Super santos, pali e capistazione

foto di Eduardo Castaldo
di Roberto Saviano

È una regola eterna. Immutabile. Bisognerebbe riuscire a trovare una formula matematica. Quantomeno una riduzione numerica, una frase aritmetica, un tentativo di proporzione, un delirio logaritmico. Si dovrebbe trovare una traccia formale per poter comprendere i meccanismi ineluttabili e perenni che regolano le partite di calcio di strada. Il chiattone in porta, quello smilzo e veloce avanti, il robusto in difesa e a centrocampo, tutto il resto. Quello che non ha i piedi buoni ma sa lanciare, quello che sa correre veloce ma ha fiato corto, quello robusto ma non abbastanza stabile. Insomma a centrocampo va messo quello che sa fare tutto a metà. Ora però rispetto a qualche anno fa ci sono delle varianti. Quando ero ragazzino i portieri erano i peggiori. E la porta era una punizione tra le più umilianti. Un posto lontano da cui vedere la partita, ricevere dolorose pallonate in faccia che ti segnavano di rosso il viso per settimane, un ruolo dove eri costretto a raccogliere la colpa del gol subìto ed essere ignorato dagli abbracci del gol realizzato. Piuttosto che un giocatore il portiere era un raccattapalle mobile. Un ruolo terribile.
pallone da calcio Super Santos Spesso il posto del portiere era sopportato a turno ma quando non si trovava nessuno da umiliare in porta, da poter soggiogare nelle retrovie, quando insomma tutti i giocatori erano capaci di tener testa, allora si sceglieva di giocare a “porta americana”. Senza portiere. Due squadre si fronteggiavano cercando di segnare in un’unica porta con nessuno a difenderla: a turno, la squadra difende o attacca, alternandosi nei ruoli dopo ogni gol. Non mi è ben chiaro perché questa modalità sia stata definita all’americana. Una volta tornammo ubriachi da una festa con le quattro portiere dell’auto spalancate, urlando “andiamo all’americana”. Tutto quello che è strano e insensato o forse semplicemente esagerato, come giocare senza portiere o rischiare un incidente mortale, viene definito “americano”.

Oggi invece il portiere è realmente rivalutato. I portieri ora hanno donne bellissime, vincono i palloni d’oro. Così molti ragazzini scelgono di fare il portiere. I chiattoni della squadra non si sentono esiliati nelle retrovie, ma prescelti per difendere l’ultimo baluardo.

Nel centro storico di Napoli tutti i ragazzini neri vanno in porta da quando il Milan ha acquistato un portiere nero brasiliano. Un po’ come quei ragazzi che vengono dall’Argentina e godono di assoluta fiducia nelle proprie capacità sportive di riflesso, grazie a Maradona. Dopo la crisi argentina del 2000 che ha prosciugato i risparmi della piccola e media borghesia, sono sbarcati a Napoli molti argentini i cui avi erano partiti cento anni prima dal golfo. Ora i loro nipoti dopo aver implorato nelle ambasciate italiane il passaporto di ritorno che i loro avi avrebbero strappato volentieri, sono tornati ad abitare nei quartieri da cui erano fuggiti gli emigranti. Un percorso inverso che mai avrebbero immaginato di dover fare. I piccoli profughi dai cognomi italiani e nomi latinoamericani sono tornati a giocare nei vicoli dei loro trisavoli, a scalciare calci d’angolo sui piedi delle statue come i loro bisnonni. Il solo fatto di provenire dalla terra di Maradona, il solo fatto di avere una cadenza simile a quella del pibe de oro, basta per attribuire subito a questi ragazzini un carisma infinito e una bravura certa.

Il tocco, la conta che avviene tra i due capisquadra per scegliere i giocatori è un vero laboratorio antropologico. I capisquadra sono i più bulli, non sempre i più bravi. Anzi quasi mai. Ma sono quelli che sanno fare scivolate violente rovinando caviglie, che danno testate mirando al naso, che sputano con una mira da cecchino e beccano sempre la pupilla ben aperta. Sono quelli che sanno farla pagare a chi buca il pallone o lo fa finire dietro una cancellata. Ma il tocco è determinato dall’arbitrio delle dita lanciate davanti alle pance, e non c’è bravura, solo caso e fortuna. Se però la squadra dell’attaccante di talento inizia a comporsi di brocchi, il tocco diventa una condanna perché se intorno si costruiscono le scelte peggiori non si avrà alcuna speranza di vittoria. Allora spesso accade che mentre si compone la squadra, che può essere di tre, quattro, cinque o sei persone, il giocatore più forte si accorge chiaramente che il tocco gli è andato storto e il caposquadra sta scegliendo gli scarti. Così non gli rimane che gettarsi a terra e piangere. Senza vergogna alcuna, perché la vergogna di piangere nasce solo quando subisci uno schiaffo, ma piangere contro il destino del tocco è l’unico modo per tentare di rimischiare le dita e ritentare da capo e non c’è vergogna a protestare contro il destino. Dopo il pianto, associato a uno sbattere di piedi e un insieme di bestemmie, spesso non cambia nulla. Ma a volte può capitare che qualcuno rimescoli tutto e tenti di rifare le squadre pur di far cessare il pianto.

