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Umma di Gallarate

di Helena Janeczek

islam

3) Preghiera del venerdì fra Piazza Liberta e Via Verdi, 2. settembre 2005, ore 12.30

Intorno a metà mattina arrivano le transenne a delimitare lo spazio assurdo che va dal angolo del palazzo del comune fino davanti al campanile romanico della basilica di Santa Maria Assunta, poi i cinque rotoli di passatoie rosse poste per terra una accanto all’altra- le stesse usate per le solennità ecclesiastiche- poi gli agenti e qualche macchina della polizia.
Verso le undici c’è chi si apposta col microfono accanto all’edicola per registrare la voce di almeno uno straccio di cittadinanza, ma quando iniziano a spuntare i primi musulmani è già sparito. Il giornale locale, “La Prealpina”, annuncia in prima pagina la preghiera di protesta della comunità islamica contro la chiusura della moschea, mentre il Corriere del giorno prima presenta un articolo sulle indagini su una macelleria nello stesso rione.
Dopo settimane di temporali è ritornata un’afa pesante, ma il vuoto in piazza potrebbe anche essere dovuto a un incompleto rientro dalle vacanze o a una prima ripresa delle fughe per il weekend.
Quando mi riavvio verso casa con il giornale e un po’ di spesa, sola, perché il bambino che non ha ancora ripreso l’asilo è a spasso con la nonna, incontro un’amica dolce e triste, vedova e madre di un ragazzino, che mi dice di essere passata a vedere quel che succede, non tanto loro di cui infatti non si vedono più di quattro gatti dentro allo spazio transennato, ma l’aria che tira.
– Non c’è ancora in giro quasi nessuno, come fai a stabilire che aria tira- ribatto pur vedendo che non serve a attenuare l’espressione crucciata più del solito sul suo viso bello e troppo magro.
– Guarda, mi sa che qui ormai sono tutti d’accordo.-
Come al solito è di fretta, rimanda a un’altra volta il caffé, lo promette mentre ci baciamo sulle guance.
-Luciana, saalam aleikum – esclamo quando lei si è già avviata, con voce lievemente troppo alta che le strappa un sorriso imbarazzato, ma soltanto per metà.

Rientrata nella casa vuota dalla piazza vuota, mi accorgo di un vuoto corrispondente nella mia testa: questa storia della moschea sta andando avanti da anni e anni, ma gli unici punti di riferimento che riesco a trovare sono le mail del coordinamento Pace & Solidarietà che mi informano dello sgombero avvenuto quando ero in vacanza e delle relative iniziative organizzate in seguito, più la bozza per un appello “della società civile” che avevo scritto e spedito in data 14.9.2003.

Cara Olivia,

eccoti la bozza. Parlane con gli altri, aggiungi, taglia e modifica come ti pare.
Per quel che riguarda tutta la vicenda della moschea e dell’imam rispetto a come è stata riportata sulla stampa, voglio chiederti/vi una cosa prima che comincio a sentire in giro se c’è chi ha voglia di ritirarla fuori. Voi avete una rassegna stampa?
Ovvero è possibile verificare che cosa sia stato scritto esattamente da chi in quei giorni?
Credo che se le cose che tu mi dici fossero state riportate solo sulla “Prealpina” come una versione dei fatti diffusa da voi e magari dai legali dell’imam, ci sarebbe spazio per qualche resoconto di “controinformazione”.
Sentiamoci comunque presto.

