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Bacheca di novembre 2005

Usa i commenti come spazio per segnalazioni e discussioni a tema libero.

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128 Commenti

  1. Rocca Bernarda, Premariacco
    sabato 12 novembre ‘05 alle ore 20.30

    Comune di Premariacco
    In collaborazione con l’Associazione Culturale
    Vilegnovella dal Judri – Culturaglobale

    invitano la S. V. alla serata “versi diversi”
    incontro con i poeti e le loro poesie: Elio Bartolini, Pierluigi Cappello, Vincenzo Della Mea, Giovanni Fierro, Maurizio Mattiuzza, Mary Barbara Tolusso

    Pierluigi Pintar e Daniela Zorzini leggono Elio Bartolini

    Alan Cechet alla chitarra

  2. Anche se fossi a Roma, oggi non mi sognerei di sfilare con i nipotini del Truce e di Almirante boia!

  3. Aiuto, Indiani! Il 99% del tempo (adesso è una delle rarissime eccezioni) l’accesso al sito mi è negato con motivazione “Error 412 precondition failed”. Potrebbe essere un fenomeno esteso a tutta la rete fastweb di cui faccio parte? Non ho altra spiegazione. Qualche idea?

    Guido Baldoni

  4. Indiane e indiani vi copio incollo un post dal blog di Alberto Giorgi. Non sono d’accordo sulla modalità “reclamo” che usa, però secondo me dovreste in qualche modo rispondergli.

    “Una domanda
    L’Iniziativa a supporto delle piccole case editrici di qualità, lanciata da queste sponde, si sta diffondendo bene. C’è un’ottima risposta tra i blog, le case editrici si stanno facendo avanti e io sto pensando a come dare ulteriore impulso alla sua diffusione e sto cercando una migliore strutturazione delle informazioni e delle attività.

    Però c’è un neo e non me ne sono accorto solo io. Come mai certi siti non se ne sono occupati?
    Mi riferisco a blog che avrebbero potuto darle grande impulso, oppure buoni consigli, oppure, perchè no, affossarla argomentando le motivazioni.
    Mi riferisco, in primis, a Nazione Indiana, Vibrisse e Lipperatura.
    Questi blog sono tra i più letti (forse i più letti) del web letterario italiano.
    Su questi blog si ama discutere fino alla nausea di problemi editoriali, scrittori emergenti, nuova e vecchia letteratura e via discorrendo.
    Eppure, su questi blog, l’Iniziativa è stata accolta con una freddezza che avrebbe messo a proprio agio un’intera colonia di pinguini.

    Lipperatura l’ha citata frettolosamente all’interno dello spazio commenti e soltanto dopo un’esplicita segnalazione di Lucio Angelini (che ringrazio per il caloroso supporto).
    Nazione Indiana ha fatto lo stesso (solo un commento all’interno di un post sul serial tv The Shield) nella persona di Gianni Biondillo e solo su mio esplicito sollecito.
    Vibrisse ha postato un comunicato piuttosto fiacco, cito testualmente: Una proposta interessante. Scusate la brevità, ma sono fuori casa. [gm] al quale, naturalmente, sono seguiti pochissimi messaggi e nessun altro post (a onor del vero con Giulio Mozzi ho avuto un’interessante scambio privato che, però, poco ha giovato alla diffusione e al supporto dell’Iniziativa).

    Perchè questa totale assenza d’interesse?
    Si ha forse paura che un’iniziativa concreta abbia successo?
    Oppure è stata considerata di origine troppo plebea per essere degna di considerazione?
    Qualcuno vuole dire qualcosa?”

  5. Francamente non capisco in che Nazione Indiana pecchi. A me sembrano rivendicazioni di categoria. Molto ma veramente molto più interessante il discorso cominciato da Jacopo su Una cartografia delle piccole e medie case edtrici in Italia (cui aggiungerei le librerie) Il terreno su cui le grandi case editrici massacrano la piccola editoria è quello della distribuzione. Per ben distribuire un libro bastano un centinaio di librerie distribuite su tutto il territorio nazionale. Distribuite significa che il libro è non negli scantinati ma visibile sui banchi. Ci si mette tutti insieme ( editori e librai) con i librai “amici” e si propone senza dover pagare alcunchè ai distributori ma un plus alle librerie, una sorta di label Nazione Indina (giusto un esempio) In altri termini si propone mese per mese uno scaffaletto “indiano” con una cinquantina di libri che non troveranno mai quell’accessibilità che meritano. Forse un libro al giorno. Non lo so. per il resto non ho nulla da replicare per quanto mi riguarda. Cioè. Come uno di Nazione Indiana non mi sento affatto parte in causa.
    effeffe
    ps
    Bisognerebbe trovare anche il coraggio di dire che la piccola editoria pubblica una marea di cazzate…

  6. Francesco, con tutto il rispetto, tu puoi cartografare quanto vuoi ma se il lettore non compra i libri questi tornano negli scantinati, label o no label.
    il punto che la mia iniziativa voleva mettere in evidenza è che prima di tutto manca l’informazione verso il lettore.
    non dico, ad esempio, che Nazione Indiana non lo faccia, anzi, ma come tutti noi (io compreso) lo fa in maniera disorganizzata. L’etichetta di cui tu parli è simile al logo che ho inventato io per il web. L’idea è quella.
    Creare una rete iniziando dal web e poi evolversi nel tempo, magari nella direzione che dici tu.
    ciao,
    Alberto

  7. Alberto a leggere meglio quello che dici posso anche seguirti. E’ solo che non mi piace il modo con cui si “monta” il caso e tutti si agitano a cercare il colpevole. la Lipperini apre il suo blog con il J’accuse, che è rivolto a lei a noi e a vibrisse, ( Io continuo ad essere dell’opinione che Lipperatura è quanto di più distante esista in Italia da NI, ma è un’idea solo mia) alcuni nostri ci invitano (come frequentatori del blog NI) a reagire. A me queste cose non piacciono e mi sembrano anche ingiuste. Basterebbe leggere i post per capirlo.
    “Ma se il lettore non compra i libri questi tornano negli scantinati” dici tu.
    L’essenziale è che i libri si leggano, dico io. Libri che siano o meno di case editrici piccole o medie o medio grandi, infinitamente immense. Quanti splendidi libri feltrinelli, mondadori, einaudi giacciono nei dimenticatoi? Muoiono tre giorni dopo essere usciti. Gli addetti stampa non fanno sempre il loro mestiere ed oggettivamente è impossibile piazzare tutti i titoli pubblicati in una libreria. I primi a massacrare i propri autori sono gli editori. Questo lo appoggiamo quell’altro no. Prendi per esempio Ornela Vorpsi, il paese dove non i muore mai, Einaudi. gran bel libro. Scritto in italino da scrittrice albanese. Tradotto in francese e pubblicato da Actes Sud due anni fa. In Italia ma spero veramente di sbagliarmi non se ne parla. Quanti direttori delle feltrinelli non capiscono un cazzo di letteratura perchè se vendono il doppio in gadgets e dischi nei megastores tout va trés bien, cioè nessuono reclamerà conti da pagare? Facciamo una cordata con Carmilla, per citarne uno dei blog vicini, almeno a me, e magari anche altri e facciamo una cosa del tipo un libro al giorno. Quanti siamo cinquanta? E non abbiamo almeno una ventina di buoni librai veramente amici a testa che sarebbero disponibili a darci uno spazio? Che ci accordino questa fiducia 1000 librerie. In grandi città o in paesini della nostra provincia.Riuscire a salvare trecento sessanta sei libri all’anno dall’oblio, in mille librerie, cazzo, io ci metterei la firma.
    effeffe

  8. Francesco, non è una questione di essere vicini o lontani, quello sta alla sensibilità e agli intenti dei singoli: ho postato il j’accuse semplicemente perchè quando si è chiamati in causa mi sembra corretto rispondere. Ognuno, appunto, a suo modo.

  9. va bene Francesco la tua idea mi piace molto.
    io sarei felice di sapere che da questa mia piccola iniziativa (sempre se è così, sempre che questa idea tu non ce l’avessi già in testa da tempo) ne è nata un’altra più forte. nel mio post sono stato un po’ forte però dopo il primo momento di “duello” sono uscite idee interessanti e ciò è bene, non credi. la discussione è sempre positiva.
    io sono molto vicino a NI e a Carmilla e se deciderete di passare all’azione potrete contare sul mio piccolo appoggio.
    ciao!

  10. L’idea, come giustamente ricordi tu Francesco, è solo tua: io mi sento vicinissimo alla Lippa. Ma anche se fosse il contrario la lontananza sarebbe, comunque, una ricchezza.

    Tutto il resto lo sottoscrivo.

    Au revoir, sono partente, ci si rilegge lunedì.

  11. Carissimo Alberto il mio discorso è frutto di esperienza su due fronti ben precisi e con due ruoli differenti. Come scriba, avendo pubblicato per piccole case editrici ma con una distribuzione capillare (Gallimard) ho potuto godere dell’amicizia di molti librai, e quella è stata vincente (tralascio i meriti del libro perchè non sta a me dirlo) Nella sola libreria di bastille, Epigramme, una vera source di letteratura di genere (polar) il mio amico Christophe ne aveva vendute alcune centinaia. Per non parlare di Fortunato alla tour de babel (librairie italienne)E fa molto piacere che un amico ti chiami da un paesino nel nord est per dirti che c’era il tuo libro su un ripiano. Come direttore di una rivista che senza alcuna falsa modestia considero tra le più importanti in Italia, son confrontato alla desolazione di un paesaggio in Italia (ma sto veramente pensando di portarla in Francia e di farla interamente in francese) dove la parola rivista fa venire l’orticaria ai distributori e ai librai. Comunque parliamone il ventisei a Milano.
    effeffe
    ps
    cara Loredana la distanza che ravvedo è tra i blog non sulle scelte editoriali letterarie che animano la tua attività di critico. Cosa io pensi della critica letteraria in Italia – ma non è importante che sia io a pensarlo, anche se siamo un discreto numero di persone a crederlo- lo posterò su NI in una serie di interventi che coll’Iglesia volevamo intitolare “A gamba tesa”. Per quanto riguarda il blog lipperatura mi basterebbe copier coller tutti i commenti fatti su quel blog a proposito di NI per dedurne la distanza di cui sopra. Loro (voi?) vi sentite distanti da NI? Io dico solo che avete ragione. Per il resto, un solo grido: Boia chi molla ( titolo d’un foglio politico dei fratelli Rosselli stampato a Parigi in Italiano, gli antifascisti fratelli Rosselli, italiani esuli in Francia. La dicevano i rivoluzionari napoletani sulle barricate della repubblica partenopea del 1799) come è scritto qui.

    http://italy.indymedia.org/news/2005/10/906962.php

  12. Caro Francesco, se mi sentissi così lontana da NI non la frequenterei: è ovvio che su molti punti esistono (per fortuna: ha ragione Biondillo) diversità di vedute, e la cosa non può che essere benefica per tutti. Comunque: aspetto gli interventi e sarò lietissima di scambiarci idee sull’argomento critica, che mi è caro quanto è caro a te. E ribadisco: non sono un critico, sono una cronista.

  13. Da frequentatore di Nazione Indiana e Lipperatura devo dire che le differenze ci sono, eccome. Lipperatura è una specie di quotidiano dell’informazione editoriale, culturale, insomma la Lipperini fa cronaca. Ovviamente avendo delle idee critiche abbastanza consolidate e assorbenti questo si ripercuote su quello che lei ritiene di far emergere o non emergere, su quello che è fuffa o polpa. Non è un male, e poi non potrebbe che essere così.
    Nazione Indiana fa qualche volta cronaca, ma non solo. Non è legata ai tempi brevi, può permettersi di riflettere sulle cose e forse questo, insieme al fatto di essere uno dei più popolosi multiblog della rete, rende i testi più ponderati e con un orizzonte culturale più grande. Questo non significa necessariamente azzeccare tutti i giudizi, è chiaro.
    Un’altra differenza importantissima è che NI modera i commenti mentre Lipperatura no. Questo per il lettore è fondamentale perché, per esempio, il fatto di sentirmi offendere gratuitamente su Lipperatura (io sarei il lacché di questo e quest’altro, e altro ancora) insieme ad altre ragioni mi ha portato a non prendervi più la parola.
    Tutto sommato a me un blog che NON ha un “dovere di cronaca” mi pare importante, e mi pare importantissimo che NI produca critica, idee, più che segnalazioni commerciali (penso per esempio a certe bellissime recensioni di Tiziano Scarpa, pezzi meditati e in grado di far girare idee). Sia chiaro, non voglio dire che NI2 questo non lo fa, anzi, dico che è – e spero che continui a essere – la sua cifra. Certo, tutto poi si può migliorare. Per esempio NI2 parla pochissimo di teatro che invece in Italia è straordinariamente vivo (Motus, Teatro delle Albe, Societas Raffaello Sanzio, Teatro della Valdoca, Teatro delle Ariette….). Così anche per il fumetto (ricordo che escono ogni anno lavori straordinari di GiPi, Igort, Marco Corona…).

  14. @ Andrea. ci sono delle cose veramnete rivoluzionarie nel fumetto ciontemporaneo, e carrebbe la pena farsi un giro da quelle parti. Ci proviamo? Cerco di sentire Munoz per vedere se si riesce a mettere su una serie di interviste tipo ,Satrapi, Mattotti, Pajak, quelli del festival d’Angouleme, non dovrebbe essere difficile.