Alla fine degli anni Ottanta il gruppetto più forte si trovava sicuramente a nord di Napoli: Dario, Antonio, Giovanni, Giuseppe. Non avevano più di 8 anni a testa quando scorrazzavano per la piazza. Non facevano sempre squadra, si mischiavano, l’uno contro l’altro, a volte in coppia ma quando si mettevano nello stesso gruppo erano imbattibili. Antonio al centro era capace di lanciare a Giovanni ovunque si trovasse. Inventava spazi impossibili, e Giovanni si andava a prendere la palla ovunque sotto i motorini come a un millimetro dal palo. Giuseppe in porta faceva delle uscite precisissime. Con il naso sulla palla saltava a scatto come una ranocchia e gli scatti avvenivano sempre nel momento giusto. Si metteva i guanti di lana, come un fregio di professionalità. In estate usciva con le dita completamente cotte e la pelle bollita. Dario si posizionava fuori l’aria di rigore e sparava delle bordate che lasciavano l’orma del pallone sul muro. Una volta Antonio lanciò il pallone in avanti con un pallonetto, Giovanni si aggrappò alla spalla di una signora per lanciarsi in una mezza rovesciata e ficcò il pallone proprio all’incrocio dei pali, nella porta disegnata sul muro con la vernice. La signora credeva che la stessero scippando, lanciò un grido secco e iniziò a tenersi stretta la borsa, mentre un’altra signora l’aveva acciuffato per i capelli ricci tirandoglieli violentemente. La squadra avversaria chiamò fallo. Giovanni si ribellò dicendo che si era appoggiato a una signora, non a un giocatore, ma alla fine gli avversari ebbero ragione perché per strada tutti sono giocatori e ogni cosa fa parte del campo. Chi attraversa il campo diviene, anche se solo per qualche secondo, parte dell’azione di gioco. Le auto invece sono “fuori”, ma i motorini e le saracinesche possono tenere ancora la palla in gioco.

Antonio era molto preciso anche sulle punizioni. Un piede delicatissimo. Dalla periferia nord prendevano il bus per arrivare in piazza Plebiscito. Giocavano proprio sotto il Palazzo reale, sotto gli occhi delle statue dei sovrani di Napoli. Antonio puntava il pallone all’altezza di Gioacchino Murat poi prendeva una rincorsa di qualche metro e calciava. (Il Super Santos non poteva essere preso di collopiede come il pallone di cuoio. Non si poteva dare nessun tipo di effetto al Super Santos, ogni azzardo sul pallone significava fargli prendere il volo). La palla così calciata da Antonio partiva con un percorso secco, un colpo senza sbavature. Prendeva in pieno l’indice puntato verso terra di Carlo v che cascava come fosse stato attaccato con la saliva. E i ragazzini lo raccoglievano come un trofeo di guerra. Antonio aveva rotto per cinque volte di seguito l’indice di Carlo v. La mattina poi gli amici lo andavano ad avvertire: «Antò, hanno rimesso il dito al re!». Era divenuta una sfida tra Antonio e il restauratore della statua. Ogni volta che lo rimettevano aspettava qualche settimana e poi andava con le sue punizioni a staccare il dito regale. In tanti ci tentavano. Ma solo lui ci riusciva.

foto di Eduardo Castaldo

Quando Tonino Porcello divenne capozona dell’area nord di Napoli, passava spesso per la piazza dove giocavano i ragazzi. Era attento a ogni partita. Una volta prese una sedia e si sistemò in un angolo della piazza per godersi lo sgambettare dei ragazzini. Per i ragazzini era come se l’autorità massima fosse scesa allo stadio. Come se Hugo Sanchez, l’attaccante messicano che in quegli anni infuocava le curve di mezzo mondo, fosse stato lì a valutarli per poterli proporre al Real Madrid. Tonino Porcello decise che quella piazza sarebbe stata in mano loro. Loro avrebbero sempre giocato lì e per farlo gli avrebbe dato settimanalmente dei soldi. Puntuale, preciso e con qualche moneta in più e mai in meno. La mattina a scuola, e poi dalle quattro di pomeriggio sino a mezzanotte a giocare a pallone. Mentre Tonino parlava a tutti i ragazzini della piazza, ognuno sperava di essere prescelto. E un giorno Porcello tese l’indice, somigliava a quello di Carlo v: «Tu, tu, tu e pure tu».

Chiamò: Dario, Antonio, Giovanni, Giuseppe. Solo loro. Gli altri a casa. Gli altri a giocare nelle ore concesse, solo un po’, come divertimento momentaneo. Loro invece avrebbero potuto vivere giocando. In cambio, il lavoro che dovevano svolgere era semplice. Appena vedevano un’auto della polizia o un’auto civetta che riconoscevano o sospettavano, dovevano gettare il pallone in fondo alla strada e urlare: «’o pallone, ’o pallone, ’o pallone». E così tutti gli avrebbero fatto eco. «’O pallone» avrebbero gridato i negozianti, «’o pallone» avrebbe gridato la signora con la testa fuori dalla finestra, e persino il postino avrebbe urlato «’o pallone». Una richiesta del pallone che diventava allarme. In pochi minuti i pusher avrebbero lasciato la strada, le bustine di coca sarebbero passate di mano in mano e messe al sicuro. Tutto in una manciata di secondi. Più veloce di qualsiasi altro mezzo di comunicazione. Il quartetto era diventato abilissimo. In cambio di qualche lancio fuori campo e strillo, gli veniva garantita la possibilità di giocare a pallone e nient’altro. Nessuna consegna, nessuno di loro doveva fare il garzone, nessuno di loro doveva vendere nulla. Nessuno di loro doveva lasciare la scuola. Porcello voleva che continuassero ad andarci sino al diploma, altrimenti gli assistenti sociali li avrebbero tolti alle famiglie e quindi dal quartiere. Giocare, giocare, giocare. Battere, vincere, segnare. Non avere altro per la testa. Nulla più che le immagini della porta, del centrocampo, dell’aria di rigore. Immagini così vive da trasformare una piazza di spaccio nel San Paolo, e una parete marcia d’umido in una porta regolamentare. Cambiò anche la qualità del pallone. Non più il volante e leggero Super Santos. Tonino Porcello gli garantì una fornitura di Tango. Il Tango era il pallone più simile a quello di cuoio. Stessi colori e superficie rugosa dei palloni calciati in serie A. Il Super Santos era ormai relegato ai tempi in cui ancora non erano stati ingaggiati dal Porcello, quando la piazza non era la loro. Una volta accadde che andarono dal tabaccaio a chiedere l’ennesimo Tango gratuito e non gli fu dato: «Lo dovete pagare. E va bene una volta, va bene due volte. Ma qua bucate dieci palloni a settimana. O pagate o niente!».

