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Con i fantasmi della letteratura

forum su Cesare Garboli di Piero Sorrentino

Quante sono le anime, quanti gli stili che ancora respirano nei libri di Cesare Garboli? Di nove volumi pubblicati in vita, una manciata di raccolte postume e dello sterminato lavoro critico sparso sulle pagine dei giornali o emesso a voce – nella foga di una oralità che chi lo conosceva bene gli attribuiva con sempre maggior frequenza, soprattutto negli ultimi anni – quello che resta a poco più di un anno dalla morte proviamo a indagarlo con l’aiuto di critici e scrittori che dei libri di Garboli e della sua figura si sono nutriti: Filippo La Porta, Giuseppe Montesano e Emanuele Trevi.

Partirei da una domanda che frulla spesso nella mente dei lettori di Garboli, e lo farei ribaltando il famoso incipit di uno dei suoi saggi su Roberto Longhi: se non avesse mai incontrato gli scrittori di cui parlava, Garboli avrebbe mai scritto un rigo?

La Porta: Probabilmente no, ma questo non ne diminuisce affatto la grandezza. Quegli scrittori Garboli li ha meravigliosamente descritti ma anche reinventati. Nei suoi ritratti Velazquez faceva esprimere ai suoi soggetti qualcosa che loro stessi ignoravano di sé… Garboli non riesce a creare una storia e dei personaggi dal nulla…Non ce la fa, per la ragione che la realtà alla fine gli sembra più misteriosa, resistente e imprevedibile di tutte le nostre storie inventate. Una volta ha scritto che possiamo leggere le esistenze come testi, sistemi formali con leggi proprie. Perché dovrebbe essere così appassionante decifrare la vita-testo di un altro? Probabilmente perché per poterla decifrare bisogna prima averla ritrovata dentro di sé. Ognuno di noi virtualmente contiene tutti i testi possibili, e può capire un’altra esistenza (la sua coerenza interna, il suo ritmo) depositata sulla pagina di un romanzo, soltanto se prima la scorge dentro di sé, come potenzialità inesplosa. In questo senso la critica diventa ritrattistica e insieme autoesplorazione avvincente, fatta con l’ausilio di una estrema sapienza retorica e con la fermezza di un’indagine poliziesca.
A volte mi sembra che la grande tradizione ottocentesca del romanzo si sia come divisa in due filoni distinti. Se da una parte gli eredi di Dickens (l’affabulazione pura, il grande intrattenimento popolare) sono Spielberg e Scorsese e dall’altra invece gli eredi di Dostoevskij (quella concentrazione morale, intellettuale) sono alcuni grandi saggisti contemporanei (la Sontag, Garboli, Enzensberger, Steiner).

Montesano Io credo di sì. È vero che Garboli ha creato, si può dire dal nulla, Delfini, che è probabilmente più interessante nelle parole di Garboli che nella realtà della pagina. Ma è anche vero che Garboli è riuscito a risuscitare con una sorta di stregoneria evocatoria alcuni morti: e da ultimo ha disseppellito Pascoli. È evidente che Garboli era in qualche modo affascinato dai fantasmi degli scrittori, perché degli scrittori in carne e ossa gli interessavano i tic, le manie, le ossessioni, ma solo perché portavano giù nel pozzo del rapporto tra vita e opera. Quello che gli interessava soprattutto credo fosse la letteratura, la letteratura che fluiva e circolava in questi individui unici, dove l’accento cade di più sulla letteratura che sull’individuo unico, almeno è quello che uno capisce se prova a leggere di seguito e seriamente tutto quello che Garboli ha scritto. A questo lettore sorgerà davanti un panorama abbagliante, affollato di fantasmi che sono esseri reali. In un certo senso è come se vivi e morti si confondessero, nella letteratura, e dal loro commercio nascesse il potere dell’immaginazione. Per Garboli scavare nelle pieghe di Molière con feroce accanimento è un momento fondamentale: vuol dire che quello che cerca è qualcosa di inafferrabile alla e nella vita stessa dell’autore, cerca l’opera interminabile, cerca ciò che il fantasma custodisce: cerca, come ha scritto seccamente una volta, quella vita in più che solo la letteratura può dare.