    Per il teatro ho una sorpresa per te tra qualche minuto su NI

    @ il ventisei Novembre a Milano c’è incontro Deleuze al teatro I

  15. @FRANCESCO FORLANI

    tU scrivI: “Boia chi molla (titolo d’un foglio politico dei fratelli Rosselli stampato a Parigi in Italiano, gli antifascisti fratelli Rosselli, italiani esuli in Francia”
    Ma francesco ne sei sicuro?
    Del foglio dal titolo “Boia che molla”, voglio dire. Ho visto che in rete circola qualcosa (ma della rete non ci si può certo fidare) io non ne sono per niente convinta.
    Primo perche esiste davvero una rivista clandestina (ma stampata in italia a firenze) dal titolo Non mollare, ed è in effetti dei fratelli Rosselli insieme a Ernesto Rossi, Salvemini, Traquandi ecc. il titolo glielo aveva dato Nello Rosselli ed è del 1925. E’ un periodico molto importante e su cui recentemente è uscito anche un libro (Non mollare a cura di Mimmo Franznelli, Bollati Boringhieri, pagg 192, € 22) con una riproduzione fotografica del periodico,che si rifa ad un vecchia edizione della Nuova Italia.
    Era tutta clandestina e veniva distribuita a mano dai volontari. Del numero 5 ne furono vendute 12.000 copie perchè conteneva il Memoriale di Filippo Filippelli che chiamava in causa Mussolini per il delitto Matteotti.
    tra l’altro ora non ricordo bene (forse era stato invece Carlo Silvestri a scriverne) ma, forse c’è (in quel numero o n un altro) proprio il riferimento al fatto che Matteotti fosse stato ucciso non solo per il discorso tenuto alla camera, ma perchè dall’Inghlterra Matteotti si era portato dietro documenti che erano le prove di uno scandalo che coinvolgeva la casa reale e il fascismo in un giro di tangenti date da una ditta petrolifera americana, la Sinclair Oil (dietro cui c’era il gigante Standard Oil) con cui mussolini aveva trattato per dare i diritti esclusivi alla Standard Oil sulle ricerche petrolifere in Italia e colonie, con la promessa di tacere sul petrolio in Libia (che poi diventerà nella vulgata popolare lo scatolone di sabbia) perchè non venisse abbassato il prezzo del petrolio.
    Di tutto questo, da allora, si è riparlato solo negli ultimi anni in un libro (edito dal Mulino nel 1997)
    Quando ho accennato alla cosa nel blog di franz, criticando un pezzo di un certo riccardo nonmiricordocome, sono quasi stata aggredita come complottista e dietrologa-provocatrice (ma lasciamo perdere;-).
    Torniamo al foglo “Boia chi molla” mi potresti dare qualche indicazione oltre a quella dove dice che era dei due fratelli Rosselli esuli in francia, perchè quella non è per niente affidabile, visto che esule in Francia fu solo Carlo Rosselli, Nello rimase sempre a Firenze e se fu ucciso in Francia insieme al fratello fu solo perche i quei giorni era appunto andato a trovarlo a Bagnoles -de-l’Orne dove Carlo si trovava in seguito ad una ferita ricevuta in spagna dove combatteva come volontario.
    georgia

  16. Carissima Georgia, vedo adesso il tuo commento e confermo una per una le cose che hai detto. E’ non mollare e non boia chi molla,il giornale cui facevo riferimento e mai come ora la precisione delle parole è importante. La rete (piuttosto la velocità della rete ) induce in errore. Dunque per tornare a Loredana Lipperini e ad Alberto, mi raccomando “non mollare”
    effeffe
    ps
    Il Pisacane di Nello Rosselli è uno dei libri più belli che abbia letto sulla storia del nostro paese. Anche se un’affermazione del genere farà storcere il naso a molti storici
    un abrazio
    effeffe

  17. INCHIESTA

    a questo indirizzo il video dell’inchiesta (nuovo, non è solo l’intervista al marines già segnalato in precedenza) e altri due video.
    L’appello che lo dstribuisce, e chiede di farlo circolare lo potete leggere sul mio blog
    geo

  18. Se questo è uno dei multiblog più popolosi della rete, i blog tipo Macchianera cosa sono, manifestazioni oceaniche? :-)

  19. Andrea Barbieri dice che in Lipperatura veniva offeso (= non sempre si era d’accordo con lui), povero tesoro. Prendiamo un suo messaggio a caso:

    “Che ci puoi capire Angelini, per te le illustrazioni sono ornamenti. Cosa può suggerire alla tua testa un disegno di Anke Feuchtenberger: un suono di lamiera metallica che rimbomba tra le sinapsi vuote e buona lì.

    Scritto da: andrea barbieri | 15/09/05 a 17:13”

    Lui sì che è un arbiter elegantiarum:-)

  20. Melloni, ammetto che su Macchianera sono impreparatissimo. Giovedì c’eri anche tu a vedere Bob Dylan?

    Su Lipperatura e su Vibrisse ribattevo. Soprattutto a te, Angelini, che eri tra quelli che mi accusavano di fare il paraculo per entrare in nazione indiana, e da lì c’è stato un lungo scambio di post incazzati (quello sopra è un “vibrante” esempio). Poi mi sono stufato, tanto non serviva a niente, e allora Anke Feuchtenberger me la sono tenuta per me.

  21. Conosciamo la tua pacatezza e il tuo sense of humour, honey. Comunque va bene così. A proposito, grazie per le quotidiane visite al mio blog (ho un dispositivo segreto che me le segnala). Un bacione.

  22. Anke Feuchtenberger ha ritratto Andrea Barbieri qui:

    “http://www.cestbonkultur.com/cb/cba1a.jpg”

  23. Vorrei dire una cosa su Loredana Lipperini, che da tempo sta svolgendo un’opera a mio avviso importante all’interno del dibattito culturale in rete. Secondo me i punti di contatto tra NI e Lipperatura sono parecchi (io frequento il suo blog a volte anche come commentatore peraltro). E’ evidente che ci sono anche delle grosse differenze tra i due blog, come altri prima di me hanno sottolineato; e ci puo’ stare, da parte di certi commentatori di Lipperatura, una certa avversione verso NI. Fa parte delle regole del gioco. Ma non è che, secondo me, questa avversione e queste differenze si debbano acuire, come mi sembra di intendere nel discorso di Francesco Forlani. Semmai il contrario: e non perché si debba puntare al “tarallucci e vino” tra “dirimpettai” (cosa che personalmente aborro), ma perché, a mio modo di vedere, è sano “contaminarsi”, scambiarsi esperienze e opinioni, magari anche discutendo animatamente. Il lavoro di taglio giornalistico di Loredana, all’interno delle discussioni in rete, va nella direzione di una conoscenza, per quanto inevitabilmente selezionata, di ciò che sta succedendo ORA nel panorama letterario italiano. Sui commenti dei frequentatori, beh, ognuno ha ovviamente il diritto di dire quello che vuole; e non è che qui su NI, comunque, i commenti siano sempre il massimo della vita, diciamocelo.
    Io credo che ci si debba aprire maggiormente verso l’esterno, (e non solo in ambito letterario); questo mio pensiero/desiderio non l’ho mai nascosto, ma provo a ripeterlo anche qui.

  24. per quelli di milano e roma
    Domani lunedì 14 e martedì 15 sit-in per protestare contro l’uso afalluja del fosforo bianco.

    Lunedì 14 novembre ore 16.00
    Sit – in presso Ambasciata Usa a Roma
    via Veneto

    Martedì 15 novembre ore 18.00
    Sit – in di fronte al Consolato Usa a Milano
    via Durati – L.go Stati Uniti d’America –
    […]
    Per ulteriori adesioni: stampa@unponteper.it; castagnini@arci.it
    ——

    L’appello dei promotori per intero lo petete leggere nel mioblog

  25. Be’ sì Franz. Però, sia chiaro che se dico che Loredana fa “cronaca selezionata” non è per livore, è piuttosto per non fare i tarallucci e vino: quindi rispetto il suo lavoro (perché è sicuramente lavoro e tempo che ci mette nel blog) molto ma molto più di chi appunto non la critica mai.
    Oltretutto alcune sue segnalazioni sono ottime, per esempio “Scirocco” e alcune discussioni originate dai WuMIng come il copyleft, e non solo. Però dovrebbe cercare di rendere espliciti i suoi criteri di selezione e di critica, soprattutto a se stessa (mi pare infatti che creda un po’ troppo alla sua frase “faccio solo cronaca”). Servirebbe a migliorare il suo lavoro, perché secondo me spesso non ci azzecca. Questo è poi il succo di quello che dicevo su Lipperatura prima della contestazione di vari capi d’imputazione a mio carico tra cui l’elitarismo il complottismo e il servilismo :-)

  26. Andrea, io dicevo che Loredana fa “cronaca inevitabilmente selezionata” perchè le arrivano 2000 libri al mese, immagino. Poi, i suoi gusti sono i suoi gusti. Mai pensato che tu intendessi quel “cronaca selezionata” con livore. Ma non ho capito cosa intendi in questo tuo passaggio: “Però dovrebbe cercare di rendere espliciti i suoi criteri di selezione e di critica, soprattutto a se stessa (mi pare infatti che creda un po’ troppo alla sua frase “faccio solo cronaca”). Mi pare che nei commenti (servono anche a questo, i commenti, per allargare il discorso, no?) la Lipperini, di fronte alle sollecitazioni tue come di altri commentatori, si sia sempre prestata a spiegarsi. Dunque?
    P.s: sottolineo che da lei non sono stato recensito, dunque parlo per amore della verità. Della mia verità, sia chiaro:-)

  27. No aspetta, io non ho mai sollecitato nulla, non esageriamo. Allora cosa intendo con quella frase? Ti faccio un esempio per chiarire. Quando Ellis è venuto in Italia per presentare il suo nuovo libro e si è fatto intervistare a Torino ha parlato in modo struggente, sciogliginocchia, del modo in cui è diventato scrittore, un modo drammatico, di cui era importante parlare per aprire delle porte nella testa dei lettori (a mio parere). Su Lipperatura, sopra quell’incontro con Ellis, c’era solo il tentato lancio di una polemica che divideva il mondo tra i buoni che sanno quanto King è bravo e i cattivi parrucconi che non lo sanno. E’ evidente allora Franz che la scelta di far emergere nella propria cronaca questo particolare, invece del dato centrale che è anche alla base della scrittura del libro (a mio parere e a parere dell’autore), è il prodotto di idee critiche precise, e in particolare che qualsiasi discorso sul dramma di un uomo in quanto psicologicamente sporco sia da espellere dal discorso letterario. Per carità, è un’idea che non condivido assolutamente, specialmente nel caso di Lunar Park, ma da cui è lecito farsi guidare. Però dopo non si può dire “faccio solo cronaca”.
    Anch’io col tempo, cercando di rendermi conto delle mie idee critiche/idiosincrasie, ho cambiato gusti e ora ho davanti un panorama molto più grande (anche grazie a Loredana, a te Franz e a tanti altri), quindi penso che il discorso valga per tutti.
    Per il resto, continuo a dire che il rispetto del lavoro altrui si dimostra nell’attenzione, anche critica. Quindi casomai sono io che devo precisare che non sto facendo quello che faccio per risultare simpatico e avere favori, non tu che senza volerlo la difendi: sei sul filo del rasoio a dire quello che dici!

  28. Si, la LL non fa solo cronaca, sono perfettamente d’accordo. Il suo lavoro io l’ho chiamato “di taglio giornalistico”, comunque. No, così precisiamo tutti e due, nevero… :-)
    Per il resto anche a me certe sue scelte , o non scelte, non piacciono. Però è anche vero che magari, dico magari, alla Lippa dello struggente “come sono diventato uno scrittore” di Ellis non importasse una beata cippa. Come, per farti un esempio, non importa una beata neanche cippa a me. (Parentesi: a me Ellis come scrittore piace molto). Ma non vado oltre: non vorrei dire delle scemenze (se non le ho dette già prima); dal momento, soprattutto, che non ho letto l’articolo di cui tu parli.
    Per il resto, grazie!

  29. Ma è sicuramente così Franz. Non so, facevo un esempio, solo per dire che ci sono delle idee dietro, non è una “soggettiva”. Diciamo che nel caso particolare di Ellis, a lui interessava molto parlarne e infatti per radio se non in sala ne aveva parlato parecchio (quindi paradossalmente fare cronaca era riferire proprio quello). Comunque sì sì, ripeto è legittimo anche dire non me ne frega una cippa: infatti non tutta la letteratura buona nasce dall’esperienza personale.