Giuseppe impostò lo sguardo nel modo più cupo che poteva. Fece una faccia feroce. Ma il tabaccaio non si sentì minacciato. Bisognava andare direttamente da Tonino Porcello. Andò da solo verso il palazzo dove aveva l’ufficio. Fuori dalla porta i due guardaspalle lo riconobbero subito:

«E che ci fai Peppì?».
«Devo parlare con Tonio urgentemente».

Il tono perentorio fece considerare uomo quello che era evidentemente un bambino. Fu lasciato passare. Dopo pochi minuti Porcello scese tenendo la mano di Giuseppe. Entrò dal tabaccaio, chiamò nel negozio gli altri ragazzi, fece abbassare la saracinesca e disse al negoziante: «E ora mettiti per terra».
«Come per terra?».
«Per terra, hai capito bene, a quattro zampe, muoviti animale!».
Il tabaccaio ubbidì terrorizzato, si mise carponi. Aveva così paura che le mani sudatissime si attaccarono a ventosa sulle piastrelle.
«E ora fate fare il pallone al suo culo».

Giuseppe gli diede un calcio nel sedere con tutta la forza. Dario lo diede di piatto, Antonio fece di tutto per far finire la punta del suo piede dritta nel deretano, Giovanni prese la rincorsa e lanciò un calcio che beccò persino lo scroto. Il tabaccaio si girò come uno scarafaggio rivoltato, con le mani sulle palle. Urlò di dolore lasciando gonfiare la giugulare come una carota. Da allora ebbero sempre palloni in quantità. Senza dover pagare nulla. Partite, dribbling, punizioni. Tutto quello che accade prima o dopo non conta. Non vale. Anzi non esiste. Giocare è tutto. L’utopia di poter solo giocare senza fare altro, senza neanche fermarsi è il vero sogno del calcio. Un sogno che i tifosi sentono punito quando i novanta minuti terminano, quando arriva il lunedì.

Antonio, Dario, Giovanni, Giuseppe non vedevano tradito il loro sogno. Per strada il gioco perenne è immaginabile. Perché la palla è sempre al piede, perché puoi dribblarti il barbiere, fare un corner dalle strisce pedonali, fare un colpo di testa dal balcone. E i quattro volevano solo giocare. Giocare sempre. Giocare per esaurire tutte le forze, ma anche tutti i possibili pensieri. Mangiare per ricaricarsi, dormire per trovare altre energie. E giocare senza essere costretti a relegare il gioco al margine, ad aspettarlo come ricompensa per la fatica, per il lavoro, per il dolore. Un antidoto al dolore, alla fatica, al lavoro. Credere che potesse essere infinita questa risorsa non era impensabile. E poi, anche se si fosse prima o poi interrotto questo eterno esilio nella terra dei balocchi, perché anticipare il terrore, l’angoscia, la paura? Le orecchie si sarebbero allungate in forme asinine presto, e quando la trasformazione in ciuchi sarebbe avvenuta niente avrebbe potuto fermarla. Ma sin quando si poteva giocare, perché fermarsi? E poi chi ha detto che il sogno irrealizzato è meno degno del sogno realizzabile? Il Napoli aveva avuto solo sogni irrealizzati. Grandi giocatori come Rudi Krol, Omar Sivori, José Altafini, partite meravigliose ma alla fine nessun risultato importante. L’illusione può essere l’unica vera realizzazione possibile. E quindi va bevuta tutta. Sino alla feccia.

foto di Eduardo Castaldo

Intanto Porcello cresceva nel suo clan. Era riuscito a trasformare i luoghi del contrabbando in luoghi di stoccaggio e vendita di cocaina, eroina e tutti i tipi di droghe leggere, pasticche e acidi. Un mercato floridissimo. Porcello con il tempo ebbe incarichi economici dirigenziali e non più esclusivamente organizzativi e militari. Una volta raccontò del capostazione. Diceva che era un suo amico. Era un ferroviere, perciò lo chiamavano il capostazione. Ora è uno dei massimi dirigenti sportivi, i procuratori gli sono vassalli, gli arbitri gli devono carriere e ville, non c’è giocatore straniero di talento che lui non possa raggiungere o tesserare. In queste terre il capostazione è diventato potente, ha saputo stillare danaro e potere dalle imprese che più rendevano: politica e camorra. Ha mandato in cancrena giocatori, squadre, allenatori, ha imboscato miliardi di lire bruciandoli per l’acquisto di celeberrimi incapaci; è riuscito a far giungere anabolizzanti sconosciuti; ha saputo difendere suoi dirigenti accusati; ha saputo fare di suo figlio, il più tonto dei figli, un ricercato procuratore. Dal veleno dell’infezione ha ricavato vita e salubrità per sé e per i suoi clienti. Il capostazione adorava tutti gli intermediari, i mediatori, li vedeva come sue braccia da usare senza dover sporcare le sue dita, candide e senza calli. E poi queste braccia aggiunte potevano essere tagliate in ogni momento. Tonino Porcello era una delle miriadi di braccia che il capostazione usava.

