Periplo meneghino

di Gianni Biondillo

Annalisa mi fa vedere una delle sue fotografie: “sai dov’è?” mi chiede, un po’ per gioco, un po’ per sfida.
Osservo la foto con calma: è pomeriggio inoltrato, il cielo sta imbrunendo. In primo piano un parcheggio asfaltato, più indietro, come una quinta alta un solo piano, l’ingresso luminoso ad un hard discount. Dietro sovrasta un edificio in cemento a vista di, come si dice fra architetti, civile abitazione. Una casa popolare, insomma. Sembra la Torre Velasca dei poveri. Alcune fronde di alberi sulla sinistra rammentano l’esistenza di un giardino o di un parco, fuori dallo scatto fotografico. “Sai dov’è?” ripete, poi aggiunge, per aiutarmi: “è a Milano”.
Io so tutto di Milano. Tutto. Sono il suo cantore, il poeta delle periferie meneghine, il lettore urbano, il peripatetico, il flaneur. Milano è il mio correlativo oggettivo, il mio panorama interiore. Guardo di nuovo la foto. Maledizione, non so dove diavolo sia questo posto!
Glielo dico, sconfitto. Non mi piace l’idea che questo sembri un posto come un altro. Non ci credo che esistano posti uguali dappertutto, non accetto l’idea che le periferie si assomiglino tutte, ogni luogo cerca il suo genio costruttore, cerca il suo senso.
Annalisa sta per dirmi dove ha fatto lo scatto, ma io glielo impedisco: “voglio trovarlo da solo.”
Per fare una cosa del genere devo telefonare a mio cugino Marco. Io non ho la macchina, neppure la patente, se è per questo. Lui ce l’ha. Accetta ben volentieri: “Da dove partiamo?”
Faccio una cernita. Non è a Quarto Oggiaro, è evidente. Ci sono cresciuto a Quarto, la conosco come le mie tasche. Un posto così non puoi dimenticarlo. E, a occhio e croce, non è neppure alla Bovisa. Ci ho fatto gli ultimi anni al Politecnico, sede distaccata. Quando il quartiere sembrava ormai morto, fatto di fabbriche dismesse e di capannoni abbandonati, e che nel tempo è rinato proprio grazie alle migliaia di ragazzi che lì ora ci transitano, ci studiano, ci mangiano, ci fanno acquisti. E, sempre a nord di Milano, escluderei anche la Bicocca. La Pirelli non c’è più, il quartiere ha subito il più straordinario caso di trasformazione urbana degli ultimi 30 anni, con la riconversione estetica e funzionale attuata da Gregotti. Insomma, ci sono passato un sacco di volte, un po’ per curiosità, un po’ per studio. Non è lì. “Vediamoci a Molino Dorino” dico a Marco. Periferia nord ovest. Pochi passi e sei a Pero, in 5 minuti di macchina puoi vedere il nuovo polo fieristico di Rho fatto da Fuksas e inaugurato da Berlusconi quando ancora non era completato, tanto per tagliare il nastro in prossimità delle elezioni regionali.
“Magari è lì, a Rho” mi dice Marco. Non è una domanda peregrina. Milano, in sé, dentro i suoi confini comunali, è una piccola città, con una spaventosa densità abitativa degna di una città mediterranea. Ma la vera Milano, ormai, è una città immensa. Sesto San Giovanni, Rho, Rozzano, Cologno Monzese, San Donato, e tutta la cintura di comuni attorno a Milano, sono ossificati fra loro senza soluzione di continuità. L’autostrada per Bergamo è, a tutti gli effetti, una tangenziale urbana. È una città-territorio, che copre tutta la provincia e oltre, che si innalza nei piani degli edifici nelle vecchie periferie milanesi per poi riabbassarsi uscendone, trasformandosi in una villettopoli disorganica nella Brianza velenosa di Gadda (e della giornata uggiosa di Battisti). In effetti sarebbe impossibile trovare quel posto in un territorio così vasto. “No” dico. “Annalisa mi ha dato un aiuto: è oltre la circonvallazione, ma è dentro i confini comunali.”