  30. Ed anch’io ci pensavo questo we particolarmente denso. In fondo LL (elle) stabilisce ponti e cortocircuiti. Ma vale la pena ricordarlo? Non so. Se messo su un piano di realtà del tipo: Loredana Lipperini ha un discreto potere “mediatico” che le viene dal mestiere che esercita e dal giornale in cui lavora, e dunque potrebbe tranquillamente ignorare quel che accade al di là della frontiera, della linea di demarcazione tra i valori sicuri del giornalismo letterario, autori, temi di dibattito, primi romanzi, scoperte d’oltralpe, d’intralpe, scena milanese, romana, sarda, inedito,scrittori cantanti, cantanti politici, cinematografari, e mogli di, e figli di, e fratelli di,e cortigiano/a di… Arte, e quel complesso mondo popolato di scriba e di fiancheggiatori di scriba. Se cosi’ fosse carissimi credo non vada notato alcunchè.
    Se invece si vuole dire che LL (toujours elle) è una persona che dello smarrimento generale cerca di fare fronte comune, fosse null’altro che per capire, e beh, allora, nessun dubbio. Avete ragione voi ed anch’io mi unisco al coro. Bravò
    effeffe

  31. già le ho pensate anch’io ‘ste cose e mi sono detta: ma perchè mai andrea se la prende con la lipperini (che è bravissima e tiene in piedi un blog liberissimo e non moderato, a parte rarissime eccezioni;-) con tutti i blog schifosi che ci sono in giro da poter criticare?
    Poi non ho detto nulla, perchè capisco che di solito ce la prendiamo proprio con quelli che sono in sintonia con noi MA NON LO SONO DEL TUTTO (e tal volta quindi ci innervosiscono). Gli altri di solito ci limitiamo a non frequentarli, a non intervenire e stop. Almeno io faccio così e credo tutti voi, se sentiamo il bosogno di criticarli spesso è perchè ci dispiace non doverli frequentare ;-)
    georgia

  32. Hai ragione Georgia, perché continuare a dire cose che considero importanti e legate da un pensiero coerente per poi sentirmi come commento che “me la prendo con”. E’ un po’ che penso che se uno vuole criticare deve avere delle palle d’acciaio e deve sentirlo come sua necessità. Io non la sento come mia necessità. Quando mi dicono che sono livoroso o che me la prendo con solo perché faccio un nome, mi cascano le palle in caduta libera, e siccome non sono d’acciaio si fracassano.
    Purtroppo ho un sacco di cose da fare e da imparare e nessuno mi costringe a perdere tempo in questo modo.

  33. Il Centro di poesia contemporanea riporta la seguente notizia (Fonte ANSA e Corriere della Sera):

    E’ morta, all’età di 25 anni, la poetessa afghana Nadia Anjuman, appartenente all’ambiente letterario di Herat.
    Dopo la caduta del regime talebano era riuscita a pubblicare ‘Gul-e-dodi’ (Fiore rosso scuro), raccolta di poesie d’amore, considerato un disonore per la famiglia e i clan islamici.
    La polizia locale ha riferito che la giovane poetessa, madre di una bambina di appena sei mesi, è deceduta dopo essere stata percossa dal marito.

  34. @andrea ma io non ti ho detto questo.
    Anzi tu devi dire quello che pensi, quello che ti da fastidio, e criticare … e la madonna ci mancherebbe altro che uno non lo potesse fare;-), anzi lo DEVE fare. La mia era sol una riflessione sul fatto che spesso ce la prendiamo (ho sbagliato verbo? troviamone un altro) con le persone che hanno cose in comune con noi, gli altri non li prendiamo neppure in considerazione, se non saltuariamente.
    Sivvia perdonami;-)
    @giardienra
    già fatto.

  35. Ciao, io voglio contattare federica Fracassi che ha fatto parte di Nazione Indiana. Eravamo amiche al tempo della scuola e ho tanta voglia di salutarla. c’è qualcuno che mi sa dare un suo indirizzo mail?
    Ciao
    Cristina Galli

  36. Vorrei sottoporre a tutta la Nazione Indiana questo breve saggio perché mi sembra molto in tema con le cose di cui si sta discutendo:

    Nihilism, feminism and conceptualist narrative
    Henry Brophy
    Department of Gender Politics, University of Massachusetts
    1. Pynchon and nihilism

    “Culture is fundamentally impossible,” says Baudrillard. Debord uses the term ‘postdialectic nationalism’ to denote the role of the artist as participant.

    Thus, several dematerialisms concerning precapitalist textual theory may be discovered. Derrida promotes the use of postdialectic nationalism to read society.

    In a sense, a number of constructions concerning a mythopoetical reality exist. Lyotard uses the term ‘the subconceptual paradigm of reality’ to denote not dematerialism as such, but neodematerialism. Therefore, the primary theme of the works of Pynchon is the defining characteristic, and some would say the meaninglessness, of cultural sexual identity. Baudrillard suggests the use of subtextual construction to challenge sexist perceptions of narrativity.
    2. Narratives of genre

    If one examines Foucaultist power relations, one is faced with a choice: either reject nihilism or conclude that the purpose of the poet is deconstruction. Thus, the characteristic theme of Reicher’s[1] model of postdialectic nationalism is not narrative, but prenarrative. Derrida’s critique of nihilism states that the State is part of the failure of language, given that postdialectic nationalism is invalid.

    In the works of Pynchon, a predominant concept is the concept of neocapitalist consciousness. However, the primary theme of the works of Pynchon is the bridge between class and sexual identity. The masculine/feminine distinction depicted in Pynchon’s The Crying of Lot 49 is also evident in Gravity’s Rainbow.

    “Art is elitist,” says Sartre. Thus, Lacan uses the term ‘nihilism’ to denote the role of the participant as reader. In The Crying of Lot 49, Pynchon deconstructs Foucaultist power relations; in Mason & Dixon, although, he analyses postdialectic nationalism.

    However, several deappropriations concerning subtextual construction may be revealed. If the dialectic paradigm of consensus holds, we have to choose between subtextual construction and premodernist narrative.

    In a sense, the characteristic theme of Buxton’s[2] model of textual objectivism is the dialectic of subcapitalist sexual identity. Dietrich[3] holds that we have to choose between postdialectic nationalism and Lyotardist narrative.

    However, the absurdity, and some would say the dialectic, of subtextual construction prevalent in Pynchon’s Vineland emerges again in V, although in a more textual sense. The primary theme of the works of Pynchon is the difference between culture and sexual identity.

    It could be said that Sontag’s essay on nihilism suggests that society, somewhat ironically, has significance. Marx promotes the use of subtextual construction to analyse and read consciousness.
    3. Nihilism and subcultural discourse

    “Sexual identity is intrinsically unattainable,” says Sartre; however, according to Hubbard[4] , it is not so much sexual identity that is intrinsically unattainable, but rather the fatal flaw, and eventually the absurdity, of sexual identity. Thus, the subject is interpolated into a postdialectic nationalism that includes art as a paradox. The premise of subcultural discourse holds that the significance of the participant is significant form.

    Therefore, Lacan uses the term ‘the pretextual paradigm of reality’ to denote a self-referential reality. Sartre suggests the use of subcultural discourse to attack class divisions.

    It could be said that the subject is contextualised into a nihilism that includes reality as a whole. Postdialectic nationalism implies that narrative is created by the collective unconscious. However, Debord promotes the use of cultural posttextual theory to challenge society. The subject is interpolated into a nihilism that includes consciousness as a reality.
    1. Reicher, M. C. (1980) Discourses of Absurdity: Nihilism and postdialectic nationalism. Loompanics

    2. Buxton, D. H. Z. ed. (1997) Nihilism in the works of Lynch. Yale University Press

    3. Dietrich, V. (1983) Patriarchialist Discourses: Postdialectic nationalism and nihilism. Panic Button Books

    4. Hubbard, J. Z. V. ed. (1991) Feminism, dialectic narrative and nihilism. University of Illinois Press

  37. Ne ho trovato un altro che è ancor più in tema con quel che si discute su N.I.

    Expressionism and the subcultural paradigm of narrative
    Jane Brophy
    Department of Future Studies, University of Oregon
    1. Joyce and capitalist theory

    “Sexual identity is dead,” says Marx. Thus, the subject is contextualised into a postdeconstructivist Marxism that includes consciousness as a whole. The characteristic theme of Drucker’s[1] analysis of expressionism is the failure of textual society.

    In the works of Gibson, a predominant concept is the concept of subconstructive sexuality. But Derrida uses the term ‘the subcultural paradigm of narrative’ to denote the role of the artist as writer. McElwaine[2] implies that we have to choose between postdeconstructivist Marxism and capitalist narrative.

    The primary theme of the works of Rushdie is a mythopoetical totality. In a sense, in The Ground Beneath Her Feet, Rushdie deconstructs expressionism; in Midnight’s Children, although, he affirms Sontagist camp. The subject is interpolated into a expressionism that includes consciousness as a whole.

    “Sexuality is fundamentally a legal fiction,” says Sartre. But Debord uses the term ‘the subcultural paradigm of narrative’ to denote the bridge between sexual identity and art. The premise of postdeconstructivist Marxism states that context comes from the collective unconscious.

    However, the main theme of Prinn’s[3] essay on the subcultural paradigm of narrative is the meaninglessness, and subsequent economy, of dialectic society. The subject is contextualised into a postdeconstructivist Marxism that includes consciousness as a totality.

    But Foucault suggests the use of expressionism to read sexual identity. An abundance of theories concerning the common ground between language and class exist.

    It could be said that Sartre’s model of postdeconstructivist Marxism implies that sexual identity, perhaps surprisingly, has objective value, but only if the premise of the subcultural paradigm of narrative is invalid; otherwise, sexuality is used to marginalize the underprivileged. If postdeconstructivist Marxism holds, we have to choose between postdeconstructive capitalism and semioticist desituationism.

    But Lacan’s analysis of expressionism suggests that the State is capable of intent, given that language is equal to reality. Geoffrey[4] holds that we have to choose between the postcultural paradigm of reality and capitalist theory.

    Thus, the example of expressionism intrinsic to Rushdie’s The Ground Beneath Her Feet emerges again in Satanic Verses, although in a more subtextual sense. Any number of narratives concerning the subcultural paradigm of narrative may be found.
    2. Expressions of collapse

    The primary theme of the works of Rushdie is the role of the reader as observer. In a sense, Sartreist absurdity implies that language is responsible for outmoded perceptions of society. Lyotard promotes the use of expressionism to challenge hierarchy.

    “Consciousness is intrinsically meaningless,” says Sartre; however, according to Werther[5] , it is not so much consciousness that is intrinsically meaningless, but rather the absurdity, and hence the failure, of consciousness. Thus, if the subcultural paradigm of narrative holds, we have to choose between postdeconstructivist Marxism and deconstructive discourse. The premise of expressionism holds that narrative is a product of communication, but only if Sartre’s model of the subcultural paradigm of narrative is valid.

    The characteristic theme of Geoffrey’s[6] critique of postdeconstructivist Marxism is a mythopoetical reality. Therefore, Bataille suggests the use of expressionism to modify and read sexual identity. Porter[7] suggests that we have to choose between the subcultural paradigm of narrative and neotextual desublimation.

    “Class is elitist,” says Sartre; however, according to Prinn[8] , it is not so much class that is elitist, but rather the meaninglessness, and subsequent genre, of class. It could be said that several discourses concerning the difference between society and sexual identity exist. Lacan promotes the use of materialist precultural theory to deconstruct sexist perceptions of sexuality.

    In a sense, if expressionism holds, we have to choose between the subcultural paradigm of narrative and dialectic narrative. The primary theme of the works of Joyce is the collapse, and therefore the fatal flaw, of neomodern sexual identity.

    But Long[9] implies that we have to choose between expressionism and Baudrillardist hyperreality. Sontag suggests the use of the subcultural paradigm of narrative to attack society.

    Thus, the premise of expressionism holds that language may be used to reinforce sexism. The subject is interpolated into a postdeconstructivist Marxism that includes reality as a paradox.

    However, Derrida’s model of expressionism states that the Constitution is fundamentally dead. Foucault promotes the use of postdeconstructivist Marxism to challenge the status quo.

    Therefore, the premise of the subcultural paradigm of narrative implies that consensus is created by the masses. Baudrillard suggests the use of postdeconstructivist Marxism to modify and analyse consciousness.
    3. Stone and expressionism

    The characteristic theme of Sargeant’s[10] essay on the subcultural paradigm of narrative is not discourse as such, but prediscourse. It could be said that the subject is contextualised into a expressionism that includes culture as a totality. The primary theme of the works of Stone is the collapse, and eventually the stasis, of subcapitalist sexual identity.

    “Society is a legal fiction,” says Marx; however, according to Tilton[11] , it is not so much society that is a legal fiction, but rather the absurdity of society. Therefore, Sontag promotes the use of postdeconstructivist Marxism to attack hierarchy. If the subcultural paradigm of narrative holds, we have to choose between postdeconstructivist Marxism and postpatriarchialist deconstruction.

    However, a number of situationisms concerning expressionism may be revealed. The subject is interpolated into a material neodialectic theory that includes narrativity as a paradox.

    In a sense, Prinn[12] states that the works of Stone are empowering. The subject is contextualised into a postdeconstructivist Marxism that includes language as a totality.

    It could be said that in Natural Born Killers, Stone analyses the subcultural paradigm of narrative; in JFK, however, he denies the cultural paradigm of narrative. The subject is interpolated into a subcultural paradigm of narrative that includes sexuality as a whole.
    4. Neocapitalist socialism and dialectic postcultural theory

    The main theme of Brophy’s[13] model of the subcultural paradigm of narrative is the role of the writer as poet. In a sense, the primary theme of the works of Stone is the common ground between sexual identity and society. Any number of discourses concerning the role of the reader as writer exist.

    If one examines subcapitalist feminism, one is faced with a choice: either accept expressionism or conclude that culture is part of the failure of consciousness, given that art is interchangeable with sexuality. However, the rubicon, and subsequent fatal flaw, of the subcultural paradigm of narrative which is a central theme of Stone’s Natural Born Killers is also evident in JFK. Lacan uses the term ‘textual appropriation’ to denote not, in fact, theory, but pretheory.

