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Residenza Vanessa

di Graziano Dell’Anna


a zia Rosy

Spalanco la finestra di stanza “Mimosa” e sono colpito dal sole in piena faccia. Lascio che qualche secondo sgranelli giù nella mia clessidra mentale. Poi, quando gli occhi prendono confidenza con la luce, distinguo finalmente il giardino e l’albero di mandarini, i giocattoli, il cancelletto accostato, via Forlì e persino un lembo di piazza Lecce. Allora ritorno con lo sguardo all’interno della stanza. I Quaderni in ottavo di Kafka. Un soffio di luce impolverata incornicia il libro spaginato sul comodino.

Kafka scrive che ogni uomo porta in sé una stanza. Nella luce claustrale di una mattinata romana mi sorprendo a pensare che non c’è niente di più vero. La stanza di alcuni è bella e sontuosa, con specchi a muro, servizi autonomi e doppi cuscini sui letti. La stanza di altri invece è squallida, invivibile, coi muri sfregiati dalle crepe