Tonino gestiva i soldi che il suo clan investiva in giocatori e squadre, si sentiva prescelto dal capostazione ignorando di far parte di uno stuolo interminabile di sensali: uno dei molti, uno degli ultimi. Aveva iniziato a far carriera nel calcio accompagnando il capostazione a conoscere il presidente dell’Avellino, il costruttore di Mercogliano Antonio Sibilia. Il presidente dell’Avellino lo incontrarono in tribunale a un processo. Non era andato a testimoniare, né era imputato, ma si era recato da Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata, per donargli una medaglia. Una medaglia d’oro con dedica. Da un lato inciso il profilo del lupo irpino, dall’altro l’omaggio: «A Raffaele Cutolo dall’Avellino calcio». Un giornalista sportivo denunciò la cosa. Luigi Necco, il giornalista che seguiva il Napoli. Raccontò la cosa alla trasmissione Novantesimo minuto. Una trasmissione che interrompeva matrimoni, operazioni chirurgiche, funerali, capace di far tacere qualsiasi discorso al solo sibilare della sigla. E così il giorno dopo, contravvenendo all’assoluto ordine di Cutolo di non toccare i giornalisti, spararono nelle gambe di Necco. Lo punirono perché aveva svelato l’omaggio privato, il vassallaggio che doveva rimanere un gesto familiare.

Dario, Antonio, Giuseppe, Giovanni erano ormai i più forti calciatori di strada dell’area nord di Napoli. La squadra juniores del Napoli li prese. Giocarono tre partite, mostrando a tutti cosa significava avere talento nel calcio. Macinavano il campo. Li stavano per tesserare quando Tonino Porcello si presentò al campo. Antonio lo vide da lontano, mentre si stava tirando su i calzettoni. E prima di finire di srotolarli aveva già capito tutto: la piazza era troppo scoperta, gli altri ragazzi non riuscivano a coprirla bene e addio tesseramento. Tornarono così a giocare per strada. Qualche mese più tardi, fecero una partita con i maranesi. I rivali di sempre. Si stavano scontrando con falli pesanti, cross nervosi, spallate da rugby. Dario aveva tra i piedi il pallone. Davanti due difensori e il portiere fuori dai pali. Gli venne in mente un’azione che aveva visto pochi giorni prima in Atalanta-Juventus. L’aveva in mente chiarissima. Aveva stampato in mente come aveva dribblato la difesa Evair, un brasiliano tozzo finito all’Atalanta quasi per caso, con una faccia da innocuo mascalzone. Dario gli somigliava persino. Arrivò un’auto della polizia ma lui continuò l’azione. Ne passò un’altra ma Dario continuò i suoi tocchi. Gli altri iniziarono a urlare «’o pallone ’o pallone», ci fu immediatamente un’ansia generale, i ragazzini iniziarono a scappare e urlare, mentre Dario ostinato continuava ancora la sua artistica azione ispirata a Evair. I poliziotti si insospettirono. I ragazzi furono tutti identificati. La Polizia arrestò diversi pusher, bloccò alcune donne che stavano nascondendo le buste di coca. Il fortino venne espugnato.

Dario il giorno dopo fu portato nell’ufficio di Porcello.
«Allora? Cosa hai combinato?».
Dario non aveva neanche il coraggio di muovere la lingua in bocca.
«Era troppo bella l’azione che stavo facendo».
«Ma che cazzo dici! Ma che significa troppo bella? Ma io ti pago, ma tu veramente vuoi fare il calciatore con i soldi miei? Tu dovevi lanciare il pallone, dare l’allarme, perché non l’hai fatto?».
«Era troppo bella l’azione, mi dispiaceva interromperla…».
Porcello gli mollò uno schiaffo di rovescio lasciandogli sulla guancia un graffio, la traccia del suo anello. Nessuna bellezza poteva fermare l’economia del quartiere. Per i ragazzi essere pali significava poter vivere giocando a pallone. Per il clan giocare a pallone significava poter vivere facendo i pali.