Trevi Questa è un po’ una domanda a tranello, perché sappiamo tutti che Garboli ha iniziato con l’occuparsi di Dante, e ha scritto saggi su Rembrandt, su Chateaubriand, su Pascoli…Eppure, nel dubbio espresso c’è anche molta verità. Perché sembra proprio che il modello cognitivo dell’amicizia, ovviamente sperimentato sui viventi, si proietti, in determinate fasi del suo lavoro, sulle ombre del passato. Un caso esemplare è quello dell’introduzione al diario di Matilde Manzoni.

C’è una specie di efficacia inavvertita della scrittura di Cesare Garboli. Di qualunque cosa parli, ad apertura di pagina il lettore, in maniera confusa ma innegabile, sente sùbito una nettezza lessicale e allo stesso tempo uno zampillare estatico della frase. In che cosa il linguaggio di Garboli differisce da ogni scrittura critica sperimentata prima e dopo di lui?

La Porta Direi: qualcosa di sontuosamente teatrale e insieme una precisione da diagnosi clinica. In che senso? Da una parte Garboli ha una lingua vicina al “teatro” e alle sue molteplici risorse: illumina i suoi personaggi con luci diverse, imprestandogli voci autentiche o voci in falsetto, costringendoli all’ autoconfessione o ad una comica gestualità. Dall’altra ci offre una ritrattistica psico-morale di affilata esattezza. È psicologo finissimo, “scientifico” e insieme astrologo, chiromante, illusionista. Né la pagina di Garboli è mai “difficile”, proprio perché riformula continuamente quelle domande elementari intorno all’’esistenza che appartengono all’età adolescente (innumerevoli nella sua opera i riferimenti alla condizione di “ragazzo”, da Fabrizio del Dongo alla pittura …).

Trevi Mi sembra che il fascino (inimitabile) della prosa di Garboli risieda non solo nello stile, ma nell’istinto del grande narratore, nella capacità di catturare l’attenzione anche impelagandosi in questioni astratte, come ogni tanto è necessario nella critica. Avendolo frequentato e ascoltato al telefono per molti anni, posso testimoniare che questo istinto di grande affabulatore non era diverso, quando parlava con qualcuno, dalle sue pagine scritte.

Chi gli si può affiancare in, diciamo così, fraterna opposizione? Contini?

Montesano Più che a Contini penserei a Debenedetti, anche se in apparenza non può esserci niente di più inconciliabile. Se ci avviciniamo a guardare meglio, però, vediamo una cosa che li accomuna: e cioè che nella pagina di Garboli c’è sempre il critico al lavoro, non c’è mai solo il saggista inteso come essayist inglese, divagatorio e raffinatuccio pro-pro-pronipote di Montaigne, quello che si illude di echeggiare con la scrittura l’oggetto studiato. In Garboli invece c’è sempre il critico, l’analitico, il vivisettore, l’uomo col bisturi, inseparabile dal dandy nei punti di massima riuscita di scrittura. È sempre evidente che c’è un giudizio critico attento e motivato sull’oggetto e c’è insieme questa proprietà di scrittura che è stata chiamata narrativa, ma che è piuttosto una erotica attrazione per i testi-vite. Ora se pensi a Debenedetti, che è per molti aspetti agli antipodi di Garboli, trovi esattamente lo stesso. Le eleganze della scrittura di Debenedetti sono sempre attaccate, proprio come la carne all’osso, all’analisi critica, al bisturi, al microscopio. Questo è abbastanza unico nel panorama della critica letteraria (italiana e non solo).

Garboli non amava (anzi: detestava) la qualifica, per sé, di critico-scrittore, di scrittore prestato alla critica ecc. Si considerava al massimo uno scrittore-lettore, “che va a prendere le parole nello spazio dallo scrittore-scrittore e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo”. Eppure le divagazioni biografiche, l’avanzare oscillatorio del racconto, la linea serpentina del pensiero hanno molto più a che fare col gesto del romanziere di razza, un’attitudine narrativa che sembra sconfessare la sprezzatura di Garboli…