    “Sexual identity is intrinsically used in the service of archaic, elitist perceptions of society,” says Foucault. Thus, the subcultural paradigm of narrative implies that the purpose of the observer is deconstruction. The subject is contextualised into a subdeconstructivist dialectic theory that includes art as a reality.

    Therefore, Sartre uses the term ‘expressionism’ to denote the difference between sexual identity and society. The subject is interpolated into a neocultural objectivism that includes narrativity as a whole.

    In a sense, Lacan uses the term ‘the subcultural paradigm of narrative’ to denote a capitalist reality. The characteristic theme of de Selby’s[14] critique of expressionism is the common ground between culture and society. Thus, if the subcultural paradigm of narrative holds, we have to choose between expressionism and the precapitalist paradigm of consensus. Several discourses concerning the subcultural paradigm of narrative may be discovered.

    In a sense, the premise of expressionism states that government is capable of significance, but only if the subcultural paradigm of narrative is invalid; if that is not the case, we can assume that narrative must come from the collective unconscious. Von Junz[15] suggests that we have to choose between expressionism and cultural submodern theory.

    It could be said that Lyotard’s analysis of the subcultural paradigm of narrative states that art is meaningless, given that narrativity is distinct from truth. The primary theme of the works of Smith is the role of the poet as participant.
    5. Realities of fatal flaw

    “Class is part of the stasis of consciousness,” says Sontag; however, according to Porter[16] , it is not so much class that is part of the stasis of consciousness, but rather the failure, and eventually the futility, of class. In a sense, the premise of expressionism holds that narrativity is used to exploit the proletariat. If dialectic postcultural theory holds, we have to choose between expressionism and textual narrative.

    In the works of Smith, a predominant concept is the distinction between destruction and creation. Thus, the main theme of la Fournier’s[17] critique of dialectic postcultural theory is the defining characteristic, and hence the rubicon, of pretextual society. Baudrillard uses the term ‘expressionism’ to denote a mythopoetical paradox.

    “Sexual identity is a legal fiction,” says Debord; however, according to de Selby[18] , it is not so much sexual identity that is a legal fiction, but rather the futility, and some would say the stasis, of sexual identity. In a sense, the characteristic theme of the works of Smith is the absurdity, and eventually the meaninglessness, of neomodernist class. The subcultural paradigm of narrative states that society has intrinsic meaning.

    The main theme of Bailey’s[19] model of dialectic postcultural theory is the bridge between sexual identity and society. But the primary theme of the works of Tarantino is the role of the writer as poet. Sartre uses the term ‘the subcultural paradigm of narrative’ to denote the collapse, and thus the defining characteristic, of textual sexual identity.

    If one examines dialectic postcultural theory, one is faced with a choice: either reject postcultural narrative or conclude that the goal of the reader is significant form. In a sense, in Four Rooms, Tarantino reiterates the subcultural paradigm of narrative; in Jackie Brown, although, he examines the capitalist paradigm of consensus. Pickett[20] implies that we have to choose between expressionism and postcapitalist capitalism.

    Thus, the characteristic theme of Long’s[21] essay on dialectic postcultural theory is not theory, but pretheory. Lyotard suggests the use of expressionism to challenge sexual identity.

    Therefore, the feminine/masculine distinction prevalent in Tarantino’s Four Rooms emerges again in Jackie Brown, although in a more neotextual sense. Bataille promotes the use of dialectic postcultural theory to attack hierarchy.

    However, the subject is contextualised into a dialectic subtextual theory that includes art as a whole. Sartre uses the term ‘dialectic postcultural theory’ to denote the role of the artist as participant.

    Therefore, a number of situationisms concerning the failure of dialectic class exist. The subject is interpolated into a Baudrillardist simulacra that includes truth as a totality.

    Thus, if the subcultural paradigm of narrative holds, the works of Tarantino are modernistic. Lyotard uses the term ‘expressionism’ to denote the difference between sexual identity and class.

    In a sense, the subject is contextualised into a postcultural deappropriation that includes narrativity as a paradox. Foucault suggests the use of the subcultural paradigm of narrative to read and analyse sexual identity.
    1. Drucker, H. C. ed. (1997) The Paradigm of Truth: Expressionism in the works of Gibson. O’Reilly & Associates

    2. McElwaine, L. (1984) The subcultural paradigm of narrative in the works of Rushdie. Panic Button Books

    3. Prinn, A. M. N. ed. (1970) The Circular Fruit: The subcultural paradigm of narrative and expressionism. Schlangekraft

    4. Geoffrey, V. T. (1992) Expressionism and the subcultural paradigm of narrative. Cambridge University Press

    5. Werther, Y. G. F. ed. (1971) Deconstructing Lacan: The subcultural paradigm of narrative in the works of Madonna. Harvard University Press

    6. Geoffrey, O. (1994) Expressionism, objectivism and Sontagist camp. Schlangekraft

    7. Porter, B. Q. Z. ed. (1975) Reassessing Socialist realism: Expressionism in the works of Gaiman. Oxford University Press

    8. Prinn, P. E. (1980) The subcultural paradigm of narrative in the works of Joyce. Cambridge University Press

    9. Long, C. ed. (1993) Forgetting Debord: Expressionism in the works of Stone. O’Reilly & Associates

    10. Sargeant, D. G. (1978) The subcultural paradigm of narrative and expressionism. And/Or Press

    11. Tilton, L. ed. (1997) Deconstructing Social realism: Expressionism and the subcultural paradigm of narrative. Harvard University Press

    12. Prinn, M. H. (1971) The subcultural paradigm of narrative and expressionism. Schlangekraft

    13. Brophy, D. O. G. ed. (1988) Dialectic Theories: Expressionism in the works of Spelling. Yale University Press

    14. de Selby, O. E. (1977) Objectivism, expressionism and posttextual dialectic theory. University of Michigan Press

    15. von Junz, K. ed. (1993) The Futility of Reality: Expressionism in the works of Smith. Loompanics

    16. Porter, I. Z. (1970) Expressionism and the subcultural paradigm of narrative. Oxford University Press

    17. la Fournier, M. ed. (1992) The Expression of Rubicon: Expressionism, neoconceptual dialectic theory and objectivism. University of Georgia Press

    18. de Selby, Z. Q. (1978) The subcultural paradigm of narrative and expressionism. Harvard University Press

    19. Bailey, M. C. J. ed. (1994) The Economy of Context: The subcultural paradigm of narrative in the works of Tarantino. Loompanics

    20. Pickett, O. (1985) Expressionism and the subcultural paradigm of narrative. And/Or Press

    21. Long, A. C. ed. (1996) The Genre of Consciousness: The subcultural paradigm of narrative and expressionism. Oxford University Press

  38. Melloni, letto e preso appunti, interessante: mi permetto di aggiungere questo, sempre in tema:

    Reinventing Socialist realism: Constructivism in the works of Rushdie
    Paul D. Parry

    Department of Future Studies, University of Massachusetts

    1. Expressions of dialectic

    The primary theme of Long’s[1] essay on the predialectic paradigm of reality is the collapse, and some would say the stasis, of textual society. Therefore, if constructivism holds, the works of Rushdie are not postmodern. Marxist socialism states that the Constitution is part of the failure of narrativity, but only if sexuality is interchangeable with language; if that is not the case, we can assume that the raison d’etre of the artist is deconstruction.

    In a sense, Sartre promotes the use of cultural feminism to analyse class. The subject is contextualised into a constructivism that includes reality as a paradox.

    But the premise of the postcultural paradigm of discourse implies that expression is a product of the masses. The subject is interpolated into a capitalist discourse that includes language as a totality.

    2. Neocultural capitalist theory and the subconstructive paradigm of narrative

    If one examines constructivism, one is faced with a choice: either reject cultural feminism or conclude that culture is fundamentally unattainable. In a sense, constructivism suggests that society, ironically, has significance, given that the premise of semioticist theory is valid. Tilton[2] implies that we have to choose between cultural feminism and Lacanist obscurity.

    However, an abundance of sublimations concerning precapitalist discourse may be discovered. The subject is contextualised into a cultural feminism that includes reality as a reality.

    Therefore, Sartre’s critique of the cultural paradigm of reality holds that context is created by the collective unconscious. The subject is interpolated into a cultural feminism that includes sexuality as a totality. In a sense, several theories concerning the bridge between sexual identity and society exist. The subject is contextualised into a subconstructive paradigm of narrative that includes culture as a reality.

    3. Consensuses of rubicon

    The main theme of the works of Smith is the economy, and eventually the fatal flaw, of neocapitalist class. Thus, an abundance of deappropriations concerning cultural socialism may be revealed. The subconstructive paradigm of narrative implies that the law is capable of truth.

    In the works of Smith, a predominant concept is the distinction between feminine and masculine. It could be said that Lyotard suggests the use of constructivism to attack hierarchy. The characteristic theme of la Fournier’s[3] model of the subconstructive paradigm of narrative is not discourse, but postdiscourse.

    The main theme of the works of Smith is a self-sufficient totality. In a sense, the premise of cultural feminism suggests that the significance of the writer is social comment. If constructivism holds, we have to choose between cultural feminism and pretextual capitalist theory.

    However, the characteristic theme of Drucker’s[4] essay on postpatriarchialist narrative is the futility of capitalist sexual identity. The subject is interpolated into a constructivism that includes language as a whole.

    Therefore, Debord promotes the use of cultural feminism to challenge and analyse society. In Mallrats, Smith deconstructs the subconstructive paradigm of narrative; in Chasing Amy he examines constructivism.

    In a sense, many theories concerning a subtextual paradox exist. Capitalist construction states that context is a product of the masses, but only if culture is equal to art; otherwise, Sartre’s model of the subconstructive paradigm of narrative is one of “preconstructive objectivism”, and thus responsible for the status quo.

    Therefore, Debord suggests the use of constructivism to attack hierarchy. The primary theme of the works of Smith is the role of the participant as artist.

    4. Capitalist subcultural theory and dialectic nihilism

    “Sexuality is part of the failure of consciousness,” says Lyotard; however, according to Tilton[5] , it is not so much sexuality that is part of the failure of consciousness, but rather the dialectic, and eventually the paradigm, of sexuality. In a sense, Hubbard[6] holds that the works of Smith are empowering. Marx uses the term ‘constructivism’ to denote the futility, and therefore the failure, of cultural class.

    If one examines Foucaultist power relations, one is faced with a choice: either accept constructivism or conclude that language is capable of deconstruction. Therefore, if the posttextual paradigm of discourse holds, we have to choose between constructivism and Lyotardist narrative. The subject is contextualised into a cultural feminism that includes truth as a totality.

    “Sexual identity is dead,” says Debord. But the main theme of von Junz’s[7] model of dialectic nihilism is the role of the writer as poet. Derrida uses the term ‘cultural feminism’ to denote not narrative, as dialectic nihilism suggests, but subnarrative.

    Therefore, the within/without distinction depicted in Smith’s Clerks emerges again in Dogma, although in a more self-supporting sense. A number of desublimations concerning capitalist socialism may be found.

    In a sense, Lyotard uses the term ‘constructivism’ to denote the difference between narrativity and society. Sartre promotes the use of the precultural paradigm of context to challenge sexual identity.

    Therefore, Long[8] states that we have to choose between constructivism and dialectic narrative. An abundance of demodernisms concerning the role of the observer as participant exist.

    But Sontag uses the term ‘cultural feminism’ to denote not, in fact, discourse, but neodiscourse. If the posttextual paradigm of narrative holds, the works of Fellini are not postmodern.

    1. Long, A. D. Q. (1985) Cultural feminism and constructivism. Yale University Press

    2. Tilton, I. E. ed. (1979) The Fatal flaw of Discourse: Constructivism in the works of Smith. University of Oregon Press

    3. la Fournier, O. E. D. (1980) Constructivism and cultural feminism. Oxford University Press

    4. Drucker, P. H. ed. (1991) Reading Lyotard: Constructivism in the works of Burroughs. Loompanics

    5. Tilton, D. A. F. (1977) Cultural feminism and constructivism. University of Michigan Press

    6. Hubbard, D. O. ed. (1994) Expressions of Defining characteristic: The neotextual paradigm of narrative, constructivism and nationalism. And/Or Press

    7. von Junz, W. (1980) Constructivism in the works of Mapplethorpe. University of Oregon Press

    8. Long, A. M. C. ed. (1993) Deconstructing Derrida: Cultural feminism in the works of Fellini. Yale University Press

  39. ciao cri…sono federica che bello!!!!
    jan mi ha cortesemente girato il tuo “chi l’ha vista”
    la mia mail è quella che appare info@teatroi.org, quindi scrivimi lì e ci scambiamo tutti i nuovi recapiti e ci vediamo.
    domenica 20 novembre alle ore 21 faccio una lettura al teatro dell’elfo in via ciro menotti a milano. Se vuoi venire l’ingresso è gratuito…un bacio grosso grosso fede

  40. Nadia Anjuman
    non ricordo se qui vi avevo segnalato l’uccisione della giovanissma poetessa afgana Nadia Anjuman (ne ho parlato qui e qui

    Sono riuscita (tramite quel meraviglioso e miracoloso mezzo che è la rete) a contattare una blogger persiana, vento d’oriente, e a segnalarle le due poesie in farsi presenti in rete.
    La blogger oggi ha tradotto una delle due poesie che a me sembra veramente molto bella.
    Potete leggerla nel mio blog (ultimo post) e naturalmente nel blog di vento d’oriente (linkato)
    georgia

  41. Avviso ai naviganti di Lipperatura

    Oggi su Lipperatura c’è un articolo in “bianco e nero” sui viedogiochi. Uso le virgolette perché il senso è un po’ particolare, infatti intendo che l’articolo allude ad un mondo divisibile in due fazioni: Quelli che capiscono che il videogioco è grande narrazione e Quelli (ottusi, parrucconi, tradizionalisti) che non lo capiscono. Il bianco e il nero, appunto. L’articolo si fa forza su tre punti: 1. a esprimere il concetto (a dir la verità abbastanza estorto) è uno scrittore di valore e di successo, Ammaniti; 2. Ammaniti è un giocatore di videogiochi; 3 la produzione letteraria attuale in qualche caso fa riferimento ai videogiochi (seguono i nomi tra cui l’immancabile Alessandra C, ma sono rigorosamente esclusi i Canti del Caos II, forse perchè arrivano prima di tutti gli altri).
    Ora, io non sono un giornalista culturale (non vorrei nemmeno esserlo), la mia sola forza è ritenere la cultura qualcosa di fondamentale per la vita, e qualcosa di problematico: il metodo di presentare in maniera scintillante supposte verità lo detesto perché è il contrario di quello in cui credo.
    Cosa occorre per smontare la supposta scintillante verità dell’articolo della Lipperini? Basta fare quello che lei non fa (e dovrebbe fare): sentire più voci.
    Per esempio cosa dice GiPi, uno dei più grandi narratori italiani a fumetti, sull’argomento videogioco:

    “A proposito di giochi, e perchè tu non ti faccia un’idea sbagliata del mio approccio all’argomento, devi sapere che ho inziato a drogarmi (io il mio giocare al pc lo chiamo così) all’apparire dei primi sinclair zx spectrum. Da allora, passando per c64, olivetti prodest, amiga 500 e 1000 e finendo nella temibile famiglia degli 8086 , non ho mai (purtroppo) smesso.