Un abbraccio

Helena

Ecco cos’era: mi ero dimenticata dell’imam. O meglio: non mi ero dimenticata dell’imam di Gallarate arrestato, indagato per terrorismo, accusato di collusione con alcuni membri della cellula quedista sgominata due anni prima, diventato caso nazionale, sbattuto in prima pagina e mostrato a più riprese nei tiggì, no, e come avrei potuto, ma l’avevo scorporato dalla vicenda della moschea. Mi ero dimenticata che mentre scrivendo invocavo la libertà di culto, la “nostra Costituzione”, i valori fondamentali della nostra civiltà occidentale –sì, testuale- mi fossi alzata dalla scrivania per andare a cercare dove fosse finita la minuscola Stella di Davide che mio padre mi comprò in Israele quando avevo tredici anni, questa stella che non porto mai al collo, tantomeno adesso, e che dopo averla toccata mi fossi rimessa a scrivere con un senso di assurdo pari al senso di necessità. Perché già allora, a metà settembre, Olivia Pastorelli al telefono deve avermi detto che l’accusa di terrorismo non era mai stata formulata dalla magistratura e che anche quella più circoscritta di “associazione a delinquere finalizzata al supporto logistico e finanziario di una cellula – vicina alla rete di Al Quaeda – del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento”(La Prealpina, 3.1.2004) pareva non reggere all’esame. E io devo aver risposto alla mia compagna di studi laureata con centodieci e lode e una tesi su Martin Buber, “senti, Olivia, l’imam fa l’imam, sostiene i suoi fratelli,”, con allusione, magari, a quei preti che aiutarono per contrastarli o contenerli coloro che negli anni settanta si avvicinarono alla lotta armata, probabilmente dichiarando che bisognava smetterla di essere così stolidi, così infantili, così fottuttamente speculari al pensiero dominante da voler sempre soltanto stabilire chi sono i buoni e chi i cattivi, perché qui ormai è tutto un casino, un gran casino pieno di zone grigie, e finché c’è il grigio, finché il grigio resiste, c’è speranza.
Il 22 gennaio 2004 l’imam Mohamed el Mahfoudi è stato condannato a un anno e quattro mesi con la condizionale per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per nient’altro. Ma questo non l’ha detto nessun telegiornale.

Alle dodici torno a vedere, perché Luciana mi ha detto che dovrebbero cominciare verso quell’ora e anche che avrebbero voluto piazzarsi proprio davanti a Palazzo Borghi, cioè al comune, ma il sindaco avrebbe detto no, mentre il prevosto a quel punto avrebbe offerto che si spostassero di venti metri più in là dalla sua parte, cosa che spiegherebbe l’immagine seguente: il rosso per terra ormai quasi del tutto riempito dagli inginocchiati, alcune teste coperte da zuccotti di varia provenienza e fattura, alcune teste pure di bambini, un su e giù asincronico di busti in attesa o in preghiera- dentro il recinto, all’ombra del campanile, anzi in direzione del campanile e della basilica di Santa Maria Assunta che pare coincidere con la Qabah. Muti. Completamente muti.
Una decina di giornalisti e fotografi sui gradini più vicini del sagrato, da dove guardare in basso lo spazio transennato fa un effetto da anfiteatro. Ma loro si siedono e si alzano per fare le loro cose, parlarsi, aspettare.
Mi accendo una sigaretta sul mio gradino in disparte, solissima, imbarazzata. Dopo non potrò fare a meno di notare che nel gruppo dei giornalisti fumano solo le donne, fra cui una bionda su tacchi altissimi e un cinturino zippato alla caviglia in stile bondage. Non so a chi poter chiedere qualcosa, se andrà avanti così a scena muta, magari perché per altro non è stato dato il permesso. Non c’è nessuno che conosca, le sorelle Pastorelli o altri del coordinamento Pace & Solidarietà, sempre le stesse facce, e ormai capisco che non verranno più. Ma solo quando capto che la preghiera dovrà iniziare alle dodici e mezza, mi sento libera di alzarmi.
Dietro, in piedi sul acciottolato, a distanza, un gruppo di donne gallaratesi fra cui Olga, l’amica della bielorussa, una stangona che fa lavori interinali che richiedono bella presenza come le promozioni negli ipermercati. La sento ripetere premettendo “anch’io sono straniera” esattamente quel che dicono le altre, quel che dicono tutti, tutti che però rimangono pochissimi a causa dell’orario, dell’afa sempre più insopportabile, del costume a farsi i fatti propri, della paura implicita in ogni posizione o movimento.
Qualcuno arriva in bicicletta e non scende dalla bici: caricatura di un monumento equestre. Qualcuno passa e guarda indietro solo un istante o tira dritto con troppa rigidità.
Le passatoie sono ormai completamente ricoperte, ma loro continuano ad affluire, alcuni si portano appresso tappeti propri. L’imam, sempre lo stesso, è in piedi con qualche funzionario religioso, mentre prende posto tra i fedeli il rappresentante della comunità che aveva parlato con i giornalisti, il solo che indossi giacca e cravatta pur conservando una notevole somiglianza con il gran visir cattivo di un fumetto popolare della mia infanzia.

“Esh-hedu en la ilahe il-Allah we esh-hedu enne Muhammed-en abduhu we resuluhu“.