Ormai i ragazzi crescevano e non potevano più ricevere pochi spiccioli per stare in strada. Ora dovevano scegliere il ruolo da rivestire nell’organizzazione. Ognuno fu fatto entrare nel sistema da Tonino Porcello. Quella ispirata da Evair fu l’ultima partita che fecero tra loro. Tutti e quattro.

foto di Eduardo Castaldo

Anni dopo arrivò una convocazione a Brescia, in un albergo. Vennero chiamati tutti. Antonio aveva conservato un viso identico. Giuseppe giunse con i guanti. Giovanni continuava a essere scheletrico e nodoso. Sembrava che non fosse passato un solo giorno dalle partite per strada. Mancava solo Dario. Ma ormai lui si era inimicato il sistema. Dopo lo schiaffo ogni suo ruolo era stato cancellato. Tutti e tre erano stati convocati dal Porcello. Lo incontrarono mentre dava i documenti all’albergo. E solo in quel momento seppero che Porcello non era un soprannome. Era il suo reale cognome. Sulla carta d’identità era scritto precisamente Antonio Porcello. Il capostazione gli aveva chiesto un favore. Un favore delicato. Uno di quelli che devono essere assolutamente adempiuti. Bisognava scortare un cuore. Un cuore di un ragazzo da dare a un uomo di un boss. Francesco Mollo, braccio destro di Gennaro Veneruso, il boss di Volla, uno dei padrini più spietati del vesuviano. Mollo attendeva il cuore da tempo e temeva però che non l’avrebbero fatto mai arrivare.

Vittorio Mero La notizia del trapianto circolava ed erano in molti a non voler far continuare la vita di Mollo. Aveva bisogno di una sicurezza, voleva che il suo cuore fosse scortato. E allora si era rivolto ai secondiglianesi. Così Porcello aveva convocato i suoi ragazzi. Il cuore da dare a Mollo era di un giocatore del Brescia. Vittorio Mero. Un difensore centrale. Prima che un tir travolgesse la sua auto mentre stava tornando a casa, erano solo i tifosi del Brescia a conoscerlo. Mero era un giocatore perbene. Uno di quelli che lavorano senza falli, attenti su ogni palla. Uno di quelli di cui nessuno si ricorda. Vittorio stava ritornando a casa quando è morto. Era stato squalificato. Avrebbe dovuto giocare Brescia-Parma, una semifinale di Coppa Italia. Baggio aveva avuto la notizia del suo incidente e l’aveva detto ai compagni di squadra. Nessuno se la sentì di scendere in campo. Mero era uno di quelli di cui nessuno si ricorda. Perché i difensori devono spaccare le ossa, farsi espellere, tranciare i piedi. Ci sono calciatori che sembrano giocare come se stessero alla catena di montaggio, lì in mezzo al campo a fare il loro dovere, avanti e indietro. Terrorizzati dall’essere tagliati, cacciati, prestati in qualche serie minore a otto ore di treno da casa. I telecronisti diedero la notizia del decesso in diretta tv e la sua famiglia che attendeva la partita, apprese la morte di Vittorio così.
La mattina dopo arrivò l’auto con il cuore. I tre entrarono armati nell’auto che gli aveva dato Tonino Porcello. La squadra si ricompose. Mentre camminavano Antonio inchiodò l’auto prima di imboccare l’autostrada per Milano. Le ruote posteriori pattinarono. Giovanni sbatté la testa contro il cruscotto. Come per istinto Giuseppe caricò il fucile, sicuro che ci fosse qualche problema. «Cos’è stato?».
Antonio si fissava le cosce. Poi iniziò a parlare: «Non mi pare giusta questa cosa?».
«Quale cosa?».
«Che il cuore di questo ragazzo debba essere dato a Francesco Mollo. Uno non vive fino a trent’anni per dare il cuore a uno come Mollo».
Giovanni era già in ansia e le riflessioni di Antonio non lo rasserenavano. «Ma come ti viene adesso di farti questi problemi. Ma proprio ora, cazzo, hai deciso di pensare al cuore di questo?».
«Ma questo è il cuore di un calciatore, uno come noi. Un cuore. Un cuore di uno che ha giocato a pallone. Sapete cosa significa? Non è giusto!».

Difficile discutere di giustizia quando hai una mitraglietta Uzi a tracollo e in macchina persone con due fucili a pompa carichi e pronti a sparare. Ma forse non ci sono momenti idonei per riflettere su certe cose. Antonio non ce la faceva a consegnare il cuore di un giocatore a un camorrista. Anche lui era un camorrista, anche lui si era affiliato. Ma era diverso. Lui l’aveva fatto per fare altro, per campare come un calciatore, per vivere di gioco. E poi non avrebbe mai chiesto il cuore a nessuno. Mollo era l’uomo di fiducia di un boss implicato in una storia che i ragazzi non potevano sopportare. Veneruso aveva dato l’ordine di punire un uomo del clan Orefice e aveva organizzato tutto affinché fosse realizzato con la massima violenza. L’agguato doveva avvenire in una città del napoletano dal nome ridicolo, Pollena Trocchia, che Totò usava come metafora per definire un paese sperduto, una realtà microscopica per antonomasia. Ma di ridicolo e ironico questo paese ha soltanto la cacofonia del nome. I killer non dovevano colpire Raffaele Terracciano, ma un fratellastro di suo padre. Dovevano colpire lui. Ma avevano dinanzi Raffaele, e così iniziarono a sparare su tutto quanto si muovesse o fosse immobile. Valentina, una bimba morì con un colpo alla testa. Aveva due anni, stava in braccio al padre quando arrivò la pioggia di colpi. Il boss non si era preso neanche la responsabilità dell’ordine che aveva dato e si era lavato dell’onta facendo fuori gli esecutori e addossando su di loro tutte le colpe.

«E a quella bambina non ci devo pensare? Neanche le palle di prendersi loro la responsabilità hanno avuto!».
«No, non ci devi pensare, a te ha fatto qualcosa? No! E allora?».