Trevi Garboli era una persona naturalmente dispettosa ed orgogliosa, un vero aristocratico. Gli piaceva correggere le definizioni altrui, ma senza un grande fondamento teoretico. In quella frase dove il “critico-scrittore” diventa “scrittore-lettore” non è possibile non vedere l’ironia. Che differenza c’è? Sono due etichette ugualmente insignificanti. Inoltre quella definizione di “critico-scrittore” non poteva andargli a genio, visto il misto di ammirazione e di dispetto sempre provato nei confronti di Gianfranco Contini, “critico-scrittore” par excellence. Ne abbiamo parlato tante volte insieme. Negli ultimi venti anni, la nozione stessa di critico-scrittore, nata per segnalare un’eccezione, è inoltre diventata la norma, e anche tristissimi figuri accademici e giornalisti con un po’ d’uzzolo elzevisristico si sono appropriati della seduttiva definizione. Decisamente, la formula non poteva che essergli antipatica. E allora cosa fa? Si definisce uno “scrittore-lettore”, tanto per dire qualcosa che appartiene solo a lui, fino a che qualcun altro gliela copia…ma lui, in quel momento, ha già in serbo altre etichette!

Dalla scrittura al metodo. Raboni ha detto una volta che Garboli è “un Sainte-Beuve rovesciato”: non raccoglie informazioni e fonti sugli autori per valutarne l’opera; usa invece l’opera come indizio per allestire una ricerca investigativa al fondo della quale c’è la soluzione all’eterna domanda: “perché si scrive?”

Trevi Non sono d’accordo perché non sono sicuro che Sainte-Beuve avesse come mira esclusiva la valutazione dell’opera. Inoltre credo che a Cesare del “perché si scrive” non importasse assolutamente nulla. La sua domanda è semmai: “perché quella determinata persona scrive?”

La Porta Sì, è vero, non gli interessa tanto l’opera quanto ciò che sta dietro. La letteratura lo spinge fuori da se stessa. E’ un filosofo (benché dilettante) della scrittura e delle sue ragioni ultime. Direi che nel suo caso bisogna un po’ resistere alla malia del suo stile, a quel fastoso spettacolo della lingua e della sintassi. E invece tentare di seguirne il limpido ragionare che attraverso un uso molto immaginativo e poco disciplinato delle opere letterarie, teatrali, figurative, etc. si configura come una meditazione alta sull’esistenza, ispirata ad una serena drammaticità, ad un amor fati appena malinconico….Inoltre: un grande romanziere, ma di tipo speciale: appunto non inventa nulla, ha bisogno di appoggiarsi a un’esistenza già vissuta. Vuole capirla, non vuole modificare nulla. Interpreta la realtà piuttosto che trasformarla. E’ un Marx rovesciato, casomai.

Montesano Non solo “perché si scrive?” ma anche “perché ciò che si è scritto è così ?”, che è la seconda domanda da fare; perché ciò che si è scritto è così e non può essere diverso? A questo punto siamo di fronte a una gnosi o scienza della letteratura. Cioè: perché una cosa scritta è necessaria e non può essere modificata? Perché quando è arrivata al suo compimento non ci sono più santi che possano aiutarla a migliorare o a peggiorare? Garboli rifà tutta la strada che ha portato a quell’opera, e in questo è stato frainteso, perché tutta una serie di numerosi imitatori di Garboli ha preso l’idea del cammino che si fa per arrivare all’opera per tutto quello che interessava davvero e solo a Garboli. Non è così, perché se Garboli ricostruisce davvero anche le minuzie della vita di Molière, non è perché questo è un esercizio fine a se stesso: è perché questo spiega Tartuffe! Garboli parte dall’opera d’arte e scende fin dove è possibile per rintracciarne l’origine, le radici. In questo poi chiaramente il non-detto, l’abbozzo e il taciuto diventano fondamentali. Sarebbe un errore vedere in Garboli una specie di giocoliere che oscilla tra la vita e l’opera. Non oscilla per niente: si muove rigorosamente dalla vita per spiegare l’opera e dall’opera per spiegare la vita, ma alla fine, come giustamente accennava Raboni, quello che gli interessa è la letteratura. Cioè l’opera. Solo che l’opera che gli interessa deve essere intrisa di qualcos’altro, piena di una sorta di sostanza quasi organica, fisica, tattile, vitale…

