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Il sabato del villaggio (globale)

di Elio Paoloni

All’uscita del penultimo libro, il cupo, inquietante, morboso Ian Macabre – così McEwan era stato soprannominato – dichiarò di essersi voluto allontanare dai romanzi basati sulle idee: Espiazione nasceva dalla necessità di riportare l’amore al centro di un intreccio. E a proposito del recente Sabato (Einaudi, come l’altra dozzina di romanzi) che gli è costato due anni di sala operatoria per documentarsi sul lavoro dei neurochirurghi e lo ha portato in conflitto con i suoi amici dell’intellighenzia liberale a proposito dell’intervento in Iraq, ha detto: “Mi è sembrata interessante l’idea d’un uomo che si ritiene davvero fortunato perché la donna che ama è, curiosamente, la moglie (cosa molto rara) e arriva a preoccuparsi di essere una bestia strana”.
Ma questo libro, a parte qualche eccesso di pignoleria nelle parti scientifiche (tollerabile per i vaccinati Houellebecq), appare come una sintesi mirabile dei due atteggiamenti: il pensiero, il mondo, la scienza, la politica, sono ancora pervasivi ma il perno del romanzo è costituito dagli affetti familiari, soprattutto dall’amore coniugale. Benché sintesi non sia forse il termine giusto per la fluida mescolanza di queste pagine: “Come ha fatto in fretta a passare dall’erotismo a Saddam – dice McEwan del suo protagonista – lui appartiene al caos, a una zuppa mista di cattivi presagi e angosce”.

Ventiquattro ore abbondanti vissute a perdifiato, come nell’omonima serie tv. Questo lunghissimo sabato viene proposto da McEwan come un sabato del villaggio (“nessuna domenica contiene la stessa promessa né l’energia del giorno che la precede”) ma Henry Perowne, neurochirurgo londinese, si sentirà presto escluso dalla serenità che gli è dovuta, a partire da una funesta cometa tecnologica che attraversa il cielo prima dell’alba. E quando si troverà bloccato da un incidente automobilistico inizialmente percepito come banale, visualizza una scena: “immemore lungo una traversa ecco filare l’altra più ragionevole versione di sé, come un immateriale partente ricco che, serio e soddisfatto, si muova libero nel proprio sabato”.

Forse l’empasse percepita deriva anche da un’altra circostanza. E’ sabato anche per l’arco vitale di Perowne: dopo gli ormai prossimi cinquanta anni arriverà la sua domenica. Sarà comoda e festosa, potrà seguire le carriere dei figli, avrà intorno dei nipotini, ma senza quelle promesse e quella energia: la prima “versione di sé” si allontanerà ancora di più.

Nel villaggio ormai globale non è solo il sabato a perdere le caratteristiche d’obbligo: se in tempi remoti una forma di anosognosia consentiva agli europei di illudersi su un ordine assegnato e immutabile, ora ci si interroga su un mondo che i giovani intellettuali amano presentare come un susseguirsi di calamità: “E’ la cifra del loro stile, il loro modo di mostrarsi intelligenti. Non sarebbe chic né serio annoverare la vittoria sulla varicella come un parte della condizione moderna”. Eppure, si dice il protagonista, quando l’attuale ordine delle cose sarà spazzato via “il futuro tornerà a guardare a noi come a esseri divini”.

Non sono solo i prodigi più sofisticati della tecnica a far sentire Perowne soddisfatto della civiltà in cui si muove. Sa che anche la doccia calda è un lusso per nulla scontato: quando avranno inizio i nuovi secoli bui “i vecchi accovacciati vicino a un fuoco di torba racconteranno a nipoti increduli di un tempo in cui si stava nudi in pieno inverno, sotto getti di acqua calda e pulita, con in mano pezzi di sapone profumato e densi liquidi ambrati e vermigli da strofinarsi fra i capelli”.
E l’immagine che McEwan sceglie per simboleggiare la “moderata soddisfazione” della nostra società è una carrozzina, un passeggino a tre ruote, “pieghevole, adatto a tutti i tipi di fondo stradale” spinto da una giovane donna affilata nella sua tuta traslucida che “quasi saltella”. Un’immagine comune che non verrà di certo considerata: “per i professori universitari, per gli umanisti in genere, la disperazione si presta meglio allo studio analitico: la contentezza è un osso più duro, invece”.

Il sabato privato della visita alla madre e della cena amorosamente preparata per la famiglia riunita non riesce a smarcarsi dal sabato pubblico, quello del corteo pacifista contro la guerra che Blair sta per lanciare contro Saddam. L’affermato professionista è infastidito dalla manifestazione e non solo perché gli procura ritardi nel tragitto verso il campo della sua sacrosanta partita di squash: irritato dall’esibito buonumore di molti contestatori, “schizzinosi consumatori di shampoo e bibite gassate che pretendono di sentirsi buoni”, Perowne si rifiuta di condannare una spedizione contro uno spaventoso tiranno. Questo non lo pone certo al riparo dai dubbi: anche le ragioni degli altri trovano spazio nel campo da gioco che è diventata la sua mente, lucida e visionaria al tempo stesso a causa dell’affaticamento e della sensazione di aver ricevuto, prima dell’alba, un segno del destino, idea che il pratico neurochirurgo respinge solo a livello conscio. Teme anche lui che l’invasione possa risolversi nel caos, “in fondo le opinioni sono un lancio di dadi”. Blair potrebbe avere torto: Perowne non può dimenticare il lampo del dubbio che ha attraversato per un attimo gli occhi del Primo Ministro quando, incontrandolo in un occasione pubblica, aveva commesso un errore di persona. Blair aveva volutamente perseverato nell’errore per non ammettere la gaffe (l’episodio riporta quasi fedelmente un incontro avuto da McEwan così come è realmente avvenuto l’incontro con Walter Veltroni descritto altrove).