    Nel 1997 ho fondato un team per lo sviluppo di un gioco di combattimento in 3d (fantasy, si signori) con il quale ho lavorato per tre anni e mezzo, come game designer, 2d artist e 3d artist in seconda.
    Prima dell’arrivo dei pc ero un appassionato di giuochi di ruolo e simulazione. Ne ho giocati moltissimi e ne ho inventati alcuni.

    Bastano queste credenziali per poter criticare la commistione con i giochi senza il rischio di esser tacciato di “snobismo antigiochista”, o devo mettere il nome del mio pg Undead Warrior in World of warcraft?
    […]
    Parlo del mio raccontare a fumetti.
    Il mio raccontare a fumetti non subisce alcun stimolo positivo dall’accostamento con il mondo dei giochi.”

    Conclusioni
    L’articolo di Loredana ci propone un nesso videogiochi-narrazione semplificato e banalizzato. Una visione veloce da quotidiano ad alta tiratura. Una bella confezione di parole per arrivare dritta al cuore del lettore. L’orrore per qualsiasi approfondimento e critica.
    La cosa si riflette anche su Ammaniti che forse ha idee un po’ più interessanti di quelle estorte, e naturalmente sul lettore.

  42. Sul rapporto videogiochi-narrazione approfondire significa capire le scelte assolutamente individuali degli autori. Capire significa non mettergli in bocca le parole e aggiungerne altre dopo. Francamente non so se il tema videogiochi è così interessante.
    Di certo sarebbe interessante che Igort parlasse della sua ultima pubblicazione. E Gipi. E Corona.

  43. Melloni, capperi, devi aver saltato le prime righe su Lipperatura:
    “Mi diverte una cosa: pensare a tutti quelli che andranno a leggersi l’intervista a Niccolò Ammaniti sperando in un atto d’accusa contro i videogiochi [..]”

    Quello che nel mio post sopra cerco di far capire è che è perfettamente legittimo e intelligente non trovare nulla di narrativamente importante nei videogiochi.
    Poi se uno ci trova qualcosa di interessante tanto meglio per lui, del resto tra coloro che si rifanno ai videogiochi faccio l’esempio di uno scrittore che stimo, Moresco.

  44. @Andrea

    Vediamo un pò. Sin City, che lo si sia amato o meno è un film che mette in gioco strutture (composizione) del racconto in sè estremamente pertinenti. A metà tra fumetto e vdeo game. Interessante narrativamente. Così come la BD (i fumetti) quando innovano il linguaggio (Andrea Pazienza), si scontrano con la realtà politica storica che i fumettari incontrano (vds la geniale opera argentina dell’Eternauta) e mille altri esempi (Breccia, Hugo Pratt, Satrapi, Mattotti ecc). Dunque i video games in generale sono una categoria vuota (sarai d’accordo con me sul fatto che in molta “letteratura” non si trovi nulla di narrativamente importante). Io non ne cito alcuno di video games perchè non ci gioco. Solo durante l’ultimo viaggio in treno ho chiesto al mio vicino se potevo guardarmi la partita di calcio che stava giocando con la sua play station e mi sono divertito. Io quell’articolo non l’ho capito, sinceramente e pur essendo un lettore di Ammaniti, non ci ho trovato nulla di letterario. Un tentativo di individuare una struttura di composizione collettiva (alla wu-ming per intenderci) più evidente? Un desiderio di superamento dell’aura autoriale? Un prendere sul serio la nuova convivialità delle ultime generazioni? (Un amico che lavora per la marina mi diceva che il quadrato, sorta di circolo a bordo non esisteva più e che si era investito quanto risparmiato in cabine attrezzate per play station). O forse una dichiarzione di fragilità da parte di uno scrittore, che invece di farsi di cocaina si fa di videogames. O la fragilità di scrittori che chattano parlando di letteratura davanti a uno schermo piuttosto che davanti a un bicchiere. Non credo però che la Lipperini gliel’abbia estorta, la dichiarazione, nè che Ammaniti lo abbia fatto nei nostri confronti (nel senso di estorcerci). Insomma niente di nuovo dal fronte occidentale.
    effeffe

  45. Ma caro Andrea, io non ho estorto assolutamente nulla: Niccolò ha parlato liberamente e la trascrizione dell’intervista è assolutamente fedele (so che non mi crederai, ma pazienza) e, ovviamente a mio umilissimo e vergognosamente parziale giudizio, rispettosa delle sue scelte e delle sue idee narrative (che le si vogliano vedere o no: basta leggere Ammaniti e avere un minimo di dimestichezza con la console). Quanto alla scintillante verità e al sentire più voci: ti ricordo che quello non era un articolo-inchiesta sui videogiochi, ma un’intervista ad Ammaniti, sul tema dei medesimi. Lievemente diverso.
    Che poi la mia colpa reale stia nel non aver citato Moresco, credo che la cosa si commenti da sola (non l’ho citato consapevolmente, ebbene sì: proprio perchè, da sciocchina superficiale – ma da videogiocatrice- ritengo che i Canti con i videogiochi non abbiano nulla, ma proprio nulla a che vedere. Orrore, catastrofe, sciagura!)
    ps. Ma poi, scusate: tu ed effeeffe dite che nel videogiocare non c’è nulla di narrativo, in soldoni. Ma effeeffe ammette di non giocare. Io, da sciocchina superficiale, sono con Umberto Eco: mai parlare di juke box senza averci infilato almeno una volta il gettone. :-)

  46. Loredana, cerca di capirmi attraverso un minimo di concentrazione. Dovevo mettere “estorta” tra virgolette, non l’ho fatto perché pensavo fossimo tra adulti e la cosa risultasse chiara. Evidentemente non hai puntato la canna di una beretta bifilare sulla nuca di Ammaniti, ci mancherebbe; semplicemente hai fatto poche domande a vanvera e ne hai tolto un succo che secondo me non corrisponde in pieno a quello che Ammaniti pensa, cioè io da Ammaniti mi aspetto qualcosina in più (non nel senso che i videogiochi non sono importanti per lui, beninteso), ma ripeto: le domande non lo hanno certo aiutato. Fossero state fatte a me, me ne sarei andato senza rispondere: Ammaniti è più gentile.
    Precisato il significato di “estorcere”, ribadisco quello che ho detto sopra, cioè che i videogiochi possono essere legittimamente e intelligentemente considerati inutili in un processo creativo, come GiPi ti spiega. E’ vero anche il contrario, possono essere per qualche autore importanti. Per Alessandra C sono fondamentali, Moresco li usa nei Canti in un modo più blando eppure più potente, li usa come “immagini”, ma qui il discorso diventa troppo difficile e non mi seguiresti…
    Inoltre non ho detto che nei videogiochi non c’è nulla di narrativo, anzi, penso il contrario: usano strutture narrative. Non sono, a mio avviso, “storie”, ma io ho un’idea della “storia” come qualcosa che mi racconta la realtà (nei suoi vari livelli, nel suo pieno), quindi se fossi un fumettista non mi rivolgerei al videogioco, mi rivolgerei alla realtà, anche a quella dei miei fantasmi interiori.
    Credo comunque di essere riuscito a correggere la superficialità aprendo con poco un panorama molto più grande e problematico.

    Un’altra cosa, tu ritieni la rete importantissima, rivoluzionaria. Bene, io ancora attendo la parte di rivoluzione che riguarda te. Ossia quando ti salterà in testa che è inutile portare le scemenze che vengono scritte ogni ogni giorno sulle pagine culturali, in rete, con le stesse modalità da scriccata d’occhio, patinatura, velocità e, inevitabilmente, superficialità. La rete è spazio: usalo invece di scrivere recensioni di tre righe e interviste snorkelling. La rete è relazione: mettiti in relazione invece di farti un’idea caricaturale del tuo interlocutore. La rete è volontariato: fatti un sito tuo invece di stare tra le braccia di Repubblica. Prenditi del tempo per parlare di qualcosa, non è necessario essere sulla notizia specialmente se non si ha nulla da dire.
    E poi perché mai se i germogli stanno tanto lontano dal castello inerpicato biondilliano, perché dico continui a frequentare quel mondo e ad ammanirci le cronacherelle di quello che succede nel castello: falle per la terminale Repubblica e fai qualcosa d’altro nel luogo della rivoluzione: la rete.
    Ma giova che dica queste cose?

    ps loredana i gettoni li metto dove voglio io, perché per me il tempo non è infinito. In questo periodo il gettone lo metto in corso sul cinema, per esempio riesco a vedermi dei corti di Tim Burton che al cinema sono passati a fatica.

  47. @ Barbieri: io sono d’accordo con Melloni, dimmi cosa mi è sfuggito, per favore, perché non leggo NULLA di ciò che sostieni, e attendo l’intervento di qualcuno che la pensi come te. Intanto, per non fare un torno a nessuno concludo così:

    Moresco, Moresco, Moresco, Morescooooooooo

    A proposito, ma qui è lecito offendere, insultare, insinuare, et cetera? L’ho già chiesto una volta, mi servirebbe saperlo, grazie

  48. @Loredana, della serie, Failure in a conversation day

    Quando dico i “video games” sono una categoria vuota, non sto affatto dicendo che non accada nulla da quelle parti. Sto semplicemente dicendo che i generi in sè non ci dicono nulla sulla loro pertinenza letteraria. E’ la ragione per cui sulla rete (anche su NI) ho a volte l’impressione che si faccia Gossip un pò autoreferenziale, un pò così, e giù coi commenti. E su questo Andrea Barbieri ha ragione, e diamine se non ha ragione. Avere in Italia un supplemento letterario non dico fenomenale ma almeno a livello europeo, perchè non è possibile? Sul modello della quinzane litteraire in Francia, quella di Nadeau.
    Ammaniti è uno scrittore che leggo sempre con grande interesse e da quello che gli ho sentito dire o rispondere, in interviste o altro, lo considero come una persona della mia tribù . Come Erri de Luca, per fare un nome, o Camilleri, Giuseppe Montesano. La non pertinenza dell’articolo è nel fatto che la pubblicità del nome, la notorietà cella persona che si chiama Caio o Sempronio ha il sopravvento su quanto viene poi affernato.
    Mi dispiace per il resto deluderti ma il gettone l’ho messo e anche mille altre cose nelle salette videogiochi che sono cucite alla mia generazione (sono nato nel sessantasette e gli anni ottanta malgrado tutto erano ancora all’insegna della convivialità) come l’eskimo a quella precedente. Però credo che le play station siano un’altra cosa, da questo punto di vista. Il primo video game era se non ricordo male Evasion. Bisognava rompere un muro mattone per mattone. Una metafora? Di allora o di quello che stiamo vivendo?

    @ Andrea. La fabbricazione di un video game credo comporti problematiche di composizione molto interessanti. Innanzitutto sui mezzi a disposizione (drammaturgia totale, musica, gesto, disegno, segno, dialoghi, descrittivo ecc)poi sulla creazione collettiva (la fabbrica di video games credo si fondi su un lavoro di squadra) ed infine sull’impatto della realtà . Negli anni ottanta, quando la guerra fredda si giocava tutta sui posizionamenti dei missili, molto gettonati erano i video games con testate nucleari e ci fu anche il film “War game” che tradusse cinematograficamente quelle paure ( il dottor Stranamore devo dire è più vicino alla mia sensibilità). Insomma, torno a ripeterlo, la cosa è interessante (in politica sicuramente no) la maniera di trattarla può anche non esserlo.
    effeffe

  49. “Credo comunque di essere riuscito a correggere la superficialità aprendo con poco un panorama molto più grande e problematico”.