La ricognizione letteraria di Garboli sembra sempre avvalersi di un’elaborazione critica e stilistica del tutto libera da qualunque copertura ideologica o politica. In realtà questa elaborazione è un interessante esempio di tecnica mistificatoria, l’astrazione teorica essendo una lente oscura che dissimula ma non cancella affatto la politica (ma più che di politica in senso stretto è più corretto forse parlare di antropologia, di studio del carattere nazionale, di sociologia) dai suoi pensieri e dalle sue pagine. Penso all’Introduzione ai diari di Delfini, alle Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, ad alcune pagine su Penna, oltre che naturalmente al suo libro più politico, Ricordi tristi e civili. Garboli d’altronde era pure uno che non lesinava (e anzi rivendicava con orgoglio) per se stesso la qualifica di comunista…

La Porta Certo, scrittore politico e civile. Chi meglio di lui ha saputo descrivere la nostra classe dirigente? Vedi il commento alle poesie di Gabriele Cagliari scritte in prigione… Quei versi, goffamente scolasti, sentimentali e “irresponsabili” diventano molto più interessanti di qualsiasi altro testo poetico. Parlano infatti di noi, della nostra spensierata classe dirigente, del rapporto tra cultura e società, della incapacità tutta italiana di descrivere e capire se stessi: “Quest’uomo non sa chi è…” , scrive Garboli, aggiungendo che la nostra cultura non riesce proprio a dar ragione del tragico di cui pure è impastata tutta la nostra vita pubblica e privata.
Comunista? Sì, però quella sincera dichiarazione di fede ha a che fare più con una scelta morale che appartiene al passato, quando appunto il definirsi comunisti garantiva sullo stare dalla parte giusta, con gli umiliati e offesi, contro il potere, etc. Su questo l’immaginario di Garboli era rimasto dispettosamente indietro di qualche decennio…

Trevi Era stato allievo di Natalino Sapegno, che a mio modesto parere non era certo un genio, ma di sicuro una persona di grande civiltà, nel senso più alto del termine. Le sue passioni politiche e le sue indignazioni erano violente e sincere. Mi ricordo che una volta abbiamo litigato al telefono, in piena Tangentopoli, quando Cagliari si suicidò a San Vittore. Lui riteneva che era un gesto assurdo e spregevole, di chi vuole sottrarsi alla giustizia perché si sente superiore. Io gli dicevo che quando una persona è morta non è più giudicabile come se fosse viva, e che comunque ficcarsi la testa in una busta di plastica era un gesto di coraggio. Mi ricordo che era infuriato: “gioventù dannunziana !” urlava nella cornetta. Quanto al suo dirsi “comunista”, niente da eccepire: era un uomo di grande rigore morale, e aveva una eccezionale capacità di empatia e comprensione nei confronti degli umori e delle mitologie sociali. I Ricordi tristi e civili esprimono solo una parte minima di questo elemento così importante della sua vita intellettuale.

Domenico Scarpa ricordava qualche tempo fa che Giorgio Bocca una volta definì Garboli “un bello della compagnia Cimara, un gigione”, e sottolineava che uno dei vezzi più sospetti di Garboli era quello di simulare rammarico per la smemoratezza degli anni trascorsi con gli scrittori più frequentati e studiati, per poi, poche pagine dopo, “dopo aver infittito la nebbia”, ricordare “di botto tutte le date precise, in un’accensione di furor critico e filologico”.

Montesano Io la vedo un po’ diversamente. Quello che fa Garboli è semplicemente quello che fa uno scrittore, e tra l’altro solo in questo suo modo di agire può essere apparentato veramente a un narratore. Cosa fa uno scrittore? Taglia e mette in luce: quello che non serve viene soppresso, e quello che serve viene illuminato da un riflettore più forte, fino anche a deformarlo: ma in quella deformazione brilla, a volte, la verità. È esattamente quello che fa Garboli con il suo sprofondarsi nella vita-opera, e lo dice anche da qualche parte: non vi dovete aspettare che io vi dica tutto dello scrittore, per un motivi fondamentale: perché non posso sapere tutto, perché un critico non può capire tutto di un’opera o di una vita, dal momento che un’opera o una vita sono ignote in parte anche a se stesse. Ci sono delle zone oscure che restano tali, e in un certo senso (come ha scritto lucidamente Lavagetto nel suo ultimo libro) proprio ciò che resta oscuro spinge in qualche modo a cercare di spiegare meglio quello che si intravede. Ma questo qualcosa che resta oscuro non può essere illuminato da una luce artificiale o dall’idea accademica, tuttologica, di spiegare qualsiasi cosa. Direi allora questo con una immagine: Garboli è un segugio che scava tartufi, ebbro del suo istinto, tutto sensi, naso, corpo: ma è contemporaneamente colui che guida il cane, che conosce la mappa dei luoghi, che collega il mondo oscuro di sotto con quello luminoso di sopra: eccolo il critico-saggista Garboli al suo meglio, uomo e animale, ragione e istinto, caos e ordine, e sempre ancora un altro strato da scavare per vivere.

