Laureata? Sì, in filosofia
Storia di una venditrice porta a porta

di Serena Sostegni

Eccomi. Finalmente ero arrivata. Per trovare la palazzina al civico 170 in via Ponte di Formicola, e relativo citofono al portone marchiato scala E, mi ero fermata almeno dieci volte con stradario alla mano. Quando non bastava, abbassavo il finestrino accostandomi a qualche passante. Poi, dopo, ero costretta a spingere il riscaldamento al massimo. Era un freddo inverno, trovavo soltanto consolazione nella voce della radio. Mi pensavo in una nuova comunità, tra quelli che in macchina vi abitano, che strutturano l’abitacolo con tutti i comfort: acqua, snack, vivavoce al cellulare, radio di sottofondo. Il signor Mauro Pellegrini, quello dell’appuntamento precedente, non si era fatto trovare. Il giorno prima, al telefono, gli avevano a malincuore strappato un appuntamento. Con me, appunto. Ma poi chissà forse mi deve aver intravisto dalla finestra. E avrà cambiato idea. Ora che dimenticava la cortesia ammaliante delle telefoniste, insomma ora che aveva giusto un’ora per sé, si era fatto più duro. Mentre bussavo, una, due, tre volte, me lo sono immaginato rintanato in casa, in silenzio, attento a non fare nessun rumore. Irrigidito anche dal senso di colpa magari, ma con attenuanti espressi in continui borbottii, “Ma che scocciatori…”. Non aveva tutti i torti, in fondo. Così me ne sono andata via. Avevo tutto il tempo per arrivare con calma all’appuntamento successivo.

L’annuncio lo lessi tra le pagine de La Repubblica. Cercavano giovani automuniti, motivati, intraprendenti e amanti dell’arte. Il messaggio dell’inserzione era abbastanza vago, senza indicazioni di sorta, senza che fosse mai menzionata la parola vendita, mentre si insisteva più volte, con ripetizioni, su arte e cultura. Telefonai e il lunedì successivo mi trovavo con una ventina di persone raggruppate per provenienza – centro Italia –nella sala Riccadonna del Boscolo Hotel di Villanova di Castenaso. Nella prima settimana, i formatori, dopo averci raccontato della loro esperienza personale di crescita in azienda, ci impartirono alcune nozioni tecniche per essere in grado di esporre con chiarezza le caratteristiche nonché il pregio dell’ opera d’arte da vendere porta a porta. Prendemmo poi nota riguardo alla storia della società, ai nomi dei soci fondatori e al metodo di vendita da seguire, fissato in otto fasi, ognuna con un nome: dall’Approccio sulla soglia di casa fino alla Conclusione. Il venerdì, l’esame con il responso dei promossi alla settimana successiva, quella delle prove sul campo.

Ora stavo, appunto, sul campo. In piena azione – valigetta alla mano e in abito elegante – sulla soglia del civico 170 di via Ponte di Formicola. Immersa in un silenzio che mi inquietava un po’. Nel senso che mi venivano in mente un sacco di pensieri. Riguardo a me stessa, ovviamente. Cercavo di analizzare le mie ultime scelte, se erano, forse, propedeutiche a qualcosa di altro. Soprattutto, se di scelte si poteva parlare.

Mi tornavano alla mente i tempi del Liceo. Allora non volevo farmi mancare nessuna esperienza, perciò insistevo tanto per le vacanze-studio in Inghilterra. Già al tempo, dunque, dovevo pensare che i nostri limiti andassero abbattuti forzandoli, spingendoli avanti. E qual’era il risultato? Per tre intere settimane, anno dopo anno, andavo sì a Londra a fare la vacanza intelligente ma soffrivo la nostalgia. Rimpiangevo le mie estati al mare, così disimpegnate, sempre uguali a loro stesse. Partire, anche se con finta baldanza, significava trovare una rassicurazione: nella vita avrei fatto grandi cose. Era un primo allenamento per rendermi più malleabile. Più volte, per questo stesso principio, mi ero spinta oltre: per l’esame di maturità, quando decisi di portare le materie in cui brillavo meno; per la scelta in seguito di Filosofia, sapendo bene che non era un primo passo verso carriera sicura. E addirittura, negli ultimi anni di università, mi regali l’iscrizione ad un corso di cartonage. Io che soffro di impazienza e che non conosco la precisione !(ma qui davvero mi arresi al primo incontro, tutto incentrato sulla realizzazione di una composizione di fiori di carta). Dunque niente di strano se ora, per lo stesso gioco dell’adattamento, me ne stavo fuori ad un freddo che mi arrivava alle ossa e mi riparavo con un cappotto color cammello, lungo fino ai piedi, decisamente sobrio. Era di mia madre come la borsa in pelle. Mi acconciavo come lei. Contro la mia idiosincrasia alla vendita mi forzavo in un ruolo: quello dell’impeccabile venditore porta a porta. Ma quel camuffamento che serviva a nascondere tutta la mia insicurezza, doveva però fare emergere l’immagine di quella che, con aria professionale, sa il fatto suo. D’altronde, era solo un problema di credibilità: per prima cosa con se stessi. L’efficacia del travestimento durava fino a quando il potenziale cliente, non senza perfidia, decideva con un inganno e con finta familiarità, di svelare il trucco. Giusto al primo appuntamento, un architetto fiorentino di poche parole dopo che solo per garbo mi aveva lasciato presentare nel dettaglio l’opera completa dei Vangeli a serie limitata, formato 30 x 45 cm, sei gemme preziose, due lungo ogni braccio alto della croce in bassorilievo, rifinita in oro e impressa sulla copertina in pelle di montone, insomma, dopo tutta la mia suddetta spiegazione, mi aveva detto “Sei laureata?” ed io “Sì, in filosofia”. L’architetto aveva fatto un risatina sottile. Adesso non era più garbato. C’è chi è garbato solo per poter meglio giudicare dopo. L’architetto era di questa specie. “e perché non vai a insegnare?”. Il cappotto mi stava scivolando da sulle spalle. Mi sentivo come un super eroe senza il suo costume. L’avevo guardato timida. Ed ecco sopraggiungere un leggero rossore … E che cosa mi dovevo aspettare se non una domanda simile. Come non bastasse mi sono abbandonata alla lagna. Insomma, l’architetto non si era informato in tempo riguardo al nuovo iter per l’insegnamento (le SSIS, il numero chiuso, i trenta punti e i vari ricorsi al TAR). Glielo avevo poi spiegato. Una situazione patetica. Tra l’altro dopo la lagna mi si erano pure arrossati gli occhi. Poi l’architetto aveva aggiunto “Ho anche io una figlia. Mi sto preoccupando per lei…”. Un minuto dopo, camminavo a testa bassa verso la macchina.

