostra altezza—sarà perché voglio farmi spezzare—forse perché ho paura di diventare come voi—che ne so, ditemelo voi che vedete

*

Il brano è tratto dal primo libro di Gianluca Gigliozzi: Neuropa. Poema epicomico in prosa (Luca Pensa Editore, Lecce). Per chi fosse interessato, al libro è dedicato un blog: www.neuropa.splinder.com. Qui di seguito riportiamo un capitolo centrale, quello più “politico”.

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