Era vero. Mollo non gli aveva fatto nulla. E questo bastava per renderlo degno di rispetto e in diritto di ricevere il cuore di quel giovane calciatore. Risultava ridicolo ragionare in astratto. Il principio di giustizia non può articolarsi in maniera astratta. Altrimenti coinvolge tutti, colpevoli i ministri, colpevoli i papi, colpevoli i santi e gli eretici, colpevoli i rivoluzionari e i reazionari. Colpevoli tutti di aver fallito, ucciso, sbagliato. Giustizia e ingiustizia potevano avere definizione solo se considerate nel loro ruolo concreto. Di vittoria o sconfitta, di atto fatto o subito. Se qualcuno ti feriva, ti maltrattava, stava commettendo un’ingiustizia, se invece ti trattava nel migliore dei modi ti faceva giustizia. Bisognava fermarsi a questi calibri. A queste maglie di giudizio. Bastavano. Dovevano bastare. Questa è l’unica reale forma di valutazione della giustizia. Il resto è solo religione e confessionale. E così anche Mollo meritava il suo cuore giovane, la possibilità di campare ancora. L’auto con il cuore di ricambio per il camorrista vesuviano arrivò sana e salva a Milano. Porcello li aspettava. Si fermò vicino ad Antonio: «Poi mi sono dimenticato di dirti che non era più il cuore del giocatore. Era messo troppo male, ma qua si ammazzano continuamente sulle strade e un primario amico del capostazione ne ha trovato subito un altro di cuore da dare a quel disgraziato di Mollo».

Il capostazione riusciva persino a decidere non solo delle volontà e della vita degli altri. Ma persino degli organi, della morte, dei trapianti. Sembrava davvero capace di mettere le mani nelle viscere di chiunque. Antonio fissò Giovanni e Giuseppe cercando di capire chi aveva raccontato a Porcello le sue perplessità. Ma della delazione non se ne curò molto. È una necessità per chi fa certi lavori. Per Antonio fuori dal gioco tutto poteva accadere e tutto si aspettava. Nel gioco, nel gioco solo può esistere la realtà che lui voleva vivere. Era sul campo la vera vita, non altrove. Antonio non smise mai di giocare a pallone. Divenne centravanti del Real Casavatore. Real! Con questo prefisso altisonante non giustificato da nessuna monarchia e nessuna assoluta nobiltà si appellavano molte squadre dell’entroterra campano: il Real Marcianise, Real Aversa, Real Marzano. Una volta il sindaco di un paesino del casertano, orgoglioso per la promozione della propria squadra, aveva invitato la fotografa della «Gazzetta dello Sport». Mentre stava per fare la foto, due del Real le si avvicinarono bloccandola. Chiamarono due giardinieri che si spogliarono dinanzi a lei. Poi si rivestirono con il completo della squadra. L’attaccante e il libero del Real erano latitanti, non potevano apparire, giocavano sotto nome falso e nelle foto erano sempre sostituiti da facce occasionali.

foto di Eduardo CastaldoCon il tempo, Antonio divenne un fedelissimo del clan Di Lauro di Secondigliano. Approfittava delle trasferte per incontrare i referenti del clan, con cui si incontrava prima di ogni partita fuori lo stadio. Raccoglieva i soldi dei pusher, dei capoterritorio che dovevano dare alla dirigenza la loro quota mensile. Con il tempo gli permisero persino di proporre idee di investimento alla dirigenza del clan. I referenti del clan Di Lauro aspettavano che la squadra di Antonio andasse a giocare nella loro zona per versare le quote alla cassa del clan. Da un po’ di tempo però agli appuntamenti fuori lo stadio non si presentava più nessuno. Casavatore, il paese di Antonio, era finito in mano ai ribelli e nessuno voleva correre il rischio di trattare con qualcuno che proveniva dalla zona di chi si era rivoltato al boss, almeno prima di capire chi sarebbero stati i vincitori della guerra.
Giovanni e Giuseppe seguivano sempre Antonio nei suoi incontri di lavoro. Loro avevano lasciato perdere il calcio. Il sogno del gioco perenne l’avevano abbandonato pagandolo con l’affiliazione al clan e la cura della fornitura di hashish ed eroina a diversi trafficanti del centro Italia. Ma nessuno rimpiangeva nulla. Qui si è abituati a pagare per qualsiasi cosa, ogni scelta la paghi. La scelta di restare, la scelta di emigrare, lavorare in nero, arruolarsi, tutto si paga senza possibilità di vantaggio. È la prima cosa che impari quando cresci da queste parti. Aver pagato per un sogno, il sogno di vivere giocando, in fondo non era peggio di pagare per qualche altro motivo. Se proprio si deve subire, meglio subire per un desiderio che in parte si è assaggiato, piuttosto che per qualcosa che non si assaporerà mai.

Antonio finì la partita e dopo la doccia uscì con Giovanni e Giuseppe. Mentre stavano tornando, un’auto li fermò. Aveva una sirena sul tetto. Scesero due uomini con i tesserini della polizia. I ragazzi non tentarono di fuggire né di fare resistenza. Sapevano come dovevano comportarsi: l’avvocato lo avrebbe pagato il clan, avrebbero continuato ad avere uno stipendio, e un indennizzo versato alle famiglie. Li ammanettarono, li caricarono in auto. L’auto poi d’improvviso si fermò e li fece scendere. I tre non capirono subito, ma quando videro le pistole tutto fu chiaro. Era un’imboscata. Non erano poliziotti ma gli spagnoli. Il gruppo ribelle. Giovanni iniziò a correre e Antonio, come se lo stesse lanciando in attacco, urlava: «Vai Giovà, vai vai vai…».