Adesso eccomi qua, a via Ponte di Formicola. Un altro esame lungo il mio percorso rafforzativo di venditrice porta a porta. Ora o mai più. Era giunta l’ora. Mi preparavo a suonare di nuovo l’ennesimo campanello con in testa il solito tormentone: “Niente sorrisi di troppo, nessuna risatina che riveli insicurezza. Così apri uno spiraglio in cui fai entrare le indiscrezione degli altri, una crepa alla tua integrità”.
– Chi è?
– Sig. Carmagnoli, sono di A., abbiamo un appuntamento, a che piano? – mi avevano insegnato ad essere incalzante
– Non c’è nessun Carmagnoli
– Ma sul campanello così sta scritto
– Nessun Carmagnoli
– Ma abbiamo un appuntamento, non si ricorda? L’hanno contattata per un omaggio senza impegno
– Lo lasci pure nella posta, apro l’androne.
Era severamente vietato lasciare l’omaggio se non concluse le prime tre fasi di vendita, nonché, appunto, a seguito della presentazione dell’opera.
Misi la stampa, incartata sulla cassetta del sig. Carmagnoli e mi diressi verso la macchina.
Gli appuntamenti fissati li mandavano a casa ad ogni promoter via fax, la sera rinviavi il tabulato compilato.
Entravamo – quando ci riusciva – nelle case con un saggio dell’opera in borsa, un quaderno esplicativo di presentazione della società e con la promessa di un omaggio. Parlavamo di tutt’altro per capire con domande sempre più precise, i gusti nonché lo stile di vita e i principi della medesima sopra i quali ribattere in seguito in fase di vendita, durante la quale per invitare all’acquisto, dovevi usare la seguente formula: “vedremo se ci saranno le condizioni perché lei possa divenire degno custode dell’opera”.
Il principio guida era: Creare un bisogno laddove non è presente.
Ma in realtà la creazione del bisogno non era che una operazione catartica che nascondeva, senza alcun dubbio, una già insita volontà al possesso. Era facile. Era come dire “Eh dai, non ti reprimere sempre, levati questo sfizio che te lo meriti!”. Bastava infondere coraggio.
Io me ne stavo attenta ad ascoltare. Tutto giusto. Troppo facile ironizzare sulle parole dei formatori, sul contesto in generale così lontano da me. In fondo era comprovato il successo. In errore stavo io. Per questo ero decisa ad andare avanti.

(Pubblicato su Il Riformista il 13 agosto 2005)

Print Friendly, PDF & Email

1 commento

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Natale, ingerire per favore

di Andrea Bajani Per fortuna gli italiani hanno ricominciato a consumare. C’è stato un momento in cui si è temuta...

Tanto si doveva

di Andrea Bajani (Ripropongo qui, oggi, un racconto scritto per la campagna dell'Inail "Diritti senza rovesci". Perché non vorremmo più...

La vita come testimone oculare

di Andrea Bajani Andrea Canobbio ha scritto una confessione. Sospeso tra il racconto e il reportage, ibridato da innesti di...

Cittadini o clienti?

Note a margine della "questione romena" di Andrea Bajani Tutte le volte che uno zingaro entra in un bar o in...

I pionieri del Far East

di Andrea Bajani La prima volta che sono atterrato in Romania è stato un anno fa, aeroporto Otopeni di Bucarest,...

Il packaging dell’italiano

di Andrea Bajani C’è una tendenza tutta italiana a voler fare la fine dei puffi, non si sa se per...
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: