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FICTIONSCAPE. Splendori e miserie della fiction televisiva italiana #3

di Giorgio Vasta

Riprendo dopo oltre un mese la pubblicazione delle interviste di Fictionscape. Nel frattempo il mio nuovo operatore telefonico, che non nomino, ha deciso la sorte della mia connessione.

A seguire la terza e ultima parte della conversazione con Giovanna Koch, che ringrazio ancora, sullo stato della fiction italiana contemporanea.

LA SCHIENA DEL PUBBLICO

GIORGIO. Vorrei sollecitarti su un ultimo punto.
Hai fatto riferimento alle produzioni sperimentali, e a come queste siano state nel corso del tempo un luogo di verifica dei “presentimenti” narrativi degli autori, nonché una sorta di punto di osservazione sulla specifica sensibilità del pubblico in un determinato momento.


Una produzione sperimentale sarebbe allora paragonabile a quegli strumenti di misurazione della sensibilità somatica in uso in passato, quei compassi a due punte che venivano impercettibilmente divaricati sulla schiena di un paziente che aveva subito dei traumi neurofisiologici per verificarne la reattività ma soprattutto la capacità di discriminare gli stimoli (si valutava se era in grado di riconoscere due punture distinte o se ne percepiva una soltanto).

Ogni produzione sperimentale, quindi, al di là delle sue intenzioni, “punge” e stimola, e trasforma questo stimolo in patrimonio condiviso, in produzione di nuovo immaginario, più ricco e più critico, più complesso e contraddittorio.

Se le cose stanno così, mi chiedo, cosa si può dire in questo momento del “corpo” del pubblico italiano?

(E sia chiaro che non considero il pubblico un enorme ghetto al quale chi su questo ghetto riflette sarebbe estraneo. Ognuno di noi, anche gli autori, è anche pubblico – seppure penso che debba essere posta una differenza quantitativa. Ognuno di noi è anche pubblico, come si è detto, ma ognuno lo è per un tempo e in un modo diverso. C’è chi è pubblico un’ora al giorno, tre ore al giorno, mezza giornata o sempre, anche trovandosi in contesti nei quali in teoria non dovrebbe essere pubblico. Vale lo stesso ragionamento che si può fare con il “telespettatore”. Il telespettatore è anche un essere umano, ma mentre è telespettatore è soprattutto telespettatore. C’è qualcosa, un piccolo scarto, che si produce nel suo funzionamento, nella sua antropologia, nella sua ontologia. Questo scarto lo porta ad agire e a reagire in un determinato modo, che è conforme alle regole di esistenza del telespettatore ed è diverso da quello che accadrebbe se si fosse esclusivamente umani. Da telespettatore mi commuovo o rido per un tempo televisivo. Da essere umano no. E quando mi sorprendo davanti a un programma tv obiettivamente scadente con un mezzo rictus sulle labbra, una specie di sorriso inconsapevole e rigido in mezzo alla faccia, allora mi dico che anche io, come tutti, posso diventare, senza rendermene conto, senza più controllarlo, come Jekyll con Hyde, telespettatore).

Dopo questa precisazione-digressione riprendo la domanda.

Com’è fatto il corpo del pubblico televisivo italiano?

Abbiamo detto che mantiene una quota di imprevedibilità. Ma questa imprevedibilità è innestata su un organismo la cui morfologia è il risultato di tanti fattori. È un pubblico italiano – l’Italia, il paese del melodramma, come lo chiamava Bruno Barilli – che ha costruito un suo specifico immaginario, e questo immaginario prevede elementi ricorrenti ed eccezioni.

Se la committenza ha un peso, genera vincoli ma non è obbligatoriamente un ostacolo insuperabile, allora l’interlocutore fondamentale dell’autore è il pubblico. E viceversa.
Conoscerlo significa allora sapere quali storie desidera – o è abituato a – farsi raccontare. All’autore (che non è un puro, non è Prometeo e non è un santo), la scelta di assecondare le inclinazioni del pubblico e raccontargli storie inerziali, oppure quella di contraddirlo, di collidere e confliggere (senza ribellismi, per tornare al discorso di prima, ma in maniera sensata e non adolescenziale), dilatando anche di un millimetro la sua (del pubblico) sensibilità e visione delle cose.

Pungendo questa schiena, che cosa succede?