Giovanni correva sbilenco, per le mani legate dietro la schiena, e la testa come unico perno d’equilibrio. Cadde. Si rialzò. Ricadde. Si faceva forza con il collo. Corse ancora. Lo raggiunsero, gli puntarono un’automatica in bocca. Mi hanno detto che gli hanno trovato i denti rotti, aveva tentato di mordere la canna della pistola, come per spezzarla, o forse l’istinto.

Dario seppe la notizia quasi subito. Lavorava come fioraio a Roma. Era andato via da Napoli, via dal quartiere, via da tutto. Ma ancora, da lontano, si sentiva con i compagni di squadra. Lo svegliò la moglie e non ci fu neanche il bisogno di raccontare i particolari. Era scoppiata la guerra di camorra e sapeva che tra i soldati c’erano Antonio, Giuseppe e Giovanni. Dario prese il treno e tornò a Napoli. Arrivò di notte. Andò sul posto dell’agguato, vide per terra ancora i disegni con il gesso, il sangue seccato vicino ai battiscopa dei marciapiedi, dove l’acqua delle secchiate l’aveva spinto. Chissà se in quell’istante sia venuto in mente a Dario la sagoma di Evair; chissà se si è ricordato che quell’azione, quella sgambettata gli avevano salvato la vita. Dario non ebbe difficoltà a raggiungere la piazza dove giocavano, anche se ora è completamente cambiata. Attraversata da muretti abusivi, fortini abbattuti e ricostruiti. La piazza era stata trasformata in un territorio blindato, un sito di stoccaggio della cocaina che avrebbe inondato mezza Europa. Scavalcò un muro, tagliandosi il palmo con un coccio di bottiglia, ma non se ne accorse nemmeno, non c’era più dolore da sentire. Dallo zaino cacciò il Super Santos. E iniziò la partita. Iniziò a sbattere il pallone sul muro dove era ancora tracciata la porta con la vernice. Punizioni, dribbling, palleggi e poi bordate contro il muro. Nessuno in porta, nessuno in difesa, nessun centravanti. Da solo. All’americana.

Tratto da “Il pallone è tondo ” curato da Alessandro Leogrande (L’ancora del mediterraneo euro 13.50 pag.236)

Lo sport più amato, più ricco, più seguito, più narrato; ma anche più corrott. Rappresentazione del potere e del danaro ma anche il divertimento dei poveri, luogo per eccellenza di esibizione delle abilità. Individuali e collettive, il calcio a tutto tondo. Fatto di storie reportage inchieste: quello di ieri, che per Gianni Mura “era un calcio impastato di ironia, di rabbia, di umanità. Era un mondo adulto , si sbagliava da professionisti come nella canzone di conte. Non tornerà più perché il castello è cresciuto e le fondamenta sono sempre bugie” e quello di oggi dal divismo alla tratta dei baby-calciatori, dalle curve e gli ultrà alle trasformazioni degli ultimi decenni.

Autori del libro:

Marco Ansaldo
Ornella Bellocci
Maurizio Braucci
Pasquale Coccia
Andrea Di Caro
Matteo di Gesù
Giancarlo Dotto
Goffredo Fofi
Stefano Laffi
Marco Martinelli
Gianni Mura
Sandro Onofri
Luca Rastello
Corrado Sannucci
Roberto Saviano
Paolo Sollier
Mauro Valeri
Sandro Veronesi
Con uno scritto di Carmelo Bene “Azzerare il calcio azzerare se stessi”

Le fotografie in bianco e nero sono di Eduardo Castaldo e sono state aggiunte successivamente come spiegato qui

Leggi gli altri articoli di Roberto Saviano su Nazione Indiana.

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18 Commenti

  1. Roberto, che bellezza che sei tornato! Mentre leggevo, pensavo che avevo delle precisazioni da farti, sull’americana, la voglia di fare il portiere, sui supersantos, ma poi tu fai sti pezzi così sterpitosi che uno si sente un verme a fare il pignolo!

  2. Carissimo Robertino, come sai quello che ci unisce sono i valori sicuri anagrammatica risposta ai lavori insicuri. Straordinario come sempre, il tuo pezzo, volevo segnalarti un’operetta molto pertinente del mio amico filosofo, Jean-Claude Michéa,Les Intellectuels, le peuple et le ballon rond, pubblicato da Climats. Eccone un breve estratto e riguarda una delle più belle storie del calcio quella della squadra ucraina. Non vinsero per farsi fucilare, nè per spirito patriottico- la partita se l’erano già venduta, libertà in cambio della sconfitta. Vinsero perchè giocare era più forte di loro
    “Pour les nazis aussi, le football était une question d’Etat. En Ukraine, un monument a été élevé aux joueurs du Dynamo de Kiev en 1942. En pleine occupation allemande, ils commirent la folie de battre, dans un stade local, une sélection d’Hitler. On les avait prévenus: -si vous gagnez, vous mourrez.
    Ils entrèrent sur le terrain résigné à perdre, en tremblant de peur et de faim, mais ils ne purent résister à l’envie d’être dignes. Ils furent fusillés tous les onze avec leur maillots, au bord d’un ravin, à la fin de la partie.”

