Gli inquilini di Moonbloom – un caso letterario americano

 di Franz Krauspenhaar

Lo scrittore Edward Lewis Wallant (1926-1962) prometteva benissimo, nel mondo letterario americano degli anni 50: ma a 36 anni morì improvvisamente, lasciando un paio di romanzi pubblicati (cito L’uomo del banco dei pegni, ridotto per il cinema da Sidney Lumet con uno straordinario Rod Steiger ) e un altro paio usciti postumi, tra i quali si annovera questo Gli inquilini di Moonbloom, appena pubblicato in Italia da Baldini Castoldi Dalai. Si tratta, nel caso di Wallant, di una importantissima riscoperta, salutata con grande favore dal pubblico e dalla critica statunitense.

Il romanzo gira attorno alle figure di una composizione prismatica, un ritratto miniaturizzato dell’umanità metropolitana newyorkese. Gli inquilini degli stabili amministrati dal solitario protagonista Norman Moonbloom sono persone che a gradi diversi sono anche ferite, così come ferite sono le diverse ammaccature presenti in quegli appartamenti fatiscenti di una sgangherata Manhattan anni 50, alle quali il protagonista è chiamato continuamente a porre riparo; simboli, queste ammaccature, delle stesse ferite umane: i rubinetti perdono acqua, così come le anime delle persone che si servono di quei rubinetti perdono vitale energia sgocciolando inesorabilmente nel degrado. Wallant dipinge con il tocco di un miniaturista ritratti in movimento; e dentro le cornici di questi quadri quasi sempre c’è Norman, l’esattore degli affitti per conto del fratello Irwin. Gli inquilini devono pagare a lui, in un certo senso, il prezzo della loro vita; ma anche Moonbloom paga il suo pegno: egli difatti restituisce loro quanto versato in denaro con l’ascolto – a volte rassegnato e a volte più attivo, a seconda della situazione e di chi gli sta di fronte – delle loro storie personali.

Sgocciolano dunque lavandini ma anche storie probabili e ancor più spesso improbabili, drammi, rassegnazione, rabbia, la gamma al gran completo dei sentimenti. Norman Moonbloom è un uomo condannato all’ascolto angosciato degli altri quasi fosse un medico che non crede più nelle sue stesse cure; le sue sono visite d’interesse che si trasformano suo malgrado in sedute psicanalitiche coatte. Questa varia e folle umanità a tratti disperata, infatti, gli vomita addosso in varie maniere i propri problemi: come una spugna, Norman assorbe le angosce e le idiosincrasie dei suoi inquilini; tutta quell’acquerugiola nera, quei ristagni, quegli spurghi interiori gli inquilini glieli riversano addosso come aspettandosi da lui un miracolo, come se lui fosse – se esistesse- l’idraulico di Dio. Perché appare ben chiaro che, al di là del rubinetto che perde e del cesso otturato e degli intonaci andati in malora, il vero motivo di tanti discorsi è ben altro; vale a dire – per andare al nocciolo- una disperata solitudine sebbene pulsante di vita. La diversità tra le persone crea solitudini sempre più marcate: e Wallant, per darcene meglio conto, ci fa ad esempio vedere come in uno stesso stabile gli inquilini trattino le loro dimore a seconda delle loro ben distinte personalità e inclinazioni; per esemplificare sugli antipodi, dalla caverna invivibile del centenario ebreo Karloff all’asetticità ospedaliera dell’appartamento della tedesca Ilse Moeller.
Moonbloom, molto nolente e poco volente, è una specie di “collante spirituale” di solitudini metropolitane compresse in celle d’appartamento.

Outsider per destino, passivo giovanotto ebreo senza ambizioni né particolari inclinazioni, il protagonista attraversa le vite altrui come una specie di riluttante santo esattore munito di un blocchetto di ricevute di pagamento; c’è qualcosa di celestiale in lui, o è forse il suo essere così mediamente umano e così schiacciato dalla esorbitante umanità degli altri che alla fine ce lo fa apparire migliore di quello che è. La sua sofferente pazienza sembra spesso sul punto di crollare con lui, ma le sue fondamenta interiori – checché egli ne pensi- sono fatte d’umanità resistente, di nobile materia umana.