GIOVANNA. Non so proprio che dirti sul “corpo” del pubblico televisivo italiano, perché non l’ho studiato, non sono un sociologo e l’unico strumento “tecnico” che seguo è l’Auditel, termometro forse falso, ma che produce effetti concreti sui contenuti della programmazione, sulla messa in onda e sui contratti pubblicitari.
Tra i nostri committenti ci sono persone altrettanto disgustate della “melassa” che viene distribuita ai telespettatori, “melassa” che però continuano a produrre perché il pubblico sembra gradirla.
Il pubblico italiano è da sempre stato considerato un pubblico “idiota” e bisogna dire che molti dati dell’Auditel lo confermano in modo avvilente. I network utilizzano anche dei gruppi di ascolto e dei sondaggi sul gradimento di alcuni personaggi che – dal nostro punto di vista – risultano sconcertanti. Insomma, su, andiamo appresso alle partite, ai film sui santi religiosi e civili, ai reality dove si litiga e alle vicende amorose e affaristiche di personaggi improbabili che se non sono squallidi sono simpatiche macchiette.
Non è questione di cultura. Sento anche i pareri di persone amiche, professionisti, commercianti, condomini. Nessuno – ahinoi – fa caso al dialogo (e tu pensa quanta fatica noi sceneggiatori ci mettiamo…), nessuno si ricorda le storie con precisione, ma tutti citano solo un’immagine, una battuta, una scena che li ha commossi (emozionati, divertiti…) e che li ha fatti uscire dai propri problemi ed entrare nel film, serie, puntata ecc… È come se tu entrassi in un museo e ti ricordassi i cartelli di segnalazione: però dici che bello…
Penso che – chiedendo in giro – noi autori otterremmo solo motivi per suicidarci di corsa.
L’unico dato che ultimamente emerge e che in parte mi conforta (e per altra parte mi terrorizza) è che la fiction fa scuola, nel senso che diffonde informazioni che le persone prendono per vere.
Ti dicevo che considero la fiction televisiva uno stomaco che smaltisce informazioni rigide e le organizza in molecole proteiche emotive. Be’, questo va bene se l’informazione scientifica, sociale, politica c’è e fa il suo dovere. Ma se l’informazione viene affidata alla fiction che cosa può succedere? Succede quello che succedeva nel Quattrocento: il signore fa quadri che mette in mostra nelle chiese e nei palazzi per istruire il suo popolo analfabeta. O possiamo ancora arretrare, come ti dicevo per i reality, al Colosseo e ai gladiatori: giochi feroci per sopportare le spese della guerra.
Noi autori occupiamo in questa situazione (che non possiamo pretendere di controllare) un ruolo importante. Personalmente io sento una bella responsabilità a inventare poliziotti e a metterci dentro un’umanità fruibile. Siamo sempre stati accusati di mettere in scena poliziotti troppo buoni, di non raccontare gli orrori/stupidari dei commissariati, di mostrare pistole spianate e di far credere che si faccia bene a spianarle. Gli stessi poliziotti ridono del “bum bum” che noi mettiamo in scena, ma questa è una convenzione come i manti delle madonne, come l’ermellino di Innocenzo X. E ti dico che anche i detenuti ridono dei nostri cattivi: troppo perfidi, troppo amorali, troppo diabolici. A San Vittore mi hanno detto che li costringevo a stare dalla parte dei poliziotti. Ecco. Bisognerebbe fare un passo nelle psicologie singole o di massa, nei ruoli fondanti dei miti (e qualcuno lo ha fatto) per capire una lezione semplice semplice: il linguaggio della fiction assolve a una funzione pre-verbale che va dalle ninne nanne delle culle alle figurine dei presepi, alle feste popolari, ai canti di chiesa alle trombe delle bande, alle bandiere nelle piazze. Il pre-verbale non è stupido, ma se non è sorretto o discusso dalla ragione porta a comportamenti omologati, allineati, stupidi, violenti. Dunque organizzare il pre-verbale in una forma “civile”, sottilmente colta, ma apparentemente facile e rozza che possa essere riconosciuta come “bella” anche se ci si ricorda poco o nulla di quello che si è visto, è un lavoro straordinariamente importante e appassionante. E se tu ridi perché ti fanno ridere, Giorgio, ben venga: sul pre-verbale l’unico possibile controllo è la scoperta della propria stupidità e l’ammaestramento delle pulsioni.
Siamo mandrie. I furori artistici che vogliono rompere i codici e inventare stilemi e linguaggi nuovi sono tentativi personali di uscire dalla massa e ben vengano: ma spesso chiedono alla mandria di modificarsi nella loro direzione per evitare a loro la fatica di individualizzarsi, di uscire, di avere contro la massa d’urto degli altri. E per questo capita che li si abbandoni a loro stessi, li si consideri dei presuntuosi.
Dunque alla tua domanda “Pungendo questa schiena, che cosa succede?”, ti rispondo che non lo so: puoi cadere da cavallo e romperti la schiena o essere portato in trionfo. Nella schiena del pubblico c’è la storia passata e futura e ci sono esigenze vive. Ecco: non è solo mercato, ci sono anche persone e a quelle uno cerca di rivolgersi onestamente, mostrando prima la mano che vorrebbe toccarli come si fa con gli animali dei quali vuoi diventare amico. Poi ti sputano lo stesso. Ma gli operai perdono il lavoro e le madri uccidono. Se a noi ci cancellano una battuta dovremmo farne una tragedia?

Autopresentazione di Giovanna Koch
Sono nata a Roma, dove sono rimasta a vivere. Ho cominciato ad occuparmi di scrittura cinematografica sotto la guida di Leo Benvenuti, ho iniziato negli stessi anni a lavorare ai programmi culturali di Radio Uno e di Radio Tre e ho continuato per una decina d’anni a dividermi tra diversi ruoli professionali compreso un lavoro di segretaria in uno studio d’ingegneri. Ho fatto “il negro” per altri sceneggiatori, ho passato un’estate in Nicaragua per scrivere di Sandino prima che il Sandinismo cadesse, ho scritto sit-com dolciastre per ragazzine e testi di documentari, ho firmato la sceneggiatura del film di Stefano Vicario “Sottovento!” per il cinema e molte sceneggiature per la televisione, tra cui due tv movie (una commedia e un giallo) e un buon numero di puntate del seriale “La Squadra”. Ultimamente ho firmato il soggetto di serie della sit-com “Belli dentro”, in collaborazione con i detenuti della redazione de Il due di San Vittore, dovrebbe uscire un giallo su Raidue e mi sto occupando della scrittura di un nuovo poliziesco per Mediaset con il ruolo di soggettista e di head-writer. Spero di fare altro e di continuare.

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26 Commenti

  1. Ottima la precisazione tra parentesi, che risponde al dubbio fondamentale che mi era sorto leggendo il precedente intervento. C’è sicuramente del vero, la quota di automatismo (innato e acquisito, nei suoi diversi livelli di sedimentazione) presente nei nostri comportamenti (tra cui il pensiero) è impressionante – anzi lo stato di “autocoscienza critica” può essere visto come un momento relativamente breve, faticoso e forse anche “innaturale”, da richiamarsi con una certa parsimonia. Dunque questa “entomologia del pubblico” riguarderebbe questa quota quasi meccanica dei nostri comportamenti? Beh, direi che messa così va molto meglio: si tratta proprio della parte che più ragionevolmente può essere “oggettivata” dall’esterno – preservando al contempo quel nucleo di inattingibilità, per quanto intermittente, che Vasta significativamente chiama “essere umano”.

  2. E’ incredibile come, in effetti, tutti sembrino arci stufi delle melassate e delle cretinerie da reality e da soap opera (ma stanno ancora facendo Beautiful?) e poi, se sei in ufficio e scambi due chiacchiere sui programmi televisi, non c’è nessuno che non sappia che Ferrini voleva toccare la tetta finta della David. Alla fine credo che per quanto vogliamo inorridire di fronte a certe proposte televisive, gli indici di ascolto fanno la loro parte e dicono che Elisa di Rivombrosa sta al top.
    Per fortuna esistono le tv a pagamento

  3. @smaniz
    Come, per fortuna esistono le tv a pagamento?????!!!!!????
    Non è certo un caso se la televisione aggratis è stata ridotta in queste condizioni;-)
    E non tirate fuori la storia, propagandistica (e infatti oggi è stata abbandonata) del furto dell’abbonamento perchè oggi vedersi un filmetto decente o anche solo una partitina costa una vera cifra.
    georgia

  4. Mi colpisce l’osservazione che la fiction televisiva è “uno stomaco che smaltisce informazioni rigide e le organizza in molecole proteiche emotive”.
    Credo che sia vera e molto precisa, anche se il successivo, insistito paragone con l’arte della Contro-Riforma non è calzante, non quadra, non c’entra nulla in pratica.
    Davanti alla tv di oggi occorre strumentarsi diversamente e non cercare pezze d’appoggio in ciò che non si è e non si può essere: la ”verità” di Velasquez su Innocenzo X è ancora lì, vivissima.
    Il contrario della falsità televisiva: persuadere per verità è diverso che persuadere per menzogna.
    Giovanna sembra molto indecisa nel precisare il suo ruolo di persuasore occulto, che è tutto lì, nello smaltire la NOZIONE per presentarla sotto forma di EMOZIONE, indipendentemente dalla sua eventuale verità (qui sta una delle infinite differenze con Velasquez).
    Lo scopo è provocare in un numero più ampio possibile di persone sedute davanti alla tv il rictus di cui parla Giorgio Vasta, che anche il sotto-scritto, se può interessare, sovente sorprende sul suo volto: segno che la nozione è passata, che si è trasformata in emozione, fissandosi meglio nei sistemi neuronali atti a contenere/trattenere la doxa.
    Perché la partita è tutta lì.
    Lì è il campo di battaglia: la doxa, l’opinione, cioè quel coacervo di ratio emozionata che ci fa preferire questa o quella formazione politica oltre il nostro stesso interesse, che ci fa comprare questo invece di quello, eccetera: ottonovedue-ottonovedue.
    Non voglio con questo affermare che i telespettatori siano TUTTI un branco di deficienti eterodiretti, ma che è tale solo una PARTE minoritaria dei telespettatori, la più esposta, ma anche quella che può risultare politicamente decisiva.
    Giovanna non parla di ideologia: non ho mai visto la fiction con la polizia, ma sono arci sicuro che gronda ideologia da ogni videogramma, da ogni quantum di dialogo.
    Tutto serve a colpirci e invaderci quando siamo seduti davanti alla tv e momentaneamente indifesi, perché la tv, come afferma Foster Wallace, tira fuori, naturalmente, la parte peggiore di noi, quella più corriva e indulgente, quella più stanca e satura del reale, sempre più insopportabile e inguardabile, che si rifugia lì a leccarsi le ferite di ogni giorno.
    Proprio in quel momento arriva Giovanna e i suoi poliziotti, trova difese indebolite, e si insinua facilmente nel DNA di ciascuno usando l’emozione come veicolo, come super-conduttore.
    Ottima, Giorgio & Giovanna, questa serie di riflessioni televisive.