Milano è una città semplice da descrivere. Non ha mai avuto particolari impedimenti orografici, a livello insediativo è di una banalità disarmante. Una serie di cerchi concentrici – la cerchia dei Navigli (il centro storico, quello delle banche e delle ricca borghesia), la cerchia dei bastioni (la città del sette-ottocento), la circonvallazione (la città piccolo borghese novecentesca). Il resto è periferie, con quello che può significare questo mettere tutto sotto una sola, indefinita, parola. Grossi assi viari di penetrazione infilzano, come raggi, questi cerchi concentrici. Perdersi a Milano è davvero complicato. Giriamo in macchina, passiamo per le stecche di Aymonino e Aldo Rossi. No, no, non è qui, conosco bene questa zona. Scendiamo verso Baggio.
Ci abitava Marco a Baggio, quand’era ragazzino. Tutte le volte che andavo a trovarlo era un viaggio infinito. Da Quarto Oggiaro, con i mezzi pubblici, dovevi arrivare in centro con l’autobus, prendere la metropolitana, scendere ad Inganni (la fermata di Bisceglie ancora non l’avevano fatta), prendere un altro autobus. Un’ora e mezza circa di viaggio. Da periferia a periferia. “Hai visto” mi dice scherzando, mentre guida, “a Parigi sono di moda le renault flambé.” Ma Parigi non è Milano, è chiaro. Noi, figli di immigrati dal Sud Italia non siamo i beurs di terza, di quarta generazione che hanno dato sfogo alle loro frustrazioni. Baggio non andrà in fiamme, non ora, per lo meno. Noi, almeno, di essere italiani non ce l’hanno mai messo in dubbio. Quello che i parigini fanno, invece, è proprio non accettare questi ragazzi di origine magrebina come cittadini francesi a tutti gli effetti. Al bar dove ci siamo fermati a prendere un caffè osservo come le facce stiano cambiando anche qui da noi. Non ora, le fiamme. Ma quanto ancora dovremo aspettare?
Lorenteggio, la Giambellino delle canzoni di Gaber. Niente neppure qui. Scavalchiamo il Naviglio Grande, puntiamo verso la Barona, periferia Sud. “Ti faccio vedere un posto” mi dice. Ormai la nostra ricerca è una scusa per perderci nella città e per raccontarci un po’ di cose, come si faceva da ragazzi, che si parlava di tutto e alla fine neppure ci ricordavamo di cosa.
Non c’ero mai stato qui. È il quartiere Sant’Ambrogio (cosa di più milanese?). Di fianco, separato da un prato, la Via del Mare sfreccia verso l’Autostrada dei Fiori in mezzo a campi coltivati, rogge, cascine. Il Parco Sud resiste (il Parco Nord invece è, di fatto, solo una serie di cartelli arrugginiti fra capannoni, svincoli e prati spelacchiati), non vuole piegarsi a logiche speculative sicuramente più redditizie che la produzione di foraggio. Sembra un pezzo di panorama agricolo direttamente strappato dal medioevo, con la città pronta a soffocarlo. Parcheggiamo. Due siedlung curvilinee alte sette piani, cinturano un’area pedonale verde attrezzata. Negozi, scuole, servizi, una chiesa al centro. “Mi piacerebbe una casa qui” mi dice Marco. “puoi lasciare i bambini giocare in cortile, che non hai paura che qualcuno li investa”. Piacerebbe anche a me in effetti. È la periferia che non ho mai avuto. A Quarto Oggiaro non c’è neppure una piazza, qui invece a primavera i ragazzi vanno sui pattini e i pensionati leggono il giornale seduti sulle panchine. È la Milano operaia e socialista che si esprime al meglio, che crede nella condivisione degli spazi, nella dignità dei palazzi, nel rapporto di vicinato. “E ora vieni con me”. Riprendiamo la macchina; imbocchiamo la via del Mare, verso l’autostrada. Entriamo nell’area di servizio, costeggiamo una stradina. “Ecco qua. Non ti pare assurdo?”