Trevi Sono riserve pesanti. Con un po’ di buon senso, si potrebbe dire che in tutto quello che ha fatto Cesare ci sono dei difetti, delle imperfezioni, come sempre nell’opera degli innovatori, degli inventori, degli sperimentatori. La critica di Bocca mi sembra bonaria, perché riguarda semplicemente le strategie dell’argomentazione. Ebbene, in effetti quello che nota Bocca, con la consueta intelligenza, è vero: Garboli ha questa abitudine di tirare fuori gli assi dalla manica quando meno te lo aspetti. L’introduzione a La famosa attrice, il libello diffamatorio anonimo sulla moglie di Molière, dà l’idea che il critico sappia di più fin dall’inizio, indugiando nelle esitazioni per catturare meglio l’attenzione.

(già pubblicato, in forma ridotta, su stilos )

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9 Commenti

  1. Questa mia fobia dell’immagine non è iconoclastia fine a se stessa … = l’ho dimostrato in scena eccedendo il teatrino del testo, fino a separare il TEATRO dallo SPETTACOLO …, così come nella TEORIA della CRUDELTÀ di Antonin Artaud, = quel che conta nell’ARTE non è il prodotto artistico, ma il PRODURSI dell’artefice in rapporto al quale (qui Jacques Derrida è impeccabile) l’OPERA non è che una ricaduta residuale … un escremento (nell’etimo) = ciò che si separa e cade… dall’organismo vivente …, dalla vita! … l’Arte è La Vita … come IRRIPETIBILITÀ dell’EVENTO … vivente una volta sola! …
    E perciò l’opera è il materiale morto … è il cadavere … evacuato dall’evento! … Il destino d’ogni opera d’ARTE non è nell’OPERA = È ARTE … ALL’OPERA!, … è il prodursi dell’artista che trascende l’OPERA … (è la SENSAZIONE! che ci investe davanti alle tele di Francis Bacon) …
    Un GENIO è soprattutto colui che eccede le sue opere … , = L’atto dell’esecuzione artistica è più determinante dell’opera esitata … (e qui cito Derrida alla lettera) … = Il genio lascia delle tracce, delle opere, dei residui; … ma quanto è veramente geniale e artistico si trova nel DUCTUS, … nel gesto della firma, più che in ciò che resta della firma … Da qui =
    = Ogni ARTE sarebbe SENZA OPERA, … e, forse, … senza artisti.
    Ormai ridotta a una sorta di COLLAGE DI MASSA, qualunque impresa ARTISTICA ha la sorte che merita! …
    = dall’EVASIONE dalla vita, alla LABIRINTITE INTELLETTUALE! …
    = dalla reiterazione del TEATRO TOTALE WAGNERIANO, alle traveggole del MULTIMEDIALE!
    = dalla volubile GRATIFICAZIONE del MERCATO, … alla burocrazia della COMMITTENZA DEMOCRATICA. …
    L’ARTEFICE non è mai AUTORE d’una propria opera. È di per sé (semmai!) un capolavoro vivente.

