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Faccia a Faccia con Salman Rushdie

di Angela Bruno e vins gallico

Piazza Lesseps è tutta un cantiere. Per attraversarla ci tocca camminare sotto un tunnel che sembra la metropolitana (graffiti compresi). All’ingresso della biblioteca Jaume Fuster c’è il cartellone con il titolo dell’incontro Barcelona Any del libre – el valor de la paraula. Ci mettiamo in fila per recuperare un auricolare. C’è disponibile soltanto la traduzione in catalano.
È giù che si va per Rushdie?
Ruschì? Ci risponde l’addetto alla distribuzione degli auricolari, Qui c’è solamente la presentazione di un libro.
L’auditori è già pieno alle sette meno venti.
Rushdie entra puntuale, scortato da una schiera di fotografi e giornalisti. Ad accompagnarlo sul palco Rodrigo Fresàn, scrittore, saggista e traduttore sudamericano.
Si comincia.
Rushdie risponde alla prima domanda raccontando della sua antipatia per i confini. Nato a Bombay, dove tradizioni anglosassoni e indiane confluivano e l’est si mescolava all’ovest, cresciuto a metà fra il Kashmir, l’India e l’Inghilterra, facendo adesso spola fra Londra e New York, Rushdie vede nel suo modo di fare narrativa una possibilità di abbattere le barriere fra gli stati. Il mondo è cambiato negli ultimi anni, si è intrecciato, le culture nazionali si sono imbastardite, sono diventate creole e la letteratura si deve adeguare a questi fenomeni. Racconta una storiella su una ricerca antropologica svolta in India recentemente. Hanno fatto il conto delle divinità indiane: trecento milioni. Ognuno in India ha la possibilità di avere il suo dio privato, ognuno una propria visione del mondo. Differenziata. Personale e globale. Se Tolstoj poteva scrivere romanzi lunghissimi senza parlare di Napoleone, oggi il sostrato politico e la struttura sociale non possono essere messe da parte. C’è un intreccio intensissimo fra privato e pubblico (cfr.http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2005/11/ho_un_impegno.html#comments).
Il mondo cambia come la musica, Rushdie si atteggia ad esperto di musica rock e pop, riesce a leggere le tendenze più moderne attraverso la prova della mamma: tutto ciò che alle mamme del Pakistan o del Canada non piace per lo stesso motivo è un fenomeno in voga. L’accettazione della generazione più anziana di un fenomeno prima riconosciuto come di rottura implica il suo essere out (come nel caso della musica di Elvis)
No, Rushdie non sente di appartenere al realismo magico di Garcia Marquez e Fuentes (si tratta di definizioni che hanno senso soltanto per classificare epoche e provenienze geografiche), né tanto meno prende in considerazione l’appellativo di illusionista storico, proposto da Fresàn (a Rushdie Fresàn gli sta sulle palle, anche perché continua a fare paragoni fra i suoi romanzi e la televisione).
Rushdie non può essere etichettato in nessuna di queste tendenze perché non ha mai aderito a manifesti collettivi come nel caso degli autori del realismo magico sudamericano. Non accetta neppure il paragone con Amis, McEwan o Grass.
E il suo ultimo romanzo?
Shalimar il pagliaccio non è una storia di terrorismo, ma di un amore passionale, di cambi radicali con scelte dure, nelle quali ogni bivio rappresenta una perdita.
Il prossimo?
Forse una storia di fantascienza o un romanzo sul rinascimento.
Usciamo dall’auditori un po’ sorpresi. Nessuno di noi due ha mai letto qualcosa di Rushdie, ma ce ne è venuta voglia. Ce lo immaginavamo un barboso autore di best-seller (e lui stesso pare essere consapevole di questa fama, forse legata alla storia della pubblicazione dei Versetti satanici), invece è un signore dal sedere tondo e un senso dell’umorismo pungente, che confessa di aver letto il Codice Da Vinci vergognandosene, ma neanche troppo, che ha parole di ironia sottile per tutti e che guarda la realtà con sagacia. Sorridendo canzonatorio, come dichiara rispondendo all’ennesima domanda di Fresàn, oppure sfottendoci quando noi gli chiediamo se possiamo fargli una foto da mandare a Nazione Indiana e la nostra digitale si spegne perché ha le pile scariche.

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37 Commenti

  1. Ho letto “I figli della mezzanotte” parecchio tempo fa. Ricordo la fatica (un malloppo di un sacco di pagine), ma ricordo anche che mi era sembrato un romanzo straordinario.
    L’ho prestato a una persona che è andata a fare un viaggio in India. Non me l’ha più restituito.

  2. @Emma
    L’avrà perso, anch’io lo ricordo come una pizza immangiabile e infatti l’ho lasciata sul piatto.

  3. @Temperanza
    Mah, io i romanzi di solito li trovo indigesti. “I figli della mezzanotte” l’ho trovato faticoso ma splendido. È vero che l’ho letto dopo un viaggio in India, dopo qualche infarinatura sulla storia dell’indipendenza indiana e sulla divisione India/Pakistan, in parallelo con un reportage di Naipaul sull’India “reale” (“India: un milione di rivolte”), cosa – soprattutto l’ultima – che è servita a bilanciare il “fantastico”.

  4. @Emma
    Ecco, di Naipaul ho letto invece moltissimo con grandissimo interesse (a proposito dello sguardo su Napoli, quello di Naipaul secondo me potrebbe essere un modello), per passione nei suoi confronti mi sono sorbita persino un modesto libro sull’Africa di suo fratello. Quando India è uscito nei tascabili lo ho regalato a tutti quelli che mi capitavano a tiro. Ma non c’è stato niente da fare, Rushdie solletica, appaga, compiace e si compiace. E quindi viene preferito.

  5. @Temperanza
    Non è che preferisco Rushdie.
    Oltretutto di Rushdie ho letto solo “I figli della mezzanotte”, niente altro.
    È andata semplicemente così: “I figli della mezzanotte” l’ho apprezzato. Molto.

  6. @Emma
    Non l’ho detto infatti, non era una critica, scusami se ti ho dato questa impressione, e poi io ho gusti strani, non mi piacciono molti libri che persone che invece mi piacciono amano molto. Diciamo che la sovrabbondanza mi fa diventare scorbutica.

  7. Bah, a proposito di libri strani (o meglio, non particolarmente noti).
    Una delle cose che ho più apprezzato sull’India (ma si tratta di un diario di viaggio) è un piccolo libro di Manganelli: “Esperimento con l’India”.

  8. Ma Manganelli chi lo legge? Lo si cita, ma non lo si legge. Se non ricordo male Hilarotragoedia vendette 80 copie quando uscì.

  9. Io ho letto Manganelli, ma non ricordo il titolo,lui mi è sembrato elementare, severo, alto. acutissimo.
    L’ultimo romanzo è stato Agotha Kristoff :la trilogia della città di K.
    esemplare…mi ricorda Emir Kusturitza e il film underground.
    Ecco questi sono gli stili che preferisco.

  10. Non pensavo che il libro di Manganelli fosse così amato.
    Naturalmente non è solo un libro sull’India, anzi potrebbe non esserlo affatto. Potrebbe essere il resoconto di un viaggio in una stanza, o dentro un sogno, o dentro un incubo. L’India potrebbe essere il pretesto, un pretesto il mito occidentale dell’India; poi ogni mito si disfa e alla fine la sensazione è che l’India ci sia, più che in un reportage di 500 pagine con tanto di foto e grafici e link multimediali.
    A distanza di anni mi succede ancora di pensare ai cani che popolano il libro. Sono cani mansueti e gentili. Ci sono anche cani uccisi dalle macchine, ma non c’è tragedia. Credo che Manganelli abbia voluto, inconsciamente, “salvare” gli animali. Almeno loro.
    Io invece ricordo di aver incontrato – in diverse occasioni – branchi di cani famelici, che non mi facevano stare per niente tranquilla.

  11. Chiuso il libro, resta in ogni caso la scrittura.
    Uno non può fare a meno di chiedersi: come si fa a scrivere così?

  12. Credo sia doveroso (un vero obbligo morale), per chi ama davvero la letteratura, smontare pezzo a pezzo l’opera omnia di Rushdie fino a ridurla a quel centinaio di pagine che andrebbero (forse) salvate: ferma restando, comunque, la sua difesa a oltranza contro l’idiozia omicida di ogni tipo di integralismo religioso e di censura.
    Detto questo, un avviso ai naviganti: giù le mani da Manganelli!: uno dei pochissimi grandi scrittori italiani (stavo per scrivere genio) del Novecento.
    Temp, tieniti pronta ad affilare le armi (della critica, ovvio) contro ogni possibile attacco! Io ci sono.

    p.s.

    Sono due giorni che ci penso e ci ripenso, che leggo e rileggo, ma continua a sfuggirmi il senso di questo post. Limiti miei, sicuramente.
    Ammesso che il senso non fosse tutto nello scoop che il nostro ha il culo tondo.

  13. Su Rushdie.
    Può essere che Rushdie sia sopravvalutato. Ho letto solo “I figli della mezzanotte”, vale a dire il primo romanzo di Rushdie, pubblicato quando lui aveva poco più di 30 anni ed era un perfetto sconosciuto.
    Ho letto “I figli della mezzanotte” perché mi interessava l’India, non perché mi interessava Rushdie.
    Credo che questo piccolo particolare abbia avuto una grande importanza. Cioè che la mia lettura sia stata condizionata dal fatto che mi interessava – in quel momento – tutto ciò che aveva a che fare con l’India.
    Sono certa che l’eventuale rilettura de “I figli della mezzanotte” mi porterebbe a impressioni diverse. Ma sono altrettanto certa che anche una rilettura di “Esperimento con l’India” (Manganelli) mi porterebbe a un sostanziale ridimensionamento. Così come potrebbe accadermi di trovare “sentimentale” Pasolini (“L’odore dell’India”).
    Non sono un lettore di professione. Le mie letture non sono “segnate” solo dall’eventuale “grandezza” dello scrittore, lo sono anche dalla ragione specifica che in quel momento mi ha spinto a leggere un libro (un “argomento”) piuttosto che un altro.

  14. Dubito che Rushdie sia proprio da buttare.
    Mi sembra che Rushdie abbia avuto un peso e un ruolo importante per la scoperta e la valorizzazione della letteratura anglo-indiana (scrittori del sub-continente indiano che scrivono in inglese e scrittori di origine indiana o pakistana che scrivono in inglese fuori dall’India).
    Mi sembra che – piaccia o no – quella anglo-indiana (non certo un “blocco” omogeneo) sia un “pezzo” di letteratura contemporanea non propriamente trascurabile.
    Poi Rushdie è anche uno scrittore di successo, si è fatto i soldi, ha avuto l’attenzione mediatica per via della “persecuzione”, ha collezionato quattro mogli, l’ultima è giovane e bella mentre lui è obbiettivamente brutto, non certo di primo pelo e – scopro adesso – ci ha pure il culo tondo.
    La moglie giovane e bella è indiana. Per noi il culo “tondo” (suppongo significhi anche “pingue”) non è particolarmente sexy, di certo non lo è in un maschio.
    Può darsi che in India il culo tondo dei maschi sia ancora un particolare attraente, perché è sempre stato un particolare da ricchi, e anche da casta elevata.

    Trovo interessante questo:
    http://www.antrodellasibilla.it/lettprosa7.htm

  15. @ Emma

    Nella mia “critica” (chiamiamola così) non c’era nessun riferimento polemico ai tuoi post o alle tue considerazioni. Davvero.
    Mi chiedevo, invece, e mi chiedo, che senso possa avere postare una articolessa su Rushdie in uno spazio definito “Sui maestri”. Di che?

  16. @Gibril
    Non so se ho capito.
    « Fronte Sud/ Fuoco Amico
    Fronte Sud/ Sui maestri » (i link che compaiono in alto su questa pagina) si riferiscono al post che segue e a quello che precede, non a questo.

    (Mai pensato che ce l’avessi con me)

  17. @Gibril

    Non credo che qualcuno attaccherà Manganelli. Per qualsiasi scrittore, persino di slogan pubblicitari, sarebbe come per un maratoneta spararsi sui piedi. Non “si porta” per ora l’attacco a Manganelli. Condivido quello che dici a Emma, neppure io ho capito il senso di questo post.

    @Emma
    Mi hai fatto sorridere, visto il consenso pressoché planetario di Rushdie il fatto che qualcuno dissenta fa quasi ridere. Nessuno di noi ha il potere di buttare a mare alcunché. Non so se Rushdie abbia il merito che dici, io credo che l’editoria british abbia semplicemente preso atto di una realtà sociale, molto ricca tra l’altro, e alla quale, nonostante tutte le critiche al modello inglese di integrazione, faccio tanto di cappello.

    Di nuovo a proposito di Manganelli, in un post precedente di Krauspenhaar sul giallo avevo citato proprio uno dei periodi iniziali di Esperimento con l’India per dare un esempio di quella che è per me la grande scrittura. Tu dici che resta la scrittura, sì, resta lì, nel fondo, anche se sembra che nessuno lo legga più, nulla si perde e ci sono lieviti che continuano a operare, anzi, la lievitazione lenta se non sbaglio fa il pane migliore.

  18. @Temperanza

    1) Leggo ora la citazione di Manganelli (senza il titolo del libro, mi pare) nei commenti al post sul noir di Krauspenhaar.
    Che dire? Ulteriore conferma che il mondo è piccolo? :-)

    2) Non credo che la letteratura post-coloniale in inglese sia solo una “realtà sociale”.
    Penso che c’entrino moltissimo la scrittura e le “innovazioni” / il meticciato della lingua e delle culture.

  19. @Emma
    Senza il titolo del libro, sì, non mi interessava darlo (anzi, a volte, non darlo obbliga magari qualche persona curiosa e cercare un po’ di più, a non andare a colpo sicuro), ma approfitto di questa tua osservazione per dire che quando parlo di esattezza non mi riferisco tanto all’esattezza dei riferimenti bibliografici, ma all’esattezza nell’uso delle parole, cioè all’esattezza dello stile, che poi spesso, anche se non sempre, coincide con l’esattezza del pensiero. Era anche in questo senso che citavo Manganelli.

  20. @Temperanza
    Sai che ti stimo, ma qui non mi trovi d’accordo.
    Io sono una “dilettante” – e per alcuni argomenti naturalmente lo sono più che per altri.
    Frequento N.I. anche per fini che potrei definire (banalmente) “formativi”.
    Perciò quando c’è una citazione – anche se solo di tipo “esemplificativo” – mi piace avere (se necessario dare) tutti i riferimenti.
    Se avessi letto prima la frase di Manganelli l’avrei riconosciuta, ma per un caso del tutto fortuito.
    Nel 99% dei casi una citazione senza riferimenti non la riconosco, e non ho alcuna difficoltà a rivelarlo.
    Ammetterai infine che “Esperimento con l’India” è un testo di “nicchia”, non è certo un testo di quelli che “tutti” sono tenuti a conoscere.

  21. @Emma

    Mi sono espressa male, non è che in quel caso non ho messo i dati per sfidare il lettore, ma tu hai ragione, d’ora in poi cercherò di metterli, ho però una biblioteca di cinquemila volumi e per una serie di ragioni in questo momento non perfettamente in ordine, non è enorme, ma non è neppure tanto piccola, a volte vado a memoria perché per trovare un titolo dovrei perdere mezz’ora, in questi giorni sto cercando di sistemarla.
    Ma non c’è scusa, hai ragione. Del resto anch’io non riconosco un autore da una citazione. Sarà fatto.

  22. Il senso di questo post?
    Allora: ho visto una conferenza di Rushdie (del quale non ho letto nulla, come affermavo in precedenza). Mi sembrava che vi fossero degli spunti sui quali si potesse riflettere:
    1) letteratura e confini
    2) l’impegno sociale o l’impossibilità di escludere il sociale dal romanzo contemporaneo
    3) il rapporto fra i generi della narrazione (tv-libro)
    4) il culo tondo di Rushdie

    Non ho approfondito (come neanche Rushdie ha fatto) nessuno dei precedenti punti. Se è servito come stimolo, involontario, fortuito, casuale, a ulteriori discussioni mi fa piacere. A gibril non piacciono le mie traduzioni, non piacciono i miei articoli, gli ricosco con oggettività che dice spesso cose sensate e fa giuste critiche, e poi, per dio, mica dobbiamo andar d’accordo con tutti.

  23. @Vins gallico

    Ti do ragione, non solo non dobbiamo, ma sarebbe anche piuttosto noioso.

    Ah, tra l’altro, son d’accordo con Emma, il culo tondo non acchiappa, ma se poi il portatore di culo tondo si riscatta con doti di spirito (e spesso i culi tondi ne hanno parecchio, forse per contrastare questo handicap di partenza), non solo perdono la sua mamma per non essersi concentrata abbastanza, ma mi diventa più simpatico di un bel culo. E’ il caso di Rushdie? Non so.

  24. @ Vins

    Ti assicuro che non c’era nessuna critica nei tuoi confronti (o nei confronti di Angela Bruno): l’oggetto della polemica era, suo malgrado, Rushdie, al quale mi era sembrato si volesse attribuire un’importanza superiore ai suoi meriti letterari (secondo me, pochi).
    Mi concederai, comunque, il fatto che io mi aspetti una proposta più significativa da chi, per non andare troppo lontano, ha postato (che bruttissimo verbo!) testi di valore l’otto e il diciassette novembre, permettendomi di scoprire un poeta di sicuro interesse che non conoscevo affatto. Penso, almeno per me è così, che si navighi tra queste pagine anche per ragioni del genere, oltre a cercare di tenere in funzione il proprio intelletto, la propria cultura e le proprie convinzioni, soprattutto in un’età come questa che fa del vaniloquio omologante la sua bandiera e il suo tratto distintivo.
    Per quanto riguarda la traduzione, il termine “letterale”, che utilizzavo a commento del tuo lavoro su Kunert, era accompagnato da un “comunque non era facile”, che voleva essere un omaggio al rispetto che avevi dimostrato nei confronti di quei versi. Purtroppo non ci si conosce, e queste sfumature difficilmente si colgono. A riprova di quanto appena detto: sono riuscito a procurarmi una copia di “Stilleben” di Kunert del 1983 (un gran libro davvero) e mi sono spaventato all’idea di dover fare anche una semplice traduzione a mio uso e consumo, tale e così stratificata è la struttura metaforica di quei testi, tali e tanti i rimandi di ogni genere che ogni singolo verso contiene.
    Ti ringrazio, comunque, per il tuo commento ai miei “commenti” in generale, anche se preferisco rimanere in ascolto (è la dimensione più consona al mio spirito) – nell’attesa che la corrente trascini alle mie rive, insieme alle sterpaglie, qualche “relitto splendente” come i versi di Kunert.
    Con stima.

  25. dai, gibril, che mi fai venire i sensi di colpa.
    Croce e delizia di spazi come NI sono le possibilità dialettiche (scambio, critica, pernacchia); chi ci entra gioca. Anch’io come te (e la gran parte di quelli che frequentano questo blog) vengo qui per resistere all’avanzata del “rincojonimento”. E in questa lotta contro la paralisi dei miei neuroni ci sono testi pesanti, stratificati, metaforici, ma anche le minchiate, la leggerezza, le macchiette (rushdie voleva essere una di queste, per eventualmente innestare altri livelli di comunicazione).
    Trovo comunque che qui (come nel “web letterario” in generale) vengano lanciate ogni tanto bordate (non sto parlando di te o del caso di questo post) che sembrano dogmi, posizioni espresse dall’alto dei pulpiti. Tutto il contrario della proposta di cultura orizzontale che il web invece metterebbe a disposizione. Forse è una questione di un bisogno intimo di pedagogia a tutti costi, di avere di fare i maestri a tutti i costi. Forse abbiamo necessità di aspettare ancora, ci vorrà del tempo per imparare a parlare differentemente fra di noi. O di far sentire, vedere il proprio nome a forza di urla. Ma se postassimo tutti nell’anonimato (non quello del nick) non farebbe meglio forse al succo dei nostri discorsi?

    P.s. (paradossale) @ gibril Appunto per quanto espresso prima volevo evitare di farne un caso personale fra me e te, poi magari di persona ci chiariamo meglio (anche sulle traduzioni)

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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