Dal megafono che l’imam regge davanti alla sua barba irrompe il primo pilastro dell’islam- io testimonio che non vi è Dio al infuori di Allah e che Maometto è il suo profeta- con il potere di accordare i corpi e le labbra dietro alle transenne, i neri del Senegal con i due o tre bianchi albanesi sparsi in mezzo alla maggioranza marocchina e pakistana, anche se per il resto della preghiera i movimenti e le parole mormorate riprendono a distaccarsi.
Nella sua povera e sgraziata amplificazione la voce dell’imam sembra spazzare la piazza- non riempirla, non invaderla, ma al contrario misurarne il vuoto- mentre
la facciata della chiesa appena ristrutturata dalla ditta Gasparoli srl. in color sabbia dorato e leggermente rosato, il pavé marrone con strisce di marmo posato da pochi anni intorno alla nuova fontana per completare la chiusura del centro storico a lungo avversata dai negozianti, tutto questo spazio rifatto ostenta d’un tratto il suo essere rifatto: Scenografia per un teatro a cielo aperto, cielo lombardo privo di definizione, uomini in jalabiah che alzando il busto mostrano il sudore sulla fronte, coro minimo degli abitanti che mormora “regole”, “islamici”, “giù da loro non ci fanno aprire le chiese” ecc.
Vado, stanca di aspettare. Captare il discorso sulla religiosità arcaica e il nostro bisogno di spiritualità pronunciato da un ometto coi capelli lunghi, rossi occhialini da creativo e accento napoletano non mi serve un granché.

Qualche giorno dopo sento le sorelle Pastorelli che si dicono dispiaciute della loro assenza, ma dopo le vacanze non si era ancora riunito il coordinamento Pace & Solidarietà. Ci accordiamo per un appuntamento in cui Laura mi consegna una cartella di articoli e cerca di riassumere i due anni passati dall’ordinanza di sgombero allo sgombero effettivo: raccolte di firme dell’estrema destra che non trovano adesioni significative, un comizio della Lega osteggiato dal caldo dell’estate 2003, quella in cui in Francia i vecchi morirono come mosche, dove Giovanna Bianchi, attuale membro Cda Rai e ex militante del movimento studentesco gallaratese, già dichiarava ai fedelissimi in età giusta e buona salute che chiusa una moschea sarebbe preferibile non aprirne un’altra. E poi le iniziative promosse dal coordinamento insieme al centro islamico, fra cui quella con Moni Ovadia ospitata a gennaio del 2004 nel centro per anziani “Il Melo” che fu capace di accentrare una tale adesione da parte della stampa e dei cittadini da portare la giunta stessa ad accodarsi.
Per due anni la maggioranza litiga al suo interno, per due anni sindaco, questore e prefetto si scaricano addosso la responsabilità per lo sgombero non eseguito, per due anni i fedeli musulmani continuano ad usare il centro per pregare, riunirsi, mandare a scuola i figli.
Una domanda di modificazione d’uso dell’edificio viene respinta. Alcuni dei quattro consiglieri dell’area ulivista – due Ds, due Margherita- si presentano per giocare la “partita di calcio dell’amicizia” organizzata da centro islamico e coordinamento Pace & Solidarietà. Se intervistati, gli stessi politici si appellano ai principi costituzionali e alla necessità di trovare una via d’uscita pacifica e ragionevole, ma dal consiglio comunale non escono proposte concrete per una soluzione alternativa a quella che si definisce formalmente come questione di agibilità. Dopo lo sgombero di luglio 2005, i comunicati di protesta e gli inviti a scendere in piazza a fianco del centro islamico sono sempre solo quelli firmati dal coordinamento e dalle Acli. Persino la “Prealpina”, riferendo della manifestazione del 16.7.2005 a cui parteciparono da centocinquanta a duecento persone, mette in rilievo il “silenzio dell’opposizione” mentre non segnala la partecipazione del prevosto Don Franco Carnevali e di molti ragazzi venuti dagli oratori.
Pare che alla fine la comunità islamica abbia acquistato un altro stabile ex industriale e che vi stia facendo fare i lavori di adattamento sperando che stavolta la burocrazia edilizia non faccia muro. Intanto la Lega, di nuovo anche per bocca dell’onorevole Giovanna Bianchi, ha fatto sapere di non volere nessuna moschea a Gallarate, né abusiva, né regolare.
Laura Pastorelli mi chiede per la seconda volta se il canto dei due pappagallini o i loro occasionali voli per il salotto mi infastidiscono. L’appartamento che condivide con Olivia sembra ereditato senza modifiche nella mobilia da genitori o nonni, cosa che non stupisce. Entrambe le sorelle sono piccole, portano gli occhiali e nei loro vestiti alieni da ogni moda appaiono sempre uguali: due insegnanti bambine, il cui radicamento nella fede cristiana dà l’impressione di situarsi dalle parti di Cl solo per superficialità. Le sorelle Pastorelli sono due Giusti del Signore camuffate dall’identica vocina, e se per salvare il mondo pare ce ne vogliano quaranta, saperne due a Gallarate basta e avanza.

Non è finita. Per la seconda volta esco di casa trovando in piazza gli ultimi fedeli seduti a chiacchierare sui gradini del sagrato che oltrepasso per entrare al bar vicino. Non riesco a rassegnarmi ad aver assistito muta a una messinscena in cui le uniche parole colte sembravano tutte prestabilite: sia quelle in arabo, sia quelle in italiano. Avrei dovuto fare delle domande, ma non capivo a chi: l’unica persona con cui ci ho provato, una donna dritta in piedi vicino alle transenne che per gli occhi verdi grandissimi e l’incarnato olivastro poteva provenire sia dal Meridione che dall’Asia Minore, si è rivelata l’avvocato.
-Ma lei chi rappresenta, a che titolo mi fa queste domande?
– Nessuno. Le faccio a titolo mio.
– No guardi, ora non posso dirle niente. Quando avranno finito di pregare, farò una dichiarazione per la stampa…

Il bar è uno di quelli che da quando il centro è stato chiuso anche nelle vie oltre alla piazza hanno messo fuori i tavolini cambiando il ritmo vitale della città, specie di sera e in estate. Però è frequentato a tutte le ore e nonostante il caldo i posti all’aperto sono tutti occupati da quelli che si suppone pagano con i buoni-pranzo. Si chiama “Il Barbaresco” e sembra appartenere a un adiacente negozio storico di gastronomia che lo rifornisce di stuzzichini e forse materia prima per i panini, ma anche se così non fosse esattamente, le cose da mangiare e bere sono comunque di buona qualità. Sarà per questo o per l’arredamento sobrio lievemente country che ci ritrovi i figli della Gallarate-bene sopra i trenta, quelli in Hogan e camicie Polo, mentre i più giovani o i ragazzi dei paesi fanno ressa davanti ai locali come il “Buddha Bar”.
Ordino un toast e comincio a mangiucchiare i rimasugli dell’aperitivo. Difficile che a Gallarate, in più a un’ora simile, qualcuno si fermi al banco e invece al mio fianco sono in tre, pinta di birra in mano. Al centro c’è un uomo massiccio sui cinquanta, capelli rasati e rotolo abbronzato dietro il collo taurino che si muove come fosse a casa sua, con passi da ex giocatore di rugby, ex guardia del corpo o ex legionario, anche se per essere stato una qualsiasi di queste cose sembra troppo ben messo; cosa non tanto esibita dai vestiti, ma piuttosto dalla pelle lucida e tutta un’aria curata e appagata, nonostante abbia il ventre inconfondibile di chi beve birra. Infatti si sta scolando il secondo boccale da quando sono entrata.
Dev’essere approdato per qualche business legato all’aeroporto perché tuona con un fortissimo accento inglese, anzi parla prevalentemente in inglese, usando il suo ridicolo italiano così come le sue mani da barile per esprimere un’esuberante, leggermente intimorente cordialità. Dovrà supporre che sia tipica di questo paese, esattamente come il pomodoro di cui pronuncia il nome con slancio caricaturale sostenendo che aumenterebbe la potenza sessuale del popolo che ne fa un consumo così ampio.
-Voi tutti pòmmodouro, bene, molto bene!-
Più bassi di una testa, più giovani di almeno quindici anni, fermi alla prima birra, i suoi amici gallaratesi del genere giovane industriale, o figlio di industriale o- vista la crisi- ex industriale del ramo tessile e affini gli rispondono “okay” e “yeah”, succubi e affascinati.
– Allora, tu dici Nicoula ha chiuso the mosque? –
Nicoula è Nicola Mucci, il sindaco di Forza Italia, più o meno della stessa età dei suoi concittadini e probabili elettori al bar.
-Two mosque.-
Quello che ha parlato forse pensava che la moschea fosse già stata sgomberata la volta scorsa, ma come si siano svolti i fatti non l’ha capito, come del resto in quel momento nemmeno io.
– Oh, due! Two mosque in Gallarate? E adesso Nicoula ha detto finnìto, basta? That’s good, very good, bravo Nicola!-
– Jes, good, very good, continuano a ripetere in un tono che al confronto sembra quasi sussurato.
– We, in Inghilterra, no chiudere mosque,- continua e si interrompe per spalancare le braccia enormi- we ap-riii-re! In Inghilterra, we have a joke that says: non every muslim is a terrorist but every terrorist is a muslim…
– Understand, I understand- si precipitano a dire gli amichetti e poi scoppiano a ridere da bravi, insieme.
– Even casa mia in London, very rich quarter, molto ricco giudei lives there, they opened a new mosque but the one that canta, that one: no!-
Rapiti, i due gallaratesi-bene fanno appena in tempo a commentare con sorrisi obliqui che “jew” in inglese vuol dire proprio giudeo, e già il loro amico approdato dai più fastosi sobborghi londinesi ingolla l’ultimo sorso e con voce baritonale intona un canto da muezzin:
– Uhuh allalah, allah blablablabla “il Barbaresco” è il nostro Paradiiiisooooh…”
E’ grande. E’ infinitamente troppo grande per due stempiati ragazzi ricchi di provincia con un inglese appena buono per occuparsi della clientela estera, nel caso abbiano ancora qualcosa da esportare. E nonostante l’apparente bonomia del suo straordinario istrionismo, nel fisico e nel modo di imporsi sui due piccoli soggetti di un immenso impero manifesta una somiglianza unica e precisa: sembra Marlon Brando nel ruolo del padrone e Dio venuto da Occidente di nome Kurtz.