  3. ohps dimenticavo. Parlare di super santos in un’epoca da super tele, è un atto di denuncia vero e proprio.

    ps
    il supertele era il pallone che si comprava per ripiego, quando mancava un centinaio di lire, che non si lasciava giocare e correva via, col vento. Santos e Tele, ecco due veri topos della contemporaneità

  4. il supertele sta al tango come le tepasport alle superga.
    moggi ci farà vincere la coppacampioni, perché anche lui non possiede il cuore di vittorio mero (e i suoi treni arrivano tutti puntualissimi a destinazione).

  5. Ora ho letto il tuo pezzo Roberto, bravo! Mi sa che a furia di sgamare personaggi credibili ti convocano di nuovo in questura come “persona informata dei fatti” :-)

  6. GEORGIA:
    Mi pare che siamo ripartiti già da un po’, no? ;-)

    ROBERTO:
    a Maddaloni (CE) c’è una pizzeria che fa la pizza “all’americana”. Che non è nient’altro che una normalissima pizza margherita solo di un diametro doppio rispetto quello standard.

    Ah, di passaggio, il pezzo è splendido. Devo però impormi di smettere di fare i complimenti agli indiani, se no va a finire che dicono che ci facciamo i pompini a vicenda. Come lo spiego, poi, a mia moglie? ;-)

  7. si gianni è vero siete già partiti da un po’, anche grazie agli eroici resistenti che hanno mantenuto in funzione le strutture (polemicuccie a parte) però ora che c’è anche saviano partite alla grande, se poi arrivassero anche … ok, ok … non li nomino, per stasera vi faccio grazia ;-)
    georgia

  8. Una macchia di arancione in mezzo al blu

    Sulle strade della vita…
    quanno vaco a ffà ‘na gita…
    dentro il cofano di dietro ci sei tu

    Tony Tammaro

    Ieri tramite eio, ho appreso una notizia bruttissima: la BBurago e la Polistil sono fallite. Somma mi ha assalito la tristezza di bi…

  9. Ciao Roberto, mi sono messo a cercare su nazione indiana quello che hai scritto, ho letto tutto quello che c’era. Sono impressionato dalla tua bravura. I tuoi racconti sono splendidi. Ma questo secondo me è il più bello di tutti.

  10. Non ci sono altrove quei pomeriggi napoletani, sara’ la luce. Napoli periferia nord, la Napoli del Vesuvio senza il mare.
    Il capostazione va in pensione.

  11. Leggendo questo racconto, grandioso, mi sono ricordato di una partita. Avevo dodici o tredici anni, seconda metà degli anni ottanta, Napoli. Giocavamo a pallone “giù ai pullman”, uno spiazzo dietro via Piave, dove anni prima c’era una stazione di autobus.

    Ero a centrocampo, era una partita importante: giocavamo contro un altro rione, una specie di coppa dei campioni. Quelle erano partite che finivano al tramonto, perché non vedevi più le porte. Finivano con punteggi da basket, ma quel pomeriggio no.

    Il Super Santos era finito in un giardino, eravamo fermi da poco, quando entrò in campo di corsa un signore sui sessant’anni. Entrò dalla porta fatta di giubbini e zaini e dietro aveva due ragazzi “grandi” di vent’anni. Lui cadde inciampando sul marciapiede, faccia a terra, sangue. Uno dei due gli saltò addosso, con le ginocchia sulla schiena, per strappargli collana d’oro e portafogli. L’altro, in piedi lo puntava con una pistola in mano. E ci guardava.

    Noi per un attimo immobili, finimmo tutti dietro le macchine, tranne uno. Il portiere dell’altra squadra che iniziò a correre per tutto il campo verso quei tre, urlando “papa!”.

  12. bel racconto, belle anche le foto, mentre fuori è solo pioggia e francia, non sai che piacere!
    mi è venuta voglia di una partitella….pero’ non gioco pîù a porta!!
    ciao

  13. Ro’ il caposquadra che io ho conosciuto era anche capobranco ed era il piu’ bravo giocatore del vicolo.Non so cosa sia diventato prima, se quel ruolo l’abbia ottenuto con la sua bravura o la sua « cazzimma », se i suoi compagni lo rispettavano per le sue abilita’ calcistiche o per la sua famiglia. Quello di cui sono certa e’ che quell’ atteggiamento, appreso in terribili dinamiche familiare, non aveva nulla di infantile .Ho visto le sue sopracciglia inclinarsi, i suoi occhi riempirsi di rabbia e la sua fronte sporgersi in avanti e dirigersi verso di me…un giorno sono tornata a casa zoppicante. Con il tempo, pero,’ ho persino imparato i suoi tempi di reazione e ad evitare i calci volanti e gli sputi che quasi sempre seguivano quello sguardo.
    Per fortuna che attraverso quegli stessi occhi, sono riusciuta a scorgere il suo essere bambino: piangeva stupidamente, quando si accorgeva che stava perdendo o quando gli impedivo di giocare perche’ era arrivato il momento di studiare. E’ stato anche capace di improvvisi gesti di affetto : non posso dimenticare le volte in cui nel vicolo mi e’ corso incontro urlando il mio nome.
    Nelle stradine della citta’ che oggi attraverso ho rivisto le porte disegnate sui muri e quei bambini mi sono ritornati alle mente … mi mancano loro, mi manca Napoli intera!
    Perdona le troppe parole,
    « racconto » meraviglioso, come sempre!

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