  2. Per spendere una parola a favore di certi intrecci anche umani a volte più fertili di quelli che un mondo letterario un poco autoreferenziale mette in scena, vorrei notare che quello che dice Montesano: “È vero che Garboli ha creato, si può dire dal nulla, Delfini, che è probabilmente più interessante nelle parole di Garboli che nella realtà della pagina”, è vero solo se si riferisce al mainstream editoriale e alla critica letteraria classica.
    Io ho conosciuto le opere di Delfini a cavallo degli anni settanta/ottanta non grazie a Garboli, ma a un gruppo di artisti che lo leggeva da anni forse proprio per le ragioni per cui Montesano lo considera, mi pare, quasi una nullità, e cioè, credo, il suo non essere produttore di fiction classica (ma potrei sbagliarmi e non voglio mettere in bocca a Montesano opinioni non sue).
    E’ un peccato che non ci siano quasi più quei pentoloni in cui gli ingredienti erano una gamba di musicista, un lombo di scrittore, una mano d’artista e qualche veletta di signora. Garboli quei pentoloni li conosceva bene, spero che benché io non li veda ci siano ancora in nuove vesti.

  3. Dolente di correggerti, Temperanza. Non puòssi vedere ciò che non è. A parte questo, e in ogni caso, Garboli si nasce, non si diventa (ne è testimonio parlante il c.d. forum presentato dal bravo Sorrentino).

  4. @Giovanni
    mo’ comprendia! La tontaggine avanza. Anche da altre parti a me estremamente prossime mi si dice che non ci sono più pentoloni, io chissà perché non ci credo, bisogna cercarli con pazienza e un buon lanternino. Magari invece che pentoloni adesso hanno forma di arcipelaghi, di massi erratici sparsi qua e là, chissà. Garboli si nasce, sì, però anche un po’ si diventa, nel senso che il molto lavoro e tutte quelle antiche virtù che adesso non sto a elencare (tra cui le buone frequentazioni) affinano, affinano molto, e affinano anche molti più di quanti si penserebbe.

  5. Temperanza, ma chi c’è rimasto da frequentare? Per un giovanissimo aspirante americanista che incontrava Ezra Pound a Rapallo alla fine dei 60s, oggi cosa c’è in cambio? B. E. Ellis che viene in tour italiano, firmando magari reggiseni di squinzie accalorate e accaldate? Domande, senza una risposta precotta in mente.