    “Ossia quando ti salterà in testa che è inutile portare le scemenze che vengono scritte ogni ogni giorno sulle pagine culturali, in rete, con le stesse modalità da scriccata d’occhio, patinatura, velocità e, inevitabilmente, superficialità”.

    Beh. Non ha molto senso continuare a discutere con qualcuno che non intende affatto interloquire ma solo, e a più riprese in questa sede, darti dell’imbecille.
    Io la chiudo qui, e definitivamente per quello che mi riguarda. Statemi bene.

  50. Vedi Ivan, per risponderti dovrei riconoscerti come interlocutore ma dato che tra le altre cose hai scritto di me:
    “Questa non è una “battaglia dialettica”, dalla quale usciresti malconcio, però se vuoi provaci, non so cosa fare, un po’ di gente si divertirà, e francamente non mi interessa nulla se il sollazzo sarai tu nelle vesti di pagliaccio.”
    io non penso che valga la pena scambiare con te nemmeno una parola.

  51. Loredana, io credo di aver toccato dei punti importanti anche del tuo lavoro in rete. Ovviamente senza molto galateo (del resto l’essere diretti è proprio una delle rivoluzioni che il web ha portato), ma questo non toglie che nel mio discorso c’è parecchia sostanza. Spero che tu continui a pensarci su e che magari le mie critiche diano qualche frutto. Continuo a pensare che c’è molto più rispetto nel criticare anche severamente il lavoro altrui piuttosto che somministrare pacche sulle spalle.
    Stammi bene anche tu.

  52. Francesco, va bene così. Evidentemente Loredana si è offesa, ma anche a me capita che certe cose mi offendono e poi scopro che sono cose importanti. Mi capita con le persone ma anche con i libri.

    Ne approfitto per precisare che la frase di Ivan che ho citato è presa da una brevissima discussione sul forum di Fernandel a proposito dello Sbrego. Brevissima perché l’ho troncata subito.

  53. Puem para Lipperin

    L’est que l’est dura et limite d’encuentro
    tratar de pages assuttigliate et blanches
    pire si les sont maciate d’encre et scuentro
    et s’il s’agit de relever les manches

    ma ahora aqui su la naziun indiana
    a l’alba d’esto iorne in frido de mattanza
    de l’un contro l’altro amati in esta stanza
    ritorna per ragiunar com kesta banda

    et puis voudrais que tu barbieri et io
    se puede transmutar l’ira in disio (oblio)

  54. “Vedi Ivan, per risponderti dovrei riconoscerti come interlocutore ma dato che tra le altre cose hai scritto di me:
    “Questa non è una “battaglia dialettica”, dalla quale usciresti malconcio, però se vuoi provaci, non so cosa fare, un po’ di gente si divertirà, e francamente non mi interessa nulla se il sollazzo sarai tu nelle vesti di pagliaccio.”
    io non penso che valga la pena scambiare con te nemmeno una parola”

    Confermo quanto sopra, Barbieri. Semplice questione di cultura, che ti manca, e di presunzione, che non ti manca affatto: e infine di arroganza: e chiudo qui anch’io, perché il peso del tuo pensiero è il peso del vuoto pneumatico in una testa ben disposta nei confronti di Antonio Moresco e dell’aria fritta.
    Ti consiglio di non tirare in ballo vecchie questioni. La vera cazziata te la sei presa in privato, lo sai benissimo.

    Ciao, continua pure a rivolgerti ai muri, è quello che meriti, suppongo.

  55. io ho trovato l’articolo della lipperini interessantissimo, a me Ammaniti piace e quindi mi ha molto interessato il suo punto di vista (e “narrazione” del suo coinvolgimento diretto) con i video giochi, ed è chiaro che, dunque, io abbia apprezzato l’articolo di loredana lipperini.
    Però poi ho trovato anche molto interessanti le osservazioni fatte da andrea (anzi gliele ho invidiate, le vorrei aver fatte io) … insomma la discussione sembrava diventare molto interessante, veramente MOLTO interessante, ma quello che frega questi dialoghi in rete è la fragilità dei navigatori, qualcuno si offende sempre troppo presto e sdegnosamente ti saluta con superiorità, beh questo è veramente borghese, non certo il parlare (o scrivere) di video giochi o il non farlo). Questa iperpermalosità che pervade la rete e che strozza sul nascere qualsiasi discussione che non sia in punta di coltello, è secondo me negativa.
    Uno, è chiaro che deve evitare le offese fini a se stesse (sia di offendere che di essere offeso), ma poi bisogna anche saper distinguere un provocatore da uno che ha cose da dire, ad esempio andrea stavolta aveva portato la discussione su un livello alto (anche se non proprio del tutto rispettosa)
    Ho capito che in rete nessuno accetta mai di essere messo in discussione, ti saluta sempre prima ;-).
    Credevo fosse un vizio solo degli indiani, ma vedo che anche loredana non scherza;-).
    Accade così anche nella vita reale, ma li la selezione è gia a monte, e chi se ne va sbattendo la porta (sono casi isolati) di solito diventa prima rosso di rabbia gli tremano le mani, dimentica la borsetta o gli occhiali (ed è poi costretto a tornare) e difficilmente poi ricuce la situazione.
    Qui invece basta fare click sul mouse e se ne esce alla grande.
    E poi si fa finta di nulla, pronti per la prossima uscita plateale;-)
    Ragazzi questo nuovo mezzo è grande perchè permette di interloquire in tempo quasi diretto … e impedisce che i nostri corpi vengano coinvolti con i loro rossori, sudori e rabbie, umane troppo umane, beh, ma allora, perchè non cercare di essere meno permalosi e meno sulla difensiva e riuscire a portare avanti alcune discussioni che a me sembrano addirittura più interessanti degli articoli che le hanno originano?
    georgia

  56. Io credo – questo sarebbe il mio desio – che si dovrebbe cominciare a rivedere un po’ il modo di stare in rete, renderlo meno pionieristico e meno legato ai difetti dei media tradizionali appunto perché se la rete è rivoluzione dentro ci si deve stare in modo rivoluzionario.
    E poi credo che se si desidera essere meno provinciali (secondo me il carattere borghese è la meno) occorre lavorare su critica e apertura insieme. Però è chiaro che questo è un lavoro faticoso e non c’è nulla da dare per scontato, nessuna verità scintillante è a portata di mano.
    Fatte queste cose sono sicuro che lettori e autori vi saranno eternamente grati, anzi, vi porteranno in trionfo.

  57. Andrea, aborro l’idea di essere portata in trionfo. Credimi, sinceramente: non ho verità scintillanti da proporre e non intendo proporle a nessuno. Poi: sono perfettamente d’accordo con te sul fatto che bisogna lavorare parecchio per trovare il giusto modo di stare in rete. Da entrambe le parti, però.

  58. Andrea, il tuo tono era saccente e antipatico, c’è poco da fare. Non ha neppure importanza se quello che dici sia condivisibile o meno. Lo sai che sto combattendo una battaglia (persa) affinché si possa parlare senza necessariamente insultarsi con questo mezzo.

    Poi: credo anch’io che il “videogame” in sé sia una categoria vuota. E’ poi come la si utilizza che fa la differenza. Ma reputo sia interessante quanto questo mondo si sia sempre più spostato verso il narrativo, il finzionale. Le reciproche influenze sono inevitabili. Pensa al fumetto col cinema: Non ostate la diversità ontologica dei due mezzi espressivi (uno statico, l’altro dinamico) è proprio il connettore narrativo che li ha reciprocamente influenzati e modificati.

    Non ho pregiudizi sul genere per presa di posizione ideologica. Non mi stupirebbe se fra 100 anni i videogame saranno considerati arte. Non me ne frega niente. Ogni età dichiara arte ciò che vuole che lo sia.

    Quello che dice GiPi è legittimo quanto quello che è stato detto da Ammaniti. Non si può comunque negare che già da anni il cinema hollywoodiano allo sbando si sta affidando alle logiche grezze di un certo mondo virtuale quando, in realtà, lo stesso mondo virtuale sta sperimentando – forse veramente per la prima volta così come neppure la narrativa c’era riuscita – universi paralleli.

    Sono ottimista. ma è un mio difetto, perdonatelo.

  59. Fuoco amico (non facciamo)
    effeffe
    ps
    Leggendo e commentando in Bak ho avuto a un certo punto la sensazione che riaffiorassero antichi livori e non è bene. Non si tratta di politically correct o di buonismi ma di perdita di tempo e di energie (che con tutto quello che dobbiamo fare…). Ecco perchè ho postato un pezzo che Roberto Bui mi aveva mandato per Sud il cui tema era appunto, Fuoco Amico. Volevo addirittura dedicarvi (miciti) il gesto poi mi sono detto che è bene che le cose parlino da sè, soprattutto se si tratta di testi precisi. L’immagine di Munoz , amico e autore che adoro, non è un caso. la storia del fumetto in Italia è una lunghissima storia (e anche disperata) di amici. Non so se vi ricordate il disegno che Andrea Pazienza aveva fatto della sua banda di Cannibali/Frigidaire sotto una quercia . Insomma cose così per intenderci.
    effeffe

  60. Tranquillo, Gianni, questione chiusa, non discuto all’infinito. Ho tutto il diritto di esprimere un parere anche sgradevole nel momento in cui osservo che qualcun altro insiste con tono sgradevole e nessuno interviene a farlo notare (finché non sei intervenuto tu: nessuno di NI, intendo dire): semplice “adattamento di tono” e, nel mio caso, totale rifiuto di proseguire. E’ vero che comunicare è bello: finché è possibile…

  61. Gianni, il mio tono è saccente e antipatico dici tu, ma non dici nulla sul contenuto.
    Sono così stupide le cose che ho scritto, soprattutto quelle sullo stare in rete esattamente come si starebbe su un quotidiano?
    Vedi Gianni, io cerco di toccare certi argomenti che a me sembrano fondamentali, solo che quando vai a toccarli qualcuno si incazza ed è difficile non essere saccenti e antipatici nel ribattere a queste persone. Se non mi credi provaci anche tu, prendi un testo e rivogiti chiaro e tondo all’autore e spiegagli perché secondo te è superficiale, proprio come fai con me quando mi dici che ho un tono saccente e antipatico. Prova a dire a Loredana Lipperini: non mi pare che Andrea come tu scrivi abbia “granitiche verità” dato che non fa che ripetere che desidererebbe che le cose fossero presentate in modo problematico e approfondito.

  62. Andrea, io credo di averti risposto infinite volte su questo punto. Ci riprovo: ho la sensazione che tu nutra nei miei confronti, da quando sei arrivato per la prima volta su Lipperatura, un certo pregiudizio. Forse sbaglio, e se così fosse chiedo venia. In questo senso parlo di granitiche verità.
    Quanto al mio modo di stare in rete. E’ sicuramente perfettibile, Andrea, ma è quello che mi sento congeniale: non mi pare, sinceramente, di postare sempre recensioni di tre righe o interviste da grande quotidiano (Ammaniti non l’ho neppure postato, l’ho linkato). Mi sembra, per citare un solo caso recente, che interventi come quello di Girolamo De Michele su Pasolini e Calvino siano tutt’altro che scintillanti superficialità. Certo, l’ho ospitato e non l’ho scritto io: ma io mi sento e agisco davvero come una cronista. E in questo senso apro il blog agli interventi altrui.
    Spiegami, poi, in cosa consiste il modo rivoluzionario di stare in rete: non sono affatto ironica. Fammelo capire. Perchè, e qui non offenderti tu, a volte ho la sensazione che a dividerci non siano i modi, ma le persone. Ovvero, io sono superficiale perchè parlo di Ammaniti e non GiPi, perchè recensisco, che so, Avoledo piuttosto che il pur validissimo narratore a fumetti. Eccetera.
    Se non è così, ti chiedo scusa.

  63. ANDREA, certe volte ho la sensazione che esistano due Barbieri.
    Quello allegro, spiritoso, ficcante, che parla con entusiasmo di arte, fumetti, libri, quello con cui chiacchiero “on line” in privato. Poi c’è quello incazzoso, lancia in resta, difensore della patria, non meno ficcante, ma di certo più antipatico, quello che appare più spesso in pubblico. Mi chiedo: ha a che fare col mezzo? Col blog in sé?

  64. Esistono due barbieri, anzi tre: il primo solleva il pelo, il secondo lo spacca in quattro, il terzo spacca qualcos’altro :-)

  65. è vero molti di noi appaiono antipatici e supponenti in rete, lo sappiamo tutti che in parte è colpa del mezzo però ci si potrebbe passare di più sopra, visto che sappiamo benissimo che accade, invece a me danno noia le offese, ad esempio voi che riprendete spesso siete sicuri che dire a uno “Confermo quanto sopra, Barbieri. Semplice questione di cultura, che ti manca” non sia più offensivo delle cose dette da barbieri?
    Se uno (che non ha i requisiti per giudicare) mi da di ignorante lo trovo sommamente offensivo se uno spacca il capello in quattro posso anche sorvolare e magari non leggerlo.