Gli inquilini di Moonbloom è al fondo una pièce teatrale trattata in forma di romanzo, quasi tutta svolta in interni d’appartamento, in questa specie di purgatorio condominiale nel quale il protagonista esattore-santo-psicologo coatto-giovane ebreo insicuro è allo stesso tempo osservatore e osservato speciale, amico e nemico di tutti. La sua responsabilità è quella di resistere a un’umanità sofferente che spesso usa le armi dell’insulto e di assoli querimoniosi solo per ottenere ascolto e proroghe; la sua grandezza è quella di chi non capisce del tutto quel che sta davvero succedendo attorno a lui ma, appunto, resiste, spugna costantemente assorbente e incapace di strizzarne del tutto l’acqua- alla fin fine né sporca né pulita- di cui le lungaggini verbali e spesso intemperanti degli altri lo hanno impregnato fino all’osso.

La densa scrittura di Wallant è stracolma di sfumature, per cui i caratteri degli inquilini e del protagonista vengono fuori esplodendo dal quadro come in certi dipinti del realismo americano; i dialoghi sono spesso abbacinanti, e per ogni personaggio l’autore inventa quasi una lingua propria. Il testo si fa forza e sostanza con una lingua simbolica e al contempo concreta che s’insinua, senza tregua per il lettore, nei pensieri, nei minimi tic, nelle intenzioni e anche nei silenzi, anch’essi narrati con grande bravura dall’autore ebreo americano che non riuscì a ottenere in vita il meritato successo.

Moonbloom “transitava dentro un guscio d’uovo, attraverso cui filtravano solo luce soffusa e pensieri ovattati”. In una breve frase Wallant ci fa vedere il protagonista nel mondo della grande città; e soprattutto il suo accoglierlo, questo caotico e incomprensibile mondo, con la passività dell’arreso. Il carattere di Moonbloom viene spiegato da Wallant anche in quest’altro modo, cioè facendoci sentire come il giovanotto si sente nei confronti di se stesso: “Lavando la padella e il piatto ebbe un’immagine di se stesso: esile, scuro, pacioso come un idiota, sigillato in un globo ermetico la cui sottigliezza gli accordava soltanto i colori tremuli dell’esterno”.

Usa più avanti un procedimento simile per spiegarci come un’inquilina – la già citata Ilse Moeller- si sente nei confronti di se stessa: “Ilse Moeller era un ingrato capolinea nel giro degli affitti della Sesta Avenue. Bella, con un sorriso acido, guardava Norman come guardava tutti; sembrava si sentisse come un brutto stampo, e vedesse in tutte le persone altrettante colate di se stessa”.

Per spiegarci con feroce nettezza la solitudine di Moonbloom all’interno del megalopolico mondo che lo circonda e lo stordisce, Wallant ad un tratto lo fa entrare in una tipica tavola calda americana: “Norman sedeva tra gli odori di grasso e il frastuono snervante senza lasciarsi illudere che lo stessero alimentando. Ma era avvezzo ai terrori di quelle tavole calde dove la gente mandava giù bocconi interi con gli occhi strabuzzati, le bocche affannatissime, come se stessero masticando se stessi”.

Il venditore ambulante Sugarman è uomo dalla facile favella imbonitrice ma ha anche la capacità di spiegare liricamente, in un suo dialogo con Norman, di quale sostanza è fatto il suo senso dell’umorismo: “ Le mie battute non sono che lamenti; l’insieme delle mie note umoristiche compone un canto funebre. Eh, non so… l’umorismo è tragico: spinge il coltello molto più a fondo della solennità. Il riso è primordiale quanto quella smorfia gassosa del neonato, un riflesso del dolore”.

Moonbloom è così solo che parla “alla sera con voce sconvolta”. E ancora Sugarman, a un tratto, gli spiega perché tutti quanti gli inquilini pensino che lui provi vero interesse per loro, fatto che Moonbloom non vuole assolutamente accettare, stanco e stufo com’è di tutta la sua claustrofobica vita d’affitto: “ Perché… perché lei ha un’aria… i suoi occhi sono morti di fame. Non si guarda mai allo specchio? C’è una specie di invito masochista, al centro dei suoi occhi da procione. Come il quadratino di confettura in Alice nel paese delle meraviglie, si porta scritto dappertutto ‘mangiami’”.

Ecco: verso la fine del romanzo Norman accetterà davvero di essere mangiato dalla vita, e finalmente troverà un senso, proprio attraverso gli altri, nell’apparente insensatezza del vivere.

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5 Commenti

  1. Ops! Ho dimenticato di specificare il cognome, altrimenti mi scambiano per una delle altre 85 Emme in circolazione su questi lidi. Comunque il commento sopra era mio. Emma Locatelli

  2. Franz, grazie davvero. Di questo libro hanno scritto alla grande anche Tommaso Pincio e Leonardo Colombati. Sicuramente metterò qualcosa on line..Walant merita!

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