A Perowne, le cui idee possono in buona parte essere – a giudicare dalle interviste – attribuite all’autore, succede così di ritrovarsi a recitare il ruolo di colomba di fronte al collega – e rivale di squash. Perché all’ansia non si sfugge, per quanto positivi – e positivisti – si possa essere: “ineluttabile come la legge di gravità Perowne sente il richiamo del notiziario imminente. Fa parte dei tempi questo imperativo a sentire come vanno le cose del mondo, a unirsi alla totalità del pubblico, a una comunità fondata sull’ansia”. Tutti temono il grande evento catastrofico, terroristico o naturale ma a livello di inconscio collettivo esistono anche “un anelito oscuro, un perverso desiderio di castigo e una curiosità blasfema”. Il medico ha un moto di ribellione quando i notiziari lo inseguono da un televisore nello spogliatoio: “di quando in quando avrà pure il diritto di non essere disturbato dagli eventi mondiali e perfino da quelli stradali”. Occorre convincersi che “dimenticare, cancellare un intero universo di fenomeni pubblici per concentrarsi rappresenta una libertà fondamentale. Libertà di pensiero”.

McEwan è caustico sull’illusione di diventare soggetti attivi della storia seguendo i telegiornali o scorrendo l’ennesimo lungo editoriale. A favore o contro, tutti vengono ricondotti a una forma di consenso, a un’ortodossia dell’attenzione, a “una moderata forma di soggiogamento”. Ma non è tenero neanche con la propria ambivalenza: il protagonista dovrà presto interrogarsi sulle sue responsabilità, “spaventato dal modo in cui le conseguenze di un atto possano sfuggire al nostro controllo e generare altri eventi, ulteriori conseguenze fino a trascinarci in situazioni che mai ci saremmo sognati di scegliere: un coltello puntato alla gola”. Che si tratti del coltellaccio di un credente o del vecchio Opinel dal manico arancione di un demente. Perché oltre alla violenza delle nazioni esiste la violenza del teatro urbano, alla quale l’agiato professionista cerca inutilmente di sfuggire rintanandosi nei suoi rifugi, il lussuoso appartamento o l’ovattata intimità della Mercedes 500S argento con interni color panna: “un antico dilemma evoluzionistico: da una parte il bisogno di sonno, dall’altra il terrore di essere divorati. Alla fine risolto, grazie alla chiusura centralizzata”.

Non sarà un congegno meccanico però a sventare la minaccia più grave ma qualcosa di immateriale: Perowne, refrattario alla poesia – a suo parere una curiosa attività saltuaria, non meno di una vendemmia – rimarrà molto sorpreso quando un criminale verrà disarmato dalla lettura di alcuni versi.

La frase finale del protagonista, “questo giorno è passato”, è spostata temporalmente in avanti rispetto all’eduardiano “ha da passà ‘a nuttata” ma il senso è lo stesso: il futuro è più incerto che mai tuttavia occorre andare avanti senza lasciarsi sommergere dal terrorismo endogeno, quello dei profeti di sventura. Quale potrà essere il motivo di speranza? Il lavoro, sembra indicarci Perowne a un certo punto, “la sensazione di luminoso svuotamento, la gioia muta e immensa di un prolungato dispendio di concentrazione e talento, urgenza, problemi da risolvere”. Il benessere commerciale, ha anche sostenuto in un momento ancor più cinico e materialista: “non sarà il razionalismo a sconfiggere i fanatici religiosi, bensì l’abitudine allo shopping con tutti i suoi annessi, un certo impegno verso i piaceri possibili, la promessa di appetiti saziati in questo mondo. Consumare, non pregare”. La musica, viene suggerito altrove: solo quella e solo in rare occasioni “ci regala un assaggio di quello che potremmo essere, della parte migliore di noi stessi, e di un mondo impossibile”. Ma alla fine la vera salvezza sembra risiedere proprio nella poesia: è alla magia di un certo poeta del diciannovesimo secolo che l’uomo armato di coltello ha ceduto. “Ne è stato trafitto e si è ricordato di quanto desideri vivere”.

Una conclusione del genere sarebbe troppo illusoria, insopportabilmente retorica, buonista e consolatoria, perciò, rispettando l’oscillazione continua che è la cifra del romanzo, quel batti e ribatti ben simboleggiato dallo squash, la sconfitta finale dell’aggressore sarà pur sempre appannaggio dell’astuzia e della forza. Resta significativo tuttavia che un balordo abbia colto quello che il civilissimo mago del bisturi “non è ancora riuscito a sentire e non sentirà mai”.

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4 Commenti

  1. Angelì, tu porti lo spam a livelli di sofisticazione che manco i nas… e come diresti tu: :-/

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