  66. @ Lipperini
    Girolamo De Michele è un intellettuale di valore e i suoi interventi sono molto belli. Loredana, magari tu non leggi tutto quello che posto in rete ma ti riconoscevo di aver portato una discussione importante come il copy left – che tra l’altro all’inizio non avevo nemmeno afferrato – oppure aver dato voce appunto a Girolamo De Michele e aver fatto conoscere Scirocco insieme a Genna. Quando dico che la letteratura italiana oggi è in salute straordinaria penso anche a lui, a quelli come lui, che non so se siano artigiani artisti ispirati facciano genere o non genere e nemmeno mi interessa, so solo che producono belle cose. Spero di vederlo anche su Nazione Indiana, insieme ai WuMing proprio perché è fondamentale aprire ad autori che fanno una letteratura e hanno stimoli culturali diversi mi pare dai redattori di NI.
    L’articolo in cui linki l’intervista a Ammaniti lo leggo come dicevo sopra, è brevissimo e va da tutte le parti: difficile cavarci un senso. Non sono nemmeno sicuro che Ammaniti abbia questo amore limpido per i videogiochi, in fondo mi pare che non lo facciano scrivere, ma va be’. Il punto secondo me non è questo. Il casino del pezzo sta in quel pregiudizio di combattere il mondo dei parrucconi, quelli che non si aprono al nuovo, in questo caso i videogiochi. Non è che la realtà è formata di quelli che la pensano come te sui videogiochi mentre gli altri sono parrucconi, perché è questa l’immagine che quel pezzo dà, soprattutto quando lo riprendi su Lipperatura. Un po’ di parruccosità oltretutto ce la portiamo allegramente dentro tutti quanti, anche i più aperti.

    Sul fatto che io desidero che tu parli di Gipi invece di Pincopallo direi che non è così per un po’ di buoni motivi: 1. La realtà del fumetto autoriale va avanti bene ugualmente, le fumetterie non sono le librerie, le vendite si fanno col passaparola che a sua volta si fonda su un livello qualitativo altissimo. Quindi il problema è casomai dei giornali che nel 2005 non recensiscono i graphic novel come dei romanzi. Pace. Come dice WuMing 1: tanto meglio se i critici non si occupano di te.
    2. Il livello qualitativo altissimo richiederebbe una intelligenza straordinaria e una cultura a cavallo almeno tra arte e letteratura. Non è un caso che le più belle recensioni di graphic novel in Italia le abbia scritte Voltolini. Chi oggi è in grado di fare questo?, penso pochissimi, l’Italia è l’Italietta, non è l’America o la Francia, quindi tanto vale tacere ché il mercato va avanti lo stesso. Tra l’altro, come tu saprai, i nostri nomi più grandi da un pezzo vivono in Francia: siamo tanto provinciali da farci scappare tutto, eh.
    3. di Gipi si parla eccome, non su Repubblica magari che lo usa solo come illustratore, ma da altre parti, e ti dirò che l’ambiente dei disegnatori per qualità e civiltà è un gradino sopra al popolo dei lit-blog. Quindi chi vuole Gipi deve soltanto digitare l’url giusto, o comprare le riviste in cui si parla o si trovano i suoi lavori.

    Solo una volta ti ho segnalato una notizia ma era soltanto perché pensavo ti potesse interessare, non certo per uno scopo promozionale infatti si trattava di un volume in vendita soltanto in Olanda (un’antologia di autori italiani nata ad Amsterdam). Ne hai anche parlato sul tuo blog, anche se per dire la verità ho avuto l’impressione che fosse una gentilezza nei miei confronti.

    Qual è il modo rivoluzionario di stare in rete? Possiamo pensarci tutti assieme, sicuramente da WuMing possono arrivare delle dritte importanti, ma tutti hanno saprebbero dire qualcosa, io stesso sopra non penso di aver scritto delle baggianate.

    @ Gianni, io sono esattamente come tu mi conosci in chat, se a volte ti sembro diverso è perché penso di avere un problema davanti, un muro o muretto, quindi prendo la rincorsa per saltarlo o buttarlo giù. Perché questo lato del carattere dovrebbe essere in contrasto con l’altro, sono un po’ sognatore, che c’è di male?
    Ne approfitto per ribadire che non ce l’ho con nessuno, tantomeno con Loredana, e che se avete bisogno di qualcosa sono qui.

  67. Andrea, ok. Solo una cosa: la mia idea di “parruccosità”, come tu la definisci non è rivolta verso quelli che non amano i videogiochi. Ma verso quelli che li identificano con il male assoluto. E’ un po’ diverso. Qualche mese fa, sullo stesso quotidiano, Mario Pirani aveva parlato di GTA come di uno dei segni della decadenza e caduta eccetera.
    Solo una precisazione sulla brevità dell’intervista (e pure, ti assicuro, è uno degli spazi più ampi concessi dal quotidiano): come forse avrai letto in apertura, non era destinata alla carta. E’ la trascrizione di un’intervista destinata alla televisione, e andata in onda su Rai Doc. Più avanti, magari, ne metto on line l’integrale.
    E, a proposito, non ho postato la notizia dell’antologia per farti un piacere: non pensarmi così condiscendente :-)

  68. Cozzo interessante quello avvenuto qui sopra, quasi paradigmatico. Astraendone, e quindi eliminando i riferimenti personali (tutti quanti noi indossiamo, magari in momenti diversi, i ruoli che andrò a delineare) mi sembra abbastanza ovvio come – sotto l’egida di una ricerca “disinteressata” di verità, bellezza, senso, “gusto pieno della vita” eccetera (finzione costitutiva che fa comodo a tutti in quanto la sua caduta significherebbe caos e fine delle trasmissioni) – la posizione dell’insider, cioè colui che detiene un capitale sociale e simbolico più rilevante o legittimato, si estenda dal “beh, vediamo un po’, questo imbecille potrebbe anche fornirmi qualche buona idea, o il destro per qualche risposta ad effetto” all’ “ehilà, questo imbecille sta tentando di scalzare la mia posizione, adieu!”, mentre è altrettanto ovvio che l’outsider cerchi di trarre forza da competenze speciali maturate in nicchie culturali meno legittimate, e cerchi per lo più di fare l’enfant terrible, ovvero di “scuotere” la struttura che lo vede in posizione subordinata, nella speranza che il riassemblamento della stessa gli risulti più favorevole. Ma non si tratta di machiavellismo, in quanto tali movimenti si determinano secondo me in modalità prevalentemente inconsce, e spesso è solo riesaminando criticamente le tracce che abbiamo lasciato che ci possiamo rendere conto della “logica” che ci muoveva, sostanzialmente a nostra insaputa.

  69. Wovo, se metti sul tavolo tutti gli indizi forse è proprio così: l’outsider voleva scrollare la struttura per legittimarsi però non agli occhi degli altri, ma agli occhi di se stesso, insomma una spinta interiore un po’ bacata, un donchisciottismo autistico. Poi la struttura, essendo elastica, ritorna al punto di partenza incamusendo anche le migliori critiche :-)

  70. uhm, sulla finzione costitutiva non saprei, davvero pensi che tutto si risolva in frescacce consolatorie?
    Io conosco gente che ci rimette tempo e soldi per quelle frescacce…

  71. Caro Andrea, io penso che si possono oggettivare le pratiche senza doverle denigrare, non penso affatto che si tratti di frescacce. Dobbiamo cercare di evitare, a mio modo di vedere, un out-out rovinoso tra una “purezza” assoluta che non viene riconosciuta neppure ad una Madre Teresa di Calcutta ed un “viscido opportunismo”: è la struttura del campo, di un gioco cioè che ci precede (anche i nuovi giochi su Internet ereditano da pratiche ben più antiche) a vincolare ed incanalare i nostri comportamenti. Per venire al tuo esempio: io sono convintissimo che il tuo sforzo conoscitivo sia conforme alla tua descrizione, però per raggiungere i tuoi obiettivi sei comunque forzato a delle pratiche sostanzialmente identiche a quelle che “dovrebbe” attuare anche un agente animato dalla mera ambizione ad “emergere”: ovvero, cercare di spostare l’interesse del gruppo sugli argomenti (o gli stili di argomentazione ecc.) che più ti stanno a cuore – cosa questa indistinguibile esternamente dal cercare di far guadagnare autorità alla “posizione” da te rappresentata nel gioco complessivo. Così, perseguendo un tuo fine puramente conoscitivo, potresti benissimo, alla fine del percorso, ritrovarti in mano un capitale (sociale e simbolico) spendibile e convertibile in molti altri modi. E’ un po’ come con gli scienziati: è assai dubbio che come persone siano migliori (più oneste o disinteressate) della media, ma è un fatto che, almeno in determinati ambiti, la “disonestà” intellettuale venga punita con un discredito definitivo, e quindi, seppure a malincuore, essi si guarderanno bene dal farsi cogliere in castagna o dal non ammettere i meriti di un concorrente, quando questi siano evidenti a tutti i loro pari. Ma è una proprietà del campo, non delle persone.

  72. Cari indiani,
    questa NI.2 mi sembra diventata un vecchio bar dove si può ancora fumare, frequentata da passanti e da vecchi avventori ubriaconi e persino con uno Stammtisch. Mi ricorda qualcosa di antico.

  73. D’accordo con Temperanza, come di consueto e sempre nel nome e cognome di Ladislao Mittner e Ludovico Wittgenstein. Il commento di Angelini mi pare c’entri séga col resto, ma la sua ricaduta sul resto della discussione mi pare minima (l’ho infatti ricordato solo e soltanto nella misura in cui coinvolge una delle mie identità virtuali: ma su questo, G. Ravasi, Ritorno alle virtù, Milano, 2005)

  74. Vabe’, vi linko un mio mito: Massimo Bonati e il suo vecchio weblog, l’altrettanto mitico Stanza101
    http://www.stanza101.com/
    Quando penso alla “mediazione” penso a Bonati, al suo weblog amatoriale che ha vinto pure dei premi ufficiali. Quindi per me non ha nemmeno senso il pensiero di “scalzare” qualcuno che ha un “patrimonio simbolico” ecc ecc, scalzarlo dal lavoro di mediazione, questo perché nella maggioranza dei casi semplicemente non ritengo che venga fatto alcun lavoro di mediazione. La mediazione è portare qualcosa a qualcuno dopo averla ruminata approfonditamente. La “cronaca filtrata” non è mediazione perché non rumina nulla: è una vetrina che a volte pubblicizza cose valide e a volte no, è piuttosto parente dell’arte del vetrinista. Un vetrinista sa presentare le cose, crea una coreografia di sogni quando è geniale, ma non mette in grado il compratore-lettore di capire se il prodotto-libro è importante per lui – sottolineo il “per lui” – oppure e no. Il libro non è un prodotto come un altro, contiene idee, e dunque non sopporta il cortocircuito vetrina-lettore. Il circuito corretto ha tre fasi autore-mediazione-lettore. Della mediazione ho bisogno anche se sono un lettore ormai abbastanza scafato, la mediazione è indispensabile quando le uscite in libreria sono milioni. Quando ho cominciato a leggere fumetti ho cercato un mediatore che mi orientasse. Non ho cercato sui giornali dove i pochi, pochissimi, articoli sono incompetenti e disinformati. Per tutto quello che riguarda un certo tipo di fumetto autoriale nel senso della sceneggiatura (penso a Ennis, Moore, Miller, Gaiman, Millar, Bendis ecc.) mi sono fatto instradare da un esperto come Gianuca Morozzi. Per la parte di fumetto autoriale (Hanawa, Montellier, Harkman, Seth, Gipi ecc.) ho cercato di stare vicino al gruppo che gravita intorno alla rivista Hamelin e a siti come quello di Bonati. Lì si ruminava eccome, lì un consiglio vale, lì il circuito è montato correttamente e a me lettore-compratore non saltano i fusibili perché torno a casa con un libro da 15 euri che scopro fare schifo (a me).
    Torniamo ai vetrinisti. D’Orrico si è occupato del romanzo ripubblicato da Sironi, quello dei “Dieci”, ma lo fa senza dire nulla, soltanto lo colloca bene dietro un faretto nella sua bella vetrina. Se invece si legge l’introduzione scritta da Mozzi, si ha una reale mediazione-ruminazione. Con Mozzi il circuito è montato correttamente e questo significa che capisco se per me il libro può essere importante e quindi vale l’acquisto.
    Un po’ di tempo fa, stordito dalle recensioni trionfalistiche di Genna e dal trionfalismo con cui era presentato l’autore su siti e giornali, comprai 1980 di Peace. Sapevo di avere davanti giudizi non ruminati ma mi fidai: il risultato è che mi sono trovato un libro che a me non interessa, noioso e illeggibile. Sottolineo quel “per me”: la mediazione corretta permette di capire se “per me” il libro è interessante. Magari 1980 ad altri è piaciuto molto, ma a me no e con una recensione vera, non un lancio pubblicitario, me ne sarei accorto in tempo.
    Mi scuso naturalmente per aver usato l’immagine di una mucca che mastica nel raffigurare i mediatori veri :-)

  75. Anch’io, però, quando ti misi in vetrina nel mio blog per la prima volta con la ruminatissima foto del bambino primo Novecento (poi ripresa anche dai VMO) feci lodevole opera di mediazione, non trovi?

  76. @Andrea: non vedo una grande consequenzialità fra lo stato precedente della discussione e questo tuo passo. Posso soltanto dedurne che “vabé” era la risposta a quanto avevo espresso in precedenza, ed il resto un “tirrem innanz”. Ma assumendo che tu stessi parlando ancora con me, voglio soltanto precisare che non ho mai inteso che tu lavorassi per scalzare la Lipperini dal suo lavoro di “mediazione” (questa mi sembrerebbe una pretesa assurda: se ritieni di essere in grado di instaurare nientemeno che un corretto rapporto tra opera e fruitore, non hai che da “scomunicarla” e metterti in concorrenza diretta con lei) – il mio “scalzare” lo intendevo riferito alle posizioni “nel merito” concretamente rappresentate all’interno del suo spazio, che tu accetti di frequentare. In una tale ottica, cercare – con i mezzi consentiti – di orientarne l’evoluzione verso le proprie preferenze ed urgenze non mi sembra soltanto lecito, ma pressoché l’unico modo di concepire una partecipazione non passiva. Poi ogni spazio darà quel che può dare ed ognuno sarà libero trarre le proprie conclusioni. Non vedo quindi dove stia il problema.

  77. Salve, mi chiamo Riccardo.
    Quest’anno mi diplomo alla scuola d’arte drammatica Paolo Grassi in regia teatrale. Nel mese di marzo avrò la possibilità di lavorare su un monologo e ho scelto un testo di Tiziano Scarpa. Ho navigato un po’ in cerca del suo indirizzo e-mail per mettermi in contatto con lui. Potete aiutarmi?
    Ringrazio anticipatamente.

  78. No, Temp, non in maniera così diretta come temi (se ben senza ragione che non sia la presunta mia pischellaggine, che sono invece vècchio, ma vècchio – e tu lo sai). Però ti si nominò e con la consueta gente di un certo livello.

  79. @ Riccardo, se mi scrivi a titonco@hotmail.com poi inoltro la tua mail a Scarpa.

    @ Wovo, no no, nessun problema e nessuna scomunica! Il discorso partiva da Stanza 101, e serviva a far capire cos’è, anzi cos’era quel sito. E da lì capire che ci sono due binari per procedere a portare al pubblico ‘sti benedetti libri.
    Primo binario: quello che trovi spesso sulle pagine culturali e in alcuni siti, cioè creare la miglior vetrina possibile. Evidentemente se sei un giornalista non puoi fare diversamente perché ogni giorno ti arrivano tonnellate di libri. Scegli un po’ quello che secondo te è buono o meno peggio, cerchi di far contento quelli che ti hanno scassato all’inverosimile, ma tutto senza poter affrontare un percorso meditato, anzi: ruminato :-)
    Il secondo binario è per esempio quello di Stanza 101, e ora Spaziobianco: cose completamente diverse: lì c’è informazione completa e meditata. Spessissimo passo su Spaziobianco per sapere le novità e per capire se vale la pena comprarle. Non so perché questo accade, forse perché le uscite dei fumetti sono più limitate. Sicuramente una condizione necessaria è lavorare per passione e non per lo stipendio. Comunque non ti saprei dire tutte le condizioni affinché nascano fenomeni simili.

    Questi due binari non si escludono a vicenda, o meglio sì che si escludono, però non a priori. E’ come il fast food e lo slow food. Non possiamo immaginare che tutto sia vino buono e che la coca cola sia cancellata. A qualcuno la coca piace, a me per esempio, e non vorrei che i produttori di coca cola fossero scomunicati o altro (be’ non per il loro prodotto almeno).
    Però è bene rendersi conto che questa differenza esiste.

  80. Sul blog di ellelle era stata ripresa la discussione che si è svolta qui in bacheca. Loredana l’ha integrata con uno scritto interessante sui maestri. Segue un testo secondo me illuminante di un giovanissimo storico dell’arte che ho conosciuto a Parigi e che collabora a Sud.
    effeffe

    SUI ‘MAESTRI’ NELLA STORIA DELL’ARTE
    Riccardo Venturi

    1. ‘Maestro della Madonna del latte’, ‘Maestro delle Carte da gioco’, ‘Maestro del Bambino vispo’: cosa vogliono dirci queste locuzioni la cui ricorrenza ne attutisce appena la stravaganza? Questo: che alla mano di un artista sconosciuto viene attribuita un’opera specifica e non firmata. L’individuo scompare, dissolto in un tema rappresentato con cui viene unanimemente identificato e riconosciuto. Se da una parte abbiamo a che fare con nomi tramandatici senza che nessuna opera sia sopravvissuta, qui al contrario non resta che un’opera, spia di un paradigma indiziario attorno al quale lo storico raduna pazientemente, quasi coagula, un corpus di somiglianze stilistiche. Un catalogo incerto, lacunoso e in continua metamorfosi, la cui scansione cronologica è puntellata da punti interrogativi.
    Consultando The dictionary of Art, mi accorgo che le voci consacrate ai maestri riempiono ben duecento pagine. Una presenza certo minoritaria, comunità quasi invisibile composta per lo più da figure di mezzo, di transizione, fedeli più al gusto che al genio. Ma al contempo si tratta di una compagine non trascurabile, perché queste diciture – che sopperiscono alla mancanza della firma – sono il sintomo di una dimensione fantasmatica della storia dell’arte, di un’afasia del suo discorso, di un fondo anonimo che resiste all’attribuzione e all’iscrizione storica. I Maestri mettono a nudo la difficoltà critica di arrendersi ad una storia dell’arte senza nomi. Ogni lacuna, ogni mancanza di dati viene prontamente arginata con un nome fittizio e convenzionale, provvisorio e d’emergenza. Un battesimo che dà la paternità ad opere altrimenti orfane, e in queste adozioni va riconosciuta la pietas della storia dell’arte.
    In altri termini, a quella che chiamiamo storia dell’arte (e che vorremmo scrivere sempre tra virgolette, per ricordare che è sottoposta a un’incessante opera di decostruzione) sembra connaturata una coazione a nominare – ecco cosa nasconde la logica dei Maestri. Sono personalità la cui originalità – ovvero lo stile dai caratteri inconfondibili su cui il connaisseur fonda la pratica dell’attribuzione – sembra soffocare sotto la ramificazione delle paternità ben documentate. Per questo è facile confondere i Maestri con i loro supposti capiscuola, con un anello della loro ascendenza (il ‘Maestro dell’Osservanza’ con Sassetta, ad esempio). Come se il Maestro, per un paradosso spesso sottaciuto, restasse ab aeterno pedante discepolo, ligio e osservante discente, timorato e fido seguace, senza autonomia rispetto alla scuola di appartenenza. Come se il Maestro – icona del soccombente – provasse ad appropriarsi di un attributo, di un’abilità che non gli sono propri. Di questi Maestri infatti non si può che parlare riferendosi ad artisti noti, la cui influenza li perseguita come un’ombra. Del Maestro di Santa Cecilia, exemplum gratia, si ricorda in buona sostanza che: di Giotto gli manca il senso di profondità ma, allo stesso tempo, di Giotto mitiga la monumentalità delle figure.

    2. Non ci troviamo dunque davanti ad una storia dell’arte agli antipodi del culto dell’autore, in cui i Maestri segnano – o meglio incarnano – il limite se non l’impossibilità del capolavoro? È pericoloso affrettare una risposta se si considera la relazione semantica che lega i due sintagmi ‘Maestro’ e ‘capolavoro’. Quello che sfugge all’italiano e al francese (maître / chef-d’oeuvre), diventa inequivocabile in inglese come in tedesco, dove i due termini sono quasi ricalcati uno sull’altro: master / masterwork, Meister / Meisterwerk. Un rapporto che ci conduce a un caso marginale finora non contemplato: quello in cui, a restare sconosciuto, non sia più un epigono che propina stilemi consolidati e la cui produzione si confonde col fondo indeterminato delle immagini, quanto un vero e proprio maestro (di una tecnica o di una tendenza figurativa e così via: sono i cosidetti protoi euretai), capace di inaugurare una discendenza anziché inscrivervisi pedissequamente. Gli esempi non mancano: il ‘Maestro del Libro della ragione’, disegnatore e incisore cui è debitore il giovane Dürer; i manoscritti del ‘Maestro della Madonna di Burgundy’ per l’arte olandese del XV secolo; il nugolo di artisti preducceschi di cui solo ora, in seguito al ritrovamento degli affreschi nella cripta del Duomo di Siena, si comincia a comprendere l’importanza.
    E qui tocchiamo uno dei nervi del ‘dispositivo Maestri’: è possibile, e in che modo, legare originalità e anonimia? È possibile scrivere e sopportare una storia fatta di innovazioni e rotture che restano mute, scene senza attori in cui non si coglie altro che il respiro del farsi della storia? Non siamo davanti, per servirci di un’iperbole, ad una storia dell’arte di Maestri contrapposta ad una storia dell’arte di artisti? Come ripensare lo statuto dell’opera d’arte se la sua autonomia e il suo ruolo sociale erano garantiti, fra l’altro, dalla biografia aneddotica e leggendaria del suo alter deus, come si esprimeva Alberti? Domande insidiose che si moltiplicano come cerchi concentrici nelle acque profonde delle pratiche e delle teorie artistiche contemporanee. Come ad esempio il rapporto fra multiplo e originale, che nei primi del novecento prende decisamente partito per la riproduzione, almeno a partire da Rodin, un artista che, come ha ricordato R. Krauss, lascia allo Stato francese le sue sculture nonché i diritti di produzione dei bronzi a partire dai gessi. In altri termini, l’artista-demiurgo delega a un’istituzione la gestione del rapporto originale-copia e si espone al rischio di una moltiplicazione incontrollata delle sue opere (mi viene in mente un ciclo di foto di Candida Höfer sulle diverse copie de Le Monument aux Bourgeois de Calais conservate nei giardini dei musei sparsi per il mondo).

    3. Lasciando in sospeso questi punti nodali, ci affidiamo infine ad una finzione letteraria: Le chef-d’oeuvre inconnu di Balzac, pubblicato nel 1831 – stesso periodo in cui Hegel, nei suoi corsi di estetica, decantava la fine della verità, dell’autenticità e della necessità dell’arte – dove la ricerca della perfezione e la realizzazione del capolavoro, nascosto fino all’ultima scena, si rivelano impossibili. Frenhofer è così esaltato da confondere la sua creazione per una creatura: «Vous êtes devant une femme et vous cherchez un tableau», dice a Poussin e Porbus. I quali, accolti infine nell’atelier, si confidano che prima o poi il maestro si accorgerà «qu’il n’y a rien sur sa toile» (riflesso fra l’altro di una precedente battuta di Frenhofer su un’opera di Porbus, cui manca «un rien, mais ce rien est tout»).
    Perseguendo a stenti la perfezione di un corpo dipinto, Frenhofer ha finito per sfigurarlo del tutto. Non resta che «une muraille de peinture»: un niente da vedere o un niente che è tutto. Una situazione dello sguardo difficile da sostenere a lungo, al punto che Poussin e Porbus si concentrano e si consolano sulla rappresentazione di un piede ai bordi della tela. Un piede scampato all’inestricabile rete di linee che appena trattengono gli strati di colore, a quell’«espèce de brouillard sans forme» che l’artista brucerà la notte seguente prima di togliersi la vita.
    Poussin e Porbus, colti alla sprovvista, cercano un frammento che salvi e quasi redima la totalità dell’opera. Il contrario di quanto fa Reger – protagonista dello straordinario Antichi maestri (1985) di Thomas Bernhard – il quale da trent’anni si reca nella Sala Bordone del Kunsthistorisches Museum di Vienna per cercare un errore palese, quanto microscopico, che impedisca di considerare il Ritratto di Uomo dalla barba bianca di Tintoretto come un capolavoro.
    Tornando a Balzac: e se il suo racconto inesauribile (con i suoi transfert, visto che Cézanne e Picasso si sono identificati con Frenhofer) fosse una metafora della strategia dei Maestri? Non dimentichiamo quanto questi, come la logica del capolavoro, siano legati a doppio filo alla nascita del museo moderno nel XIX secolo. E questo racconto ci fa intravedere l’ambiguo fascinum legato ad una storia dell’arte di capolavori sconosciuti o di Maestri.
    È solo un primo passo, ma sin da adesso siamo certi di una cosa: che nel caso lo storico dell’arte fosse colui che, fissando il muro, parla il visibile, allora gli preferiremmo senza dubbio Bartleby lo scrivano. Colui che, davanti ad un muro, aveva l’ardire di ripetere ininterrottamente: «I would prefer not to».

  81. Effe effe, grazie di avermi fatto conoscere questo critico.

    Ora mi rendo conto che “ruminare” le recensioni non l’ho inventato io, cioè in un certo senso sì, però l’avevano gia usato i WuMing a proposito di nandropausa. Nandropausa in effetti ha delle belle recensioni. E stilos.

  82. effeffe il bravo riccardo venturi è parente del grande lionello venturi e franco venturi?
    Direi di si, visto la citazione e la frase finale;-)
    geo

  83. @ Georgia
    Riccardo Venturi come altri giovani storici dell’arte valentissimi (Nicola Jodice) vive a Parigi da un pò collaborando se non sbaglio con l’ecole du Louvre ed altre istituzioni importanti in Francia. Collabora a Sud e ne sono veramente felice. Gli scriverò per chiedere conferma di quanto chiedi. un abbraccio

    @Andrea
    Quando ci vediamo per mettere su un progetto bd su nazione indiana?
    effeffe
    ps
    ho appena postato il pezzo

  84. Vi segnalo due articoli veramente interessanti:
    Uno sul Guardian di Brian Whitaker e l’originale di Martin van Creveld sulla rivista settimanale ebraica americana Forward. Creveld, uno dei più famosi giornalisti (e storici) di storia militare, e che insegna alla Hebrew University di Gerusalemme, chiede per Bush l’impeachment.
    Sul Guardian
    Su Forward
    georgia

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