  5. questo è il Tashtego che adoro
    effeffe
    ps
    una domanda per Giorgio & Giovanna però ce l’avrei. tralasciamo la questione dell’alimentaire (lo dicono a Parigi per i lavori di sostentamento) però come parlare serenamente del mostro accettando l’idea di esserne in qualche modo- insieme a tantissima gente- l’autore?Mi ricorda un amico che un secolo fa sorpresi a spacciare eroina – lo shock fu immenso- e che mi guardò dicendo: mah in fondo se non lo faccio io lo fa qualcun altro e poi io non la taglio. Comunque la Televisione come altre cose è un mostro in via d’estinzione…

  6. Sì sì, certo, però – resi tutti quanti contenti e rilassati dalla fin troppo meccanica esecrazione di coloro che non sono in condizione di portare a compimento tutte le proprie potenzialità umane (ovvero il popolo bue, quel “popolino” che votando va a combinare i suoi prevedibili guasti) si è perso un po’ di vista il lato più inquietante della faccenda: quanto saremo noi, a nostra volta, “spettatori” identici ma soltanto appollaiati un pochino più in alto, vittime di “fiction” soltanto un po’ più complicate? Quel “rictus” non è forse facilmente rinvenibile anche nei segmenti di discorso che continuamente ingeriamo, metamorfizziamo, e rimettiamo in circolo, senza avere mai la minima coscienza di ciò che stiamo realmente facendo?

    Dice il mio caro Minsky: “Certainly we know a bit about the obvious processes of reason–the ways we organize and represent ideas we get. But whence come those ideas that so conveniently fill these envelopes of order? A poverty of language shows how little this concerns us: we “get” ideas; they “come” to us; we are ‘re-minded of” them. I think this shows that ideas come from processes obscured from us and with which our surface thoughts are almost uninvolved. Instead, we are entranced with our emotions, which are so easily observed in others and ourselves.”

    E l’altrettanto caro Bateson: “Nella teoria freudiana classica si riteneva che i sogni fossero un prodotto secondario creato dal ‘meccanismo onirico’. Si supponeva che il materiale inaccettabile per il pensiero conscio venisse tradotto nel linguaggio metaforico del processo primario per evitare il risveglio del sognatore. E ciò può valere per quelle informazioni che sono trattenute nell’inconscio dal processo di rimozione. Come si è visto, tuttavia, molti altri generi d’informazione sono inaccessibili all’ispezione conscia, compresa la maggior parte dei fondamenti dell’interazione tra i mammiferi. A me sembra ragionevole pensare che questi elementi esistano “primariamente” nell’idioma del processo primario, solo che essi sono difficilmente traducibili in termini “razionali”. In altre parole, io credo che buona parte delle prime teorie freudiane fossero capovolte. A quel tempo, molti pensatori consideravano normale e ovvia la ragione conscia, mentre l’inconscio era considerato misterioso, bisognoso di prova e spiegazione. La spiegazione era data dalla rimozione, e l’inconscio veniva riempito da pensieri che avrebbero potuto essere consci, ma che la rimozione e il meccanismo onirico avevano distorto. Oggi riteniamo misteriosa la coscienza, mentre i metodi di computazione impiegati dall’inconscio, ad esempio il processo primario, li riteniamo continuamente attivi, necessari e onnicomprensivi.”

  7. Il generatore di discorsi postmoderni ( vedi un esempio qui http://www.elsewhere.org/pomo ) mi pare sia già stato utilizzato ultimamente in bacheca, senza provocare grande sconcerto. Non vi è mai sorto il sospetto di non essere altro che una versione molto avanzata di un “meccanismo” essenzialmente analogo?

  8. non ho tempo wovo, ma credo che tu abbia ragione: ciascuno di noi, anche di quelli che non guardano la tv, è fatto più o meno parzialmente di “materiale televisivo”, vale a dire di ciò che la televisione ci ha indotto, volenti o nolenti, direttamente o indirettamente, a condividere.
    e a consentire.

  9. Queste schegge di pensiero specializziato che tu fai deflagrare nella conversazione mi fanno desiderare che diventiamo un po’ più anglosassoni e divulghiamo, Wowoka, non potresti mettere maggiormente in evidenza i nessi per una come me?

    Tra l’altro io sono per alcune cose assolutamente bue, ed esecrare i miei simili mi imbarazzerebbe.

  10. Lasciando perdere l’esecrazione dell’esecrazione iniziale (che era solo “retorica” che mi serviva per carburare un po’ in avvio) – ciò che volevo suggerire attraverso le citazioni è che non disponiamo di un punto d’appoggio (ovvero di una “trasparenza” a noi stessi) tale da poterci esentare da quella stessa “demistificazione” che si era operata nei confronti dei telespettatori. Una specie di vertigine …

  11. @wovoka
    andiamo sul concreto.
    il dato di fondo col quale occorre fare i conti, al di là di ogni de-mistificazione, è riportato in diversi testi di Tullio De Mauro, il quale afferma che quasi il 75% degli italiani non legge MAI né un libro né un giornale.
    tuttavia quest’altissima percentuale di persone che fa a meno della parola scritta, vota lo stesso, partecipa alle elezioni.
    bene: se ciò è vero, da quale fonte questa gente trae gli elementi di cui tutti abbiamo bisogno per la formazione delle opinioni politiche che poi ci guideranno al momento del voto?
    risposta: dalla tv.
    ecco perché la tv è così importante.
    e all’interno della tv non è certamente il rito del “telegiornale” il principale formatore delle coscienze, ma è la fiction.
    cioè è tutto ciò che, rivestito di emozione e tramite questa, passa direttamente nella coscienza senza passare per la mente.
    la funzione principale della tv nello stadio attuale delle democrazie occidentali è questa e ciò si può affermare senza bisogno di scovare “trasparenze a noi stessi”.

  12. Ok, osservo però che il mio discorso era collaterale, e non si opponeva affatto al tuo. E’ giusto, è pragmatico, è una triste necessità controllare la dieta mentale dei dominati, per evitare loro le intossicazioni più grossolane. Mi chiedevo se fosse altrettanto chiara l’opportunità di dare un’occhiata alla dieta mentale dei dominanti, per evitare di cadere (noi tutti) vittime di intossicazioni assai più sottili. Ma convengo che nel mio discorso ci fosse annidata parecchia presunzione: è proprio così, io presumo di poter pensare autonomamente, e di farmene un baffo dei tranelli annidati dentro qualsiasi “fiction”.

  13. questi due ultimi giorni di NI mi hanno appassionato a tal punto che ho trascurato le cose che faccio, con piacere, per vivere.
    dunque devo essere giocoforza breve.

    io non mi considero un dominante, ma un dominato, al pari della sceneggiatrice Giovanna, dello scrittore Vasta e di quant’altri bazzicano questo ed altri luoghi, webbici o reali che siano.
    nella mia forse schematica visione del mondo attuale vedo rafforzarsi delle oligarchie quasi invisibili, legate tra loro da relazioni segrete che si possono solo desumere dai fatti, ma mai “vedere”, oligarchie soprattutto econimiche che agiscono a tutti i livelli e di cui politica, cultura, fiction e informazione, tv compresa, sono emanazione pressoché diretta.
    lo scopo di queste oligarchie che agiscono a scala ormai planetaria non può essere altro dall’accumulazione di capitale & potere, in reciproca esclusiva devozione.
    se questo quadro corrisponde alla realtà, come io credo, allora è in atto un processo di asservimento mentale di tutti noi, per farci aderire ai paradigmi più convenienti a questo sistema di poteri, di cui la tv è elemento per adesso essenziale.
    alcuni di noi, più o meno conspevolmente (io sono tra questi), lavorano in modo attivo alla riuscita di questo processo, altri ne sono semplicemente l’oggetto, l’obbiettivo.
    naturalmente questo è solo un modello semplificato di realtà: la realtà è senz’altro più complessa, le prospettive non così chiuse, la gente in fondo è attenta.

  14. Senza voler dare a questo termine la minima connotazione lusinghiera, io suppongo che noi, in questo spazio, siamo degli (o meglio, meno ontologicamente, tentiamo di fare gli) “intellettuali” – magari di serie C, o di interregionale, promozione o semplici “amatori”, non importa. Ciò che importa è che siamo dominati economicamente e dominanti simbolicamente, ovvero abbiamo tutti gli strumenti necessari per opporci ad ogni tipo di propaganda ed inculcamento (anche grazie a questa nostra possibilità di “incrociare” i punti di vista, “affilandoli” reciprocamente) e dunque spesso in grado di arrangiarci un po’ meglio da un punto di vista personale, ma quasi sempre nessun potere reale oltre questa sfera. Questo ci mette anche in una posizione di fondamentale ambiguità, tra le spinte alla solidarietà con i più sfortunati e le tentazioni di cooptazione con gli “happy few”, la tentazione di rifugiarci in qualche dominio astratto chiudendo gli occhi sulla natura e sui limiti di questo nostro privilegio. Perché forse avvertiamo che questo sarebbe un peso troppo grave per le nostre spalle.

  15. Wowo, per carità, che cosa intendi tu per intellettuale? Noi “qui” abbiamo le idee piuttosto confuse al riguardo e lo schema condivisibile che dà tash si allarga a raggera o più graziosamente a tela di ragno riproponendosi tale e quale anche qui, dove in apparenza la “quota capitale” sembrerebbe esclusa.
    Credo di averlo già detto, ma lo ridico, io, per quanto riguarda me e me sola, faccio con frustrazione quello che si fa in montagna quando nevica, spazzo davanti alla mia porta di casa, ma non faccio altro che spostare la neve un po’ più in là. Perché continuo a farlo? In parte perché altrimenti non potrei più uscire a comprare il pane, in parte per una vecchia abitudine a fare ogni mattina il mio lavoro, in parte perché una nascosta e minoritaria parte di me spera che prima o poi arrivi il disgelo.

  16. Cara Temperanza, la tua domanda è seria e tenterò di risponderti onestamente proprio evitando di fingere che si tratti di “farina del mio sacco”. Personalmente, pur coltivando un’ampia gamma di rapporti (dall’odio all’amore totale) verso determinati autori, per alcuni di essi, almeno su determinati argomenti, devo cedere all’accusa di “pendere” dalle loro labbra: li trovo cioè da una parte assolutamente illuminanti, ma dall’altra so di non avere la competenza necessaria per metterli globalmente sotto discussione critica (forse un rapporto non ideale, ma tant’è, in rarissimi casi lo posso anche accettare – senza per questo accettare il discorso dei giganti e dei nani, ma non divaghiamo) e questo è il caso di Bourdieu e della sua sociologia, che ho tentato di introdurre qui su N.I. “ad nauseam”, ed al quale faccio sempre implicitamente riferimento nei miei discorsi su questo tipo di argomenti (dubitando peraltro sul fatto di potere, con questo, risultare utile “alla causa” – forse sono un pasticcione, lo dico senza alcuna “captatio benevolentiae”).
    Ti metto allora direttamente in contatto, con il solo fine di stuzzicare la tua curiosità verso determinati studi, con alcune delle mie fonti su questo tema. Non stavolta con Bourdieu stesso, a volte troppo denso per delle citazioni in questo spazio, ma con un suo accettabile “intermediario” come Marco D’Eramo (dalla sua prefazione al libretto di Bourdieu “Campo del potere e campo intellettuale”):

    Il problema degli intellettuali è che – a differenza di altre figure sociali – il discorso sugli intellettuali è monopolio degli intellettuali stessi. E questa è forse la ragione per cui ci sono tanti convegni sul ruolo degli intellettuali mentre ce ne sono così pochi sul ruolo dei pasticcieri. Per questo poi è più frequente la domanda “Cosa deve essere un intellettuale?”, mentre è così rara la domanda “Come e perché una persona diventa intellettuale?”. Inoltre, il monopolio intellettuale del discorso su di sé fa sì che il prodotto del lavoro intellettuale venga considerato come pura creazione “ab nihilo”, prodotto disinteressato di una vocazione, di una chiamata, di una missione. In breve, l’intellettuale e il suo lavoro sono considerati come “chiedono” di essere visti, svincolati dalla loro “esistenza sociale”, cioè “situati e datati, posti in una struttura sociale di cui portano i segni”.
    Ma non è casuale questa sorta di angelicità, d’incorporea gratuità che gli intellettuali si assegnano, poiché è ambigua la loro posizione, rispetto alla struttura di classe e al campo del potere. Da un lato gli intellettuali, e in particolare “gli scrittori e gli artisti si trovano in una posizione di dipendenza materiale e d’impotenza politica rispetto alle frazioni dominanti della borghesia, da cui provengono e di cui in maggioranza fanno parte per le loro relazioni familiari e conoscenze, o almeno per il loro stile di vita: anche nelle categorie più sprovvedute dell’intellighentsia proletaroide, condannata alla vita di bohème nelle sue forme meno elettive, lo stile di vita è infinitamente più vicino a quello della borghesia che a quello delle classi medie. Di conseguenza, gli scrittori e gli artisti costituiscono, almeno a partire dal romanticismo, una frazione dominata della classe dominante, che in ragione di questa sua posizione strutturalmente ambigua è portata a mantenere una relazione ambivalente sia con le frazioni dominanti della classe dominante (i borghesi) sia con le classi dominate (il popolo), e a farsi un’immagine ambivalente della propria posizione sociale.”

    Ah, poi aggiungo che, da un punto di vista strettamente formale, io sono un artista (ho esposto in una galleria d’arte debitamente registrata alla camera di commercio) e dunque, come si può anche desumere dal brano sopra riportato, un intellettuale! E penso che questo discorso autolegittimante possa essere esteso a parecchi dei frequentatori di questo spazio. Se qualcuno può avanzare dei criteri alternativi (ovviamente più esclusivi) lo faccia sono tutt’or .. beh, tutt’occhi!

    @magda: non preoccuparti dai, il mio è fuoco di paglia :-) e poi oggi sono in sciopero (gli informatici sono metalmeccanici, per chi non lo sapesse) quindi posso debordare un po’.

  17. @Wowo

    “gli scrittori e gli artisti si trovano in una posizione di dipendenza materiale e d’impotenza politica rispetto alle frazioni dominanti della borghesia, da cui provengono e di cui in maggioranza fanno parte per le loro relazioni familiari e conoscenze, o almeno per il loro stile di vita: anche nelle categorie più sprovvedute dell’intellighentsia proletaroide, condannata alla vita di bohème nelle sue forme meno elettive, lo stile di vita è infinitamente più vicino a quello della borghesia che a quello delle classi medie. Di conseguenza, gli scrittori e gli artisti costituiscono, almeno a partire dal romanticismo, UNA FRAZIONE DOMINATA DELLA CLASSE DOMINANTE, che in ragione di questa sua posizione strutturalmente ambigua è portata a mantenere una relazione ambivalente sia con le frazioni dominanti della classe dominante (i borghesi) sia con le classi dominate (il popolo), e a farsi un’immagine ambivalente della propria posizione sociale.”

    SACROSANTO

    Ed è per questo che le anime belle intellettuali mi danno una tale irritazione da spingermi a volte al sarcasmo.

    E tornando invece a Bourdieu, lui dice, riferito in questo caso ai sociologi, ma allargabile a molte altre categorie (Lezione sulla lezione, marietti, 1991):

    “E, certo perché hanno, come tutti, un bisogno troppo profondo dell’illusione della missione sociale per confessare a se stessi ciò che ne è il principio, essi fanno fatica a scoprire l’effettivo fondamento dell’esorbitante potere che viene esercitato da tutte le sanzioni sociali di ciò che fa sentire importanti, tutti i balocchi simbolici, le decorazioni, le croci, le medaglie, le palme o i nastri, ma anche tutti i supporti sociali dell’ “illusio” vitale, missioni, funzioni e vocazioni, mandati, ministeri e magisteri.”

    Ma non è un discorso autolegittimante quello che tu citi, (sempre che tu ti riferissi a Marco D’eramo e non alle tue stesse parole) è un discorso che invita alla diffidenza verso le proprie illusioni.

    Non credo che esistano criteri alternativi: praticare la critica e l’autocritica come si può e sapendo che è sempre viziata, e “fare come se”.

  18. La questione del “ruolo degli intellettuali” oggi, forse va vista fuori dai termini della loro tradizionale funzione di supporto sovra-strutturale della società capitalistica.
    Forse oggi sono più importanti di un tempo.
    Gli intellettuali non sono i cani sciolti che si vedono qui a nazione indiana.
    O meglio non solo questi.
    Gli intellettuali sono essenzialmente annidati nelle loro istituzioni, delle quali la più importante è stata fino adesso l’Università + i vari istituti di ricerca.
    L’Università svolge ufficialmente principale funzione intellettuale che consiste nella copertura tecnico-culturale alle intenzioni e alle volontà della politica.
    Dall’altro lato, cioè da quello del capitale, l’intellettuale serve ad organizzare con ogni mezzo l’implementazione del capitale, la produzione di beni e ricchezze.
    Per ogni decisione economica e politica c’è una copertura intellettuale e tecnica.
    In questo quadro gli artisti e gli scrittori e i filosofi eccetera, possono avere una funzione (vedi la tranche finale di un filosofo come Lucio Colletti), ma senza copertura accademica sarà sempre di margine.
    Rilevante rispetto a questo discorso è l’eccezione degli intellettuali addetti all’informazione e all’affabulazione, vale dire alla Grande narrazione Quotidiana (tv cinema stampa libri): costoro non si pongono come copertura a questa o quella operazione tecnica o politica, ma si occupano direttamente dell’Immagine del Mondo presso le masse.
    In questo senso sono intellettualità direttamente esecutiva, che cioè non serve come conforto all’azione di altri soggetti, ma agisce direttamente senza mediazioni.
    Però i dominanti in genere non sono in grado di valutare la qualità di un prodotto intellettuale, perché se no sarebbero a loro volta intellettuali, quindi delegano a questo scopo l’Accademia.
    L’Accademia fornisce tutto: politici a tempo determinato, tecnici esecutivi, coperture di ogni tipo, garanzie di qualità che nessuno può davvero contestare, eccetera.
    L’Accademia si pone in effetti come garante e consigliera della politica e dell’economia: questi qui sono i veri intellettuali organici.
    Sono moltissimi e quasi tutti operano senza troppo clamore.
    Per ogni Pasolini nascono diecimila intellettuali di questo tipo.
    Ci sarebbero una quantità di cose da dire.
    Dirò solo che gli artisti tendo a non considerarli intellettuali in senso proprio.

  19. La funzione dell’intellettuale “senza copertura accademica sarà sempre di margine” Sottoscrivo per esperienza personale.

    “Dirò solo che gli artisti tendo a non considerarli intellettuali in senso proprio.” Sottoscrivo anche qui.

    In realtà condivido quasi alla lettera (dico “quasi” perché non voglio tornar su a rileggere, ma è un “quasi” solo formale) tutto il pezzo di Tash.

    Del ruolo dell’università bisognerebbe parlare molto qui, l’avevo chiesto mesi fa, ma l’universitario è muto finché non è ordinario, e una volta ordinario è muto perché è mutato. Salvo poche eccezioni che non fanno testo.

