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Ricordo di Thomas Kling e del suo rivale

di Helena Janeczek

kling1 Nell’anno in cui uscì il mio primo e ultimo libro di poesie, uscì anche il suo. Altri tempi: l’ancora per tutti venerabilissima Suhrkamp di Francoforte presentava nello stesso programma quattro poeti esordienti o quasi, più non so quante raccolte di autori già affermati. La cosa buffa è che sia la sottoscritta che un altro poeta mai arrivato a pubblicare la seconda volta con lo stesso editore furono presentati in vesti patinate e costose, mentre finivano nella collana tascabile “edition Suhrkamp” sia Thomas Kling che Durs Grünbein, l’enfant prodige proveniente dalla appena franata DDR. Grünbein, nativo di Dresda, era un ragazzo ventiseienne con l’aria da ragazzo, arruffato e proprio per questo carino (nel senso di: ”oh che carino!”), pronto alla risata e di una vivacità intellettuale che gli sprizzava dagli occhi scuri.
Thomas Kling era il contrario: arrivato da Düsseldorf o giù di lì, l’incarnato pallido e inquietante di certi Weisswurst, capelli biondi aderenti al cranio con la riga dritta tirata di lato come un buon soldato, occhi azzurrissimi, voce metallica, età indefinibile. Si scontrò subito col poeta ebreo viennese Robert Schindel, un equivoco sorto dall’aspetto e contegno simil-nazi che Kling ostentava come corazza e provocazione. Finlandia e Russia erano i paesi amati da Thomas Kling che sarebbe parso il più tipico dei russi senza l’idioma che espelleva abbaiando come non si usava più, quel tedesco-tedesco che ad austriaci e bavaresi fa comunque impressione.
I riti d’iniziazione editoriale avevano previsto una lettura di Durs Grünbein durante il micidiale Kritikerempfang in casa dell’editore Siegfried Unseld. Il giovin poeta venuto da Oriente assiso sotto il sontuoso Goethe di Andy Warhol, imbarazzato solo quel tanto che bastava per risultare ancor più promettente e simpatico alla schiera dei critici tedeschi occidentali tutti più o meno prossimi alla sbornia triste e logorroica, tutti almeno di mezz’età come anche le colleghe numerose in vesti decostruite dagli stilisti giapponesi e col fondotinta cadaverico, il solo consentito lì e allora a una donna dal profilo intellettuale. Crollava il muro, ma gli anni ottanta resistevano.
Io, arrivata da Milano tutta sbagliata, ovvero vestita bene come mai più nella vita sarò vestita bene, quasi testimonial de “La moda italiana all’estero” seppur firmata Upim e Rinascente, mi sento a un certo punto spinta in avanti dalla zampona del grande Editore: “Vede, noi non abbiamo solo i giovani poeti più bravi, ma anche le poetesse più belle”.
Sorridi, scema, mentre il baccucco sbronzo fa “Ach ja!”, sorridi che è giusto così: nuovo sangue per vecchi revenants, una serata così riuscita come non se ne vedevano da anni, un successone.
Il giorno dopo c’è una soirée in casa del figlio dell’Editore, le questioni dinastiche e edipiche si palesano subito nell’arredamento che è praticamente identico a quello della casa paterna, idem il modo di vestire, di impostare gesti e voce, di schiarirsela prima di presentare il proprio poeta. Thomas Kling legge da performer, declama, raschia, accentua le deformazioni verso il parlato di cui sono piene le sue poesie, sfrutta il timbro “Kraftwerk” della sua voce, è aggressivo, artistico, molto avanguardistico, sperimentale, punk o post-punk. Rispetto al poeta di papà è –wow!- molto ma molto ma molto più cool: questo sta scritto sulla faccia del erede al trono editoriale e in quelli intorno a lui che dovrebbero rappresentare la letteratura tedesca più giovane e più fica, quella che da lì a poco si butterà sull’ecstasy e sul rave, quella con cui si sballa.
Sembra tutto prefigurato in quelle messe in scena iniziali: la tragica e confusa rottura fra padre e figlio, così aderente agli schemi dall’epica alla soap che ancora oggi te la ritrovi riccicciata in romanzi a chiave. La fama e la gloria sempre superiore di Durs Grünbein che riesce a vincere il Premio Büchner a trentatre anni. Thomas Kling eterno secondo a causa del caratteraccio, dell’equivoco angry young man, della sua discendenza dall’avanguardia viennese di Ernst Jandl e Friederike Mayröcker e non dal solo Gottfried Benn, finalmente sdoganato come si deve. Nella raccolta uscita postuma, Kling polemizza col rivale e col suo tono alto che piace tanto: “Se all’amante delle cose antiche viene la mosca al naso, ma egli è privo del senso della storia? Allora avremo film in costume – film in sandali dei Grünbein-Studios.“
E’ lui, Thomas Kling, la bestia bionda ferita, il più fedele testimone dei campi di battaglia, del sangue antico mai diventato cosa antica – dalle Guerre dei Sassoni alla la Prima Guerra Mondiale fotografata da CNN Verdun– di ogni distruzione additabile ma non ricomponibile in poesia.
Fratelli nemici, fratelli in base a una comunanza che capivi subito, qualcosa che nella poesia tedesca non si vedeva da decenni: conoscevano tutto Dante, conoscevano i poeti russi, spagnoli, latini, cinesi, sapevano versi a memoria nelle lingue originali, condividevano la stessa sostanza non solo del poeta colto, ma del poeta vorace e ambizioso, del poeta che tutta-la-letteratura-e-tutto-lo-scibile-che-mi-interessa-è-roba-mia. Dopo anni di lirica riflessiva e malinconica, quotidiana, ancorata a un parlato piano, dopo tutta questa poesia coi Birkenstock in cui non c’è un verso che alzi la voce o che non si capisca.
Vodka e versi di Mandel’stam, forse la sera dopo, ruppero il ghiaccio: il suo si scioglieva nella condivisione dei poeti amati, il mio fatto di diffidenza ancestrale si adeguava. Della sua natura arcitedesca venne fuori una parte quasi Parzifal, insostenibile però e dolorosa, dunque protetta dal manto di metallo e gelo. Condivideva l’impressione che Paul Celan non fosse ancora riconosciuto come gli spettava in Germania per motivi che avevano a che fare con la coscienza sporca e complessi affini, gli stessi, secondo lui, che avevano ridotto in pantofole il mainstream della poesia. Cercai di dirlo a Robert Schindel che però era bevuto alla sua maniera piacevole da ultimo esemplare della bohéme viennese d’antan la guerre.
Non si fosse ancora capito: fra Kling e Grünbein, due figli della solita Pallida Madre, prediligo il più pallido, il più artico, quello che nella migliore tradizione crucco-romantica sembra dover morire nel fiore della vita. Ma stavolta- vedi alla voce: senso della storia non tarocco- in una ex stazione missilistica NATO diventata colonia per artisti. E di cancro ai polmoni. La storia della letteratura prima o poi riconoscerà anche a lui quel che gli spetta: concluderei così se avessi voglia di film in coturni. Invece dico: quando ho saputo della sua morte, sono rimasta di merda.

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4 Commenti

  1. “Ricevimento per i critici”: ma mi ero detta che si capiva dal contesto, mannaggia…
    Mille merci, i cupliments fon toujours piaser…

  2. si capiva in effetti, sono io che sono tonto.
    per i complimenti je tan pri, ma schéri, ghe mancheria…

  3. cara heli, questo è un gran pezzo di critica militante. anch’io mi schiero col pallido. sarà difficilissimo tradurlo, viva chi ci riuscirà. ma va tentato tutto perchè la poesia esca dalle sue patinate buone maniere.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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