È un microquartiere fatto di villette a schiera, in mattoncini. In sedicesimo paiono riproporre le curve del quartiere popolare che abbiamo appena lasciato. Ma qui non c’è uno spazio comune, solo una strada che immette nei vari box privati. Non ci puoi arrivare a piedi, solo in macchina, non ci passa nessun mezzo pubblico, pochi metri più in là del loro vezzoso gusto campagnolo sfrecciano i tir sull’autostrada. È il paradiso della proprietà privata piccolo borghese, è un fortino integralista che difende il proprio possesso. Una donna ci guarda in cagnesco da dietro il suo cancello. Scappiamo, più spaventati noi di lei.
Via dei Missaglia. Se la prendi nel verso giusto arrivi praticamente al Duomo senza mai cambiare rotta. Ma noi diamo le spalle alla cattedrale. Ormai è sera, fa freddo, c’è aria di neve. Niente nebbia, però. Ci stupirebbe il contrario, a dir la verità. L’idea di Milano che hanno nel resto d’Italia è un’idea vecchia e stereotipata: Milano è la città delle fabbriche, del panettone, della nebbia e del Duomo. Sembra la Milano di Rocco e i suoi fratelli. La verità è che le fabbriche, a Milano, sono ormai tutte dismesse, il panettone lo producono a Verona, la nebbia, nella cinta urbana, è scomparsa da 30 anni e il Duomo è sempre impacchettato per restauri, non lo vede mai nessuno. Siamo a Gratosoglio, quartiere sorto dal nulla negli anni ’60. I palazzoni avrebbero bisogno di manutenzione, l’intonaco cade a pezzi dalle facciate. In giro vedo delle gru, questa città è tornata ad essere un cantiere, come non lo era da tempo. “Non trovi che Milano sembra scomparsa dall’immaginario collettivo?” mi chiede Marco. Ha ragione. Dove la vediamo più Milano? Il cinema nazionale è praticamente tutto prodotto e girato a Roma, le fiction tv, le soap nazionali, hanno come location Napoli, Roma, Terni, Torino, Como, insomma tutta l’Italia. Ma Milano no. Scomparsa. Sappiamo più cose di Ponte di Legno o di Arcore che di Milano.
È tardi, abbiamo fame. Siamo dopo Corvetto, verso Rogoredo. Entriamo in una rosticceria. Il gestore è uno che ha capito tutto della glocalizzazione: serve pizza al trancio (una cosa che non è neppure napoletana. La fanno solo a Milano, già a Pavia neppure sanno cos’è) oppure Kebab turchi. E lui è egiziano.
Siamo stanchi, abbiamo continuato a girare per tutto il fianco est di Milano: Taliedo, via Mecenate, Quartiere Forlanini, Ortica, niente da fare, mi sa che ha vinto Annalisa. Dalle parti di Crescenzago incontriamo per caso Gianluca, un amico che c’è cresciuto da queste parti: “che ci fate qui?” Gli spiego tutto, gli mostro la foto. “Io lo so dov’è” ci dice, pacifico. “È vicino al parco della Martesana, fra via Padova e viale Monza.” Due assi viari che convergono in piazzale Loreto. Turro, in pratica. “Se vuoi ti ci porto. In macchina ci mettiamo dieci minuti.” Ci penso. “No. Preferisco di no. So che c’è, mi basta.” Ci voglio capitare, la voglio scoprire per caso. Amo questa città anche per questo: perché la conosco. E perché non la conosco ancora abbastanza.