  20. Prima di riflettere sugli interventi, preciso per Temperanza: “l’autolegittimante” era riferito esclusivamente al mio modo di considerarmi “parte in causa” (lo stesso di “Asterix alle Olimpiadi:”
    Druido: mi dispiace Asterix, ma i Giochi Olimpici sono riservati a Greci e Romani”. Asterix: “Ma … per Toutatis, NOI SIAMO ROMANI!!!”)

  21. Eccomi. Trovo la tua visione, Tashtego, un po’ troppo simmetrica e ben bilanciata, più un desiderio d’ordine mentale che non la “struttura profonda” di una realtà che io vedo molto più caotica, molto più ciecamente evolutiva (e l’evoluzione, si sa, è una rete a strascico sugli accidenti della storia), e dunque anche più “aperta” alle storie di quanto quella concezione tecnocratica, razionale ma piuttosto soffocante, implicherebbe. Certo, se “i luoghi” dell’intellettualità dovessero essere soltanto quelli istituzionali, il numero di menti confuse da mettere d’accordo precipiterebbe, la babele si placherebbe e la gente andrebbe al lavoro piena di “amor fati” … Bisogna però considerare che l’umanità è un esperimento aperto, e noi forse stiamo già maneggiando – proprio qui su Internet – una certa nitroglicerina culturale. Forse sì, forse no, chissà, però è possibile che l’allargamento dell’istruzione, una relativa disponibilità di tempo libero, e soprattutto l’innalzamento qualitativo delle interazioni, renda via via la “differenza” tra coloro che occupano quei pochi posti “istituzionali”, ed i tanti che ne sono esclusi, sempre più opinabile, sempre più fondata sui “modi” piuttosto che sulla sostanza, per lo meno in determinate discipline (che potrebbero magari avere esaurito certi margini di crescita – ad ognuno ignoti – ed essere già lì in mera autoperpetuazione: è l’idea che mi ha suggerito il testo di Venturi, se questi sono i nuovi, meglio soffermarsi maggiormente su Gombrich). In altre parole, siccome tutte queste definizioni sono oggetto, come ben svela Bourdieu, di una lotta continua, il minimo che si possa fare è ingaggiarla senza complessi. Il mio dichiararmi intellettuale perché artista era una provocazione a fronte di una definizione evidentemente inesistente: io aspetto sempre che qualche “intellettuale vero” venga a ridicolizzare i miei ragionamenti – riderò anch’io di gusto, ma finché non succede semplicemente non crederò ad una simile eventualità (questo non vuol dire che io consideri “intellettuali” tutti i materiali che riverso su Internet – questo dei commenti lo considero uno spazio informale, di contenuti semidigeriti, o anche di rigurgiti spaventosi, di abbozzi non sempre riusciti, ma anche di consapevoli cazzate).
    Ma credo che nella tua visione, neppure un Pasolini avrebbe avuto in fondo diritto alla parola, ed infatti qualche mediocre molto “patentato” potrebbe sempre dire che “Di fronte a una realtà che sgomenta con lo spalancarsi di problemi sempre più vertiginosamente interconnessi, Pasolini offre malgré lui ai ceti medi la sicurezza che il mondo si possa capire usando categorie diffuse e quasi intuitive, che di tutto si possa discutere senza uscire dalla propria cultura liceale”.
    Ma basta così per oggi. Reggete pure lo strascico ai burocrati delle Accademie, e fatevi “piccoli piccoli”, se proprio lo volete.

  22. @Temp & Tash: mi raccomando, non prendetevela a male per quel finale: si trattava di un’immagine “forzata” e non rivolta a voi come persone ma ad una posizione astratta immaginata proiettando dei contenuti ulteriori su alcuni punti delle vostre – che ovviamente non mi sono note nella loro integrità. Con un mezzo di comunicazione parziale come questo, non si può personalizzare, e la nostra rimane sostanzialmente una recita, anche se creativa e spesso divertente. Ciao

  23. Individuare una categoria di intellettuali organici al sistema, non significa perciò stesso reggere loro lo strascico.
    “Complessità” è da tempo una paroletta magica con la quale si può tranquillamente e del tutto legittimamente liquidare qualsiasi tipo di analisi che provi a dipanare una qualsiasi matassa.
    Ogni pensiero ha un suo “grado di risoluzione”, una “grana” più o meno grossa secondo la quale si dispiega: fatalmente esistono per ogni argomento grane più fini.
    Dunque prego, si accomodi.

  24. D’accordo Tash, e poi sull’esigenza di sintesi ti eri già ben spiegato. A me premeva spiegarti che talvolta, dalle connotazioni di un testo, possono emergere delle configurazioni interessanti che magari ci offrono il destro di “scaricare” qualche “tensione” retorica latente nel nostro discorso. In parole povere, opera implicitamente un meccanismo di questo tipo “Tashtego non avrà certo inteso questo, però se uno intendesse questo gli risponderei che …”. Solo mi dispiacerebbe che questo offendesse l’interlocutore, perché questo mio è certamente un modo arbitrario di intendere il gioco, anche se in fondo ispirato a principi di economia espressiva analoghi (o omologhi) ai tuoi.

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