  6. Io non penso (come dice giovanni) che si nasca grandi critici, grandi scrittori grandi artisti, grandi letterati ecc. :-), io penso che lo si diventi (più che altro per follia e resistenza agli urti), certo ci vuole intelligenza, talento, occasioni e anticonformismo, una buona dose di incoscienza, ma poi tutto questo non basta, quindi bisogna “diventarlo”, d.i.v.e.n.i.r.e..
    Invece sono d’accordo con giovanni che il c. d forum sia un’accozzaglia di banalità, e cose inutili senza alcun scopo che riempire degli spazi, come raramente avevo letto. Tre persone che scrivono cose in cui … boh … non si sa neppure perchè le scrivono.
    Avevo già letto su stilos e nulla di quanto avevo letto mi era piaciuto, ma tre perle mi hanno colpito maggiormente, tre perle dette con insipienza, indfferenza, buttate là, e soprattuto con candida ignoranza giovanile (ma i tre non sono giovani ;-) di chi pensa che la letteratura non sia altro che un effetto collaterale del loro bisogno di fare carriera (insomma un contenuto incidentale su cui poter argomentare alla io boja:-)
    Tre perle:
    1) due le ha dette montesano:
    Non vorrei dire una cazzata, ma garboli non ha mai creato nè disseppellito nessuno (forse solo il dario di matilde), ha studiato (in maniera mirabile) sempre persone già famose da moliere fino a delfini, penna, morante, ginzburg ma nessuno di loro e diventato noto, o ha pubblicato in vita grazie a garboli che ha scritto su di loro cose immense da grande Scrittore-Lettore
    Non credo che garboli sia mai stato un talent scout anzi credo fosse proprio negato per questo.
    Montesano ‘un sa proprio ikke dice, ma come si fa ad esempio a dire che garboli ha disseppellito pascoli????? Garboli ha scritto cose egregie intelligentissime su pascoli, ma non ha disseppellito un bel niente:-).
    E come si fa a dire che ha inventato delfini? garboli lo ha incontrato che lui aveva 17 anni e delfini aveva già scritto e pubblicato il ricordo della basca, se proprio vogliamo possiamo semmai sostenere il contrario: senza delfini garboli sarebbe stato un altro.
    Delfini fu “scoperto”da bo, da bassani, da bertolucci, fu riscoperto e amato da Anceschi e dal gruppo 63, in particolare balestrini, il premio viareggio (pstumo) nel 1963 glielo volle dare a tutti i costi Pasolini perchè in quelle pagine c’erano dei riferimenti all’orrore delle periferie cittadine, le stesse intorno a cui pasolini stava elaborando sue geniali visioni.
    Montesano ‘un sa proprio ikke dice.
    Landolfi lo avrebbe chiamato un sopracciò;-).
    Tra i tre critici quello che stimavo di più è emanuele trevi (ha scritto cose moto interessanti) ma qui la sua cazzata l’ha detta pure lui. Ha cercato di trasformare garboli in una macchietta da salotto, in un dandy aristocratico che teorizza per dispetto. Cose da matti. Una cosa è la persona (e i suoi difetti o pregi caratteriali) e un altra l’opera di quella persona. La teoria dello scrittore-lettore, o del traghettatore di parole, è una cosa seria, a cui garboli ha creduto tutta la vita, e cosa ben diversa da una chiacchierata ad una cena.
    Per garboli non c’era differenza tra vita e letteratura (e questo capisco possa trarre in inganno e far confondere uno sprovveduto), per lui la letteratura non era un passatempo o un effetto collaterale per fare soldi, o carriera (anche se non disprezzava nessuna delle due) era un qualcosa di molto importante e l’inclusione o esclusione di uno scrittore, per lui, poteva cambiare i destini di un paese, certo nella lunga durata, e non nello spazio di una generazione;-)
    A lui Moliere non serviva solo per tradurlo e guadagnarci. A lui Moliere serviva anche per capire la morte di moro, l’arrivo di dell’utri e berlusconi
    Pasolini sapeva vedere nei ragazzi delle borgate il cambiamento epocale che avveniva per tutti, e garboli spiava nei tartufi (che incontrava nei salotti) la corruzione e la criminalita politica che ci stava portando nel baratro in cui sguazziamo adesso
    Ragazzi se ‘un si capisce che differenza passa tra il leggere (o scrivere) libri o pubblicizzare un fustino di sapone e scriverne o leggerne le istruzioni … si andrà poco lontano e saremo sempre colonizzati.
    Lo scrittore (poeta artista ecc.) non morirà mai perchè è un anticorpo della società quindi, volenti o nolenti, verra sempre prodotto dalla natura e dalla società, ma per il critico è diverso, è sulla critica in Italia è stata messa una pietra tombale ;-) per il momento.
    E non è cosa da poco perchè la grande critica traghetta i grandi scrittori.
    Poi … poi, certo, tutto quello che muore rinasce sempre;-).

  7. Georgia, anche a me mi sa che è difficile nascere grande critico, grande scrittore o grande portiere di calcio. Sono però certo che Cesare Garboli, o ci si nasce o niente; e così Dino Zoff, Calderòn de la Barca e qualcun altro – non tanti – di quella risma.

  8. Mettici anche Baggio che è (era) la ma passione.
    però….
    Nascerci non basta ;-)
    Ognuno di noi potrebbe esserci nato e non saperlo.
    Tu, ad esempio, ma te l’ho già detto tante volte, potresti anche esserci nato, ma … ne hai un sacrosanto salutare terrore;-)
    Ed è una difesa …. da non sottovalutare! E lo dico senza ombra di ironia ma con totale comprensione.
    A me non fa rabbia che alcuni non riescano ad diventare come garboli (o meglio di garboli), io credo non faccia bene alla salute diventare o essere dei grandi, e io sono salutista.
    Quello che mi fa rabbia è che non si usi al massimo quello che già si ha e ci si scivoli sopra banalizzandolo con alterigia e supponenza, perche questo fa male alla salute, così facendo ci distruggiamo tutti gli anticorpi.
    Ma forse, non lo escludo, anche questo atteggiamento è una autodifesa per sopravvvere.
    Essere dei grandi forse oggi è pericoloso, e l’unica maniera per non apparire dei mediocri è quella di … occultare o ridicolizzare il gia fatto e chi vorrebbe fare.
    Beh è una strategia salutista anche quella, posso capirlo ;-), speriamo solo che non ci porti tutti alla rovina per mancanza di coraggio.

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