(pubblicato, con l’impossibile titolo: “Sapessi come è strano girare per Milano”, su L’Unità del 9.12.2005)

L’autrice della fotografia (cliccateci sopra), Annalisa Sonzogni, nasce a Sarnico (BG) nel 1974. Vive e lavora a Milano. Si diploma in pittura all’Accademia di Brera nel 1996 e consegue il diploma di fotografia due anni dopo presso l’Istituto Riccardo Bauer di Milano. Nel biennio 2000-2001 risiede a New York dove frequenta la School of Visual Art e l’International Center of Photography.
Recenti mostre personali: Teorema, Praha Torino Lyon, Nepente Art Gallery, Milano 2005; Mirage, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano 2003; Private, Dryphoto Arte Contemporanea, Prato 2002.

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20 Commenti

  1. alcuni passaggi di ‘sto pezzo me li farei tatuare, per quanto mi son piaciuti.

    gianni, mi sei sembrato una mia prozia che da piccoli ci portava a mangiare pane e salame nel prato di fronte al cimitero, e mentre noi si giocava a fare a botte, lei parlava coi morti. anche lei si faceva la permanente e conosceva a menadito i percorsi dei tranvai.

  2. Gianni, io ci abito a Turro ma non sono riuscita a identificare il posto!
    In ogni caso, gran pezzo, di una godibilità estrema. Quando ti leggo quasi quasi mi riconcilio con questa città che amo-odio. Un abbraccio, Emma

  3. Veramente ottimo, Blondel. Un viaggio al termine della strada. Ho capito finalmente perchè non hai la patente.
    Ma è vero che ti fai la permanente come insinua Kristian?
    Domanda di un invidioso greyhound in continua perdita pilifera:-)

  4. Bell’affresco, Gianni, un po’ deprimente (e questo non toglie nulla al giudizio).

    La pizza al trancio si è diffusa ovunque, in ogni caso, non vorrei deluderti:)

    (a proposito di pizze e cioccolate calde)

  5. Non confondiamo la “pizza al trancio” con la “pizza al taglio”!
    La pizza al trancio è DOP!!! ;-)

    p.s. perché deprimente?

  6. pensa che scema! felice come una bambina solo perché ho riconosciuto immediatamente la torre nella foto e leggevo il pezzo continuando a ripetere “no, acqua, acqua, non ci sei ancora, continua in senso antiorario, ancora un po’ più su”
    è che non sono milanese e prima di trovare una dimora stabile ho girato per affitti e stanze in condivisione, e soluzioni di compromesso, e così alla fine, forse, certi posti appartengono più a me e a quelli come me che ai milanesi
    anche io amo Milano
    non mi appartiene per nascita
    mi sono intestardita a desiderarla e a cercare di conquistarla
    così resisto sotto le sue finestre e non mollo e lei ogni tanto si concede

    P.S.: sul mio pc è appiccicata da tre anni una frase del Silesio che ho scippato a un articolo e che suona “Amo una sola cosa e non so cosa sia: perché non la conosco, per questo l’ho scelta.” Leggendo il finale del pezzo mi è sembrata riecheggiare e quindi ho avuto un forte momento di empatia: è una combinazione o è un motto appiccicato anche dalle tue parti?

  7. “Non confondiamo la “pizza al trancio” con la “pizza al taglio”!

    C*****, hai ragione.

    Gianni, ho usato deprimente in senso lato, e in ogni caso: non parlavo del “racconto”, che mi piace, ma di una sensazione di angoscia che mi procurano tutti i racconti di “urbanizzazione”. Ciò non toglie che io non sia un passatista rimbecillito (e aggiungo che Milano mi piace molto, sebbene non la conosca come te).

  8. ottimo Gianni, veramente un bel racconto; avrei riconosciuto la mano anche se tu non l’avessi firmato.
    Certo che questa immagine di te che si legge nei commenti è inquietante: non ti vedo dal parrucchiere con i bigodini in testa, smentisci per favore. ;-)

  9. BigodOne (si legge baigduàn) è un super eroe milanese noto solo ai milanesi. Nessuno sa chi si celi dentro quel costume futurista, sanno solo che le dimensioni del suo cuore sono iperumane. Egli difende le vecchiette che attraversano la strada, acceca momentaneamente i vigili nell’atto di leggere una targa, fa trovare fiori sul davanzale degli scontenti, nottetempo aggiusta costruzione che stanno crescendo storte. Tutto questo è BigdOne. Ma chi è BigodOne?

  10. È vero che Milano non si vede mai e che l’idea che hanno di Milano quelli che non ci vanno mai, come me, è convenzionale e attardata su un’immagine vecchia.
    Credo però che accada per tutte le città.
    Sull’idea convenzionale di Roma si è formato addirittura un partito anti-romano, la Leganorde.
    Cinema e tv non riescono a darci dati esatti, anzi credo non si tratti nemmeno di dati in senso proprio, ma solo di location, sfondi, anch’essi convenzionali.
    New york city non è quella dei film.
    La stessa cosa si può dire di Roma o Napoli.
    È anche ovvio che Napoli non è quella dei documentari sulla camorra o su scampìa.
    Se la fiction non ci dà città “vera”, non ce la dà nemmeno la realtà.
    Le città “vere” non sono conoscibili, ma solo percepibili, supponibili, immaginabili a fini più o meno narrativi.
    Forse sempre narrativi, se si pensa che la realtà coincide con la sua narrazione.
    Ad ogni città d’altronde è legata un’idea di essa, totalmente elementare, iper-urania, platonica e convenzionale, il cui germe si forma in noi in tenera età, sulle cartine scolastiche e turistiche d’Italia dove al posto di Pisa c’è la Torre e di Milano il Duomo e di Roma il Colosseo, di Londra il Big Ben, di NY il Ponte di Brooklyn (?), eccetera.

  11. Magdah: sbagliato, oppure impreciso.
    Roma è, prima e molto più di Milano, puttana.
    E’ la somma meretrice secolare.
    Nessuno l’ha mai veramente voluta, conoscendola.
    Nessuno l’ha mai difesa sul serio da nessuno.
    Chiunque l’abbia desiderata almeno un po’, alla fine l’ha avuta.

  12. io lo dico nel senso che
    Milano non ha memoria, segue i vincitori, è segmento culturale, compratimento stagno, quartieri divisi per funzioni, funzioni che presto si dimentico e di cui nessuno ha piu’ memoria.
    E’ citta proiettata esclusivamente nel futuro e nel surrelale realizzabile.
    Roma è storia per antonomasia….è un altro tipo di puttana, piu’ maitresse barocca.

  13. “Roma è storia per antonomasia….è un altro tipo di puttana, piu’ maitresse barocca”.
    Ecco, come dicevo, questa frase rivela lo stereotipo, l’immagine convenzionale.
    Niente di male in questo.
    La convenzionalità è assolutamente necessaria per la formulazione di qualsivoglia giudizio, convenzionale o no.
    Per esempio: i dati attuali dicono che Roma oggi fa impresa più di Milano, nel senso che il tasso di natalità imprenditoriale è più alto di quello di Milano e dicono anche che il privato oggi prevale sul pubblico e infine dicono che il Nord succhia molte più risorse statali, cioè finanziamento pubblico, del Centro e del Sud. Ma tutto ciò contrasta con l’immagine convenzionale dei rapporti Nord-Sud, per dire.
    Non dico che il barocco non faccia parte della cultura di questa città, ma ormai appartiene solo a quella sorta di parco a tema che sta diventando il suo Centro Storico, mentre l’identità della città intanto si costruisce altrove. Ma dove, esattamente?

  14. vorrei rassicurarvi tutti: conosco il Biondillo da qualcosa come vent’anni. Il capello e’ “nature”.
    Detto questo: grazie Gianni per avermi ricordato la mia citta’ ma soprattutto come noi si sia sempre in viaggio, alla ricerca di un qualcosa che sicuramente da qualche parte esiste.
    E a noi, in fondo, basta sapere questo.
    Buon anno!

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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