4) Stazione di Gallarate, 4. settembre 2005, ore 19.00 ca.

E’ domenica, è tardi, c’è ancora un caldo umido esagerato e per tutte queste ragioni neanche un’anima viva ai giardinetti sotto casa. Allora il bambino vuole tornare in stazione ad aspettare l’ultimo passaggio del “Cisalpino”. Ci andiamo allungando il passo. Arrivati e sistemati come habituès, provo per una volta a non cedere, ma alla fine gli consegno la moneta per prendere un pacchetto piccolo di patatine. Mentre cerca di estrarrlo, il muso del treno ultraveloce è già quasi a metà binario, per giunta quello sbagliato, il primo, e noi siamo finiti sbadatamente su quello dove l’avevamo aspettato la volta scorsa. Neanche l’annuncio del suo transito abbiamo colto, presi come eravamo col distributore e i suoi congegni. Riusciamo ancora a seguirlo con lo sguardo finché sparisce, riusciamo a sentirne il vento forte che solleva fino al nostro binario, ma la sorpresa equivale a una delusione.
– Pazienza- dico al bambino – sai quante volte ancora potrai vederlo,- temendo che per ritorsione non riuscirò più a smuoverlo da lì. In quel momento annunciano un altro treno, un Eurocity sul binario due, proprio quello dove ci troviamo noi.
-Vediamo questo e poi andiamo a casa- propongo e stranamente il bambino sembra dire di sì.
La cosa pazzesca non è soltanto vederli scendere, ma che lo facciano esattamente all’altezza dove siamo noi: già avviati verso le scale, mano nella mano. Sono due chassidim perfetti, i filatteri che spuntano sotto pesanti abiti neri, barbuti, col grande cappello fermo sopra i riccioli chiamati pejes. Scendono per ultimi perché hanno una quantità mostruosa di bagagli da calare giù dal treno, borse di plastica, una carrozzina con neonato, un passeggino sghembo destinato a un bambino pallidissimo e gracile che porta una kippah ad uncinetto sopra i capelli lunghi raccolti in un codino; soprattutto valigie, valigie gigantesche, vecchie, molli, perché fatte del materiale più scadente e pure rattoppate col nastro adesivo.
Dal treno quello moro con un po’ di pancia le passa al più giovane e slanciato che corrisponde preciso alla tipologia pel di carota che gli israeliani sfottono col appellativo gingi.
Hanno una fretta indiavolata, sono frenetici, gli occhiali gli si appannano per lo sforzo. Li guarda stranito il bambino tenendomi per mano, guarda l’ultimo ultraortodosso che raccatta gli ultimi mostri di valigie e trascinandoseli di corsa giù dalle scale va a sbattere contro una donna grassa.
Le mogli sono già in basso: una appena sotto, contornata dai bagagli minori più carrozzina, l’altra corre avanti indietro anche lei, strattonando il figlio smunto. Si gridano piccoli comandi in inglese, con un accento di cui so riconoscere soltanto che non è americano.
Approdano finalmente con tutta la mercanzia sul piazzale davanti alla stazione, dove le donne e i bambini si fermano mentre i chassidim continuano a correre dentro e fuori dall’edificio, su e giù per la strada in salita dove ci sono i pullman. E’chiaro che devono andare a Malpensa, è probabile che temono di perdere l’aereo, mentre non lo è affatto quale combinazione li abbia portati a fare questo scalo scomodissimo a Gallarate. Come al solito c’è un po’ di gente nei paraggi, persone che si danno appuntamento o aspettano l’autobus, pensionati, drogati, fumatori che vanno all’unica rivendita aperta di domenica per rifornirsi di sigarette, nessun tassista. Sulle aiuole di fronte, separati dalla strada d’accesso, bivaccano piccoli gruppi di pakistani, un’estensione di coloro che si fermano a parlare sotto le arcate davanti al negozio in cui Mohammed Noor offre gioielli, sari e salawar kameez, trecce autentiche, scarpe sportive e ciabatte indiane, musica e film di Bollywood più money transfer. I marocchini invece, di cui alcuni possibilmente spacciatori, stanno più in qua, comodamente seduti ai tavolini del bar sull’angolo dello stesso condominio.
Adesso la più giovane delle mogli tiene in braccio il neonato che si è messo a strillare, lo culla con grandi passi e una filastrocca in inglese. Potrebbe anche essere piuttosto bella se non fosse così rigida, così alta, così più bianca della carta in volto, e se non avesse addosso quella lunga gonna dritta slabbrata, scarpe da tennis e soprattutto in testa una parrucca di un biondo castamente scuro ma altrettanto improbabile in natura. Qualsiasi musulmana velata fino agli occhi è più attraente di un’ebrea ultraortodossa, penso e penso anche che però forse dovrei esserle d’aiuto visto che non c’è nessuno che ci pensa. Del resto, per quanto continuino a correre, sembra che nemmeno a loro salti in mente di chiedere informazioni a qualcuno.
– May I help you, are you looking for a taxi to the airport?- chiedo accorgendomi che rivolgermi a quell’altra donna, quella piccola dalla finta capigliatura bruna, mi costa uno sforzo minimo, mentre parlare con qualsiasi senegalese o marocchino no.
– No, thanks, we are waiting for the bus- ribatte con un accento che per esclusione non può che essere o canadese o australiano, e spiega che un’amica settimana scorsa l’aveva perso per un pelo.
-Oh-, faccio, – but you know it takes more than half an hour?, meravigliandomi delle frotte di chassidim in transito per la stazione.
– We got enough time, rassicura sottolineandolo con un sorriso così convinto che, viste le corse trafelate appena concluse, pare completamente assurdo, – but thank you so much-.
– You’re welcome-
E’ tutto assurdo.
Cosa diavolo ci fanno degli ebrei ultraortodossi canadesi scesi da un treno svizzero a Gallarate, mi chiedo mentre mano nella mano e senza dargli spiegazioni mi riavvio verso casa con mio figlio. Allora, dagli indizi, dalle troppe valigie troppo grandi e troppo vecchie, dalla fascia dell’aeroporto GVA, da una grande scatola di dolciumi stampata in ebraico, dai morsi di zanzara, il codino e la kippah ad uncinetto del bambino, mi sorge all’improvviso la certezza che deve trattarsi di una piccolissima parte dei coloni fatti sgombrare la settimana precedente dalla striscia di Gaza. Ora che il senso della loro permanenza in Erez Israel pare esaurito, ritornano nei paesi d’origine della loro diaspora con le combinazioni di volo che nell’emergenza riescono a trovare o a pagarsi. Ma forse non è così, forse venivano dal Canada e si erano trattenuti per tutta l’estate da parenti ginevrini.
Resta indietro il mistero del loro gruppo ormai compatto e immobile alla fermata, mentre i musulmani e i cristiani di Gallarate se li guardano- gli uni come da dietro un velo di apparente sonnolenza, gli altri furtivamente, senza mostrarlo- ma entrambi li guardano come se la loro apparizione non potesse che essere uno sbaglio o un capriccio del destino che la venuta di un autobus destinato a Malpensa finirà per raddrizzare.

pubblicato sul numero 32 di NUOVI ARGOMENTI nella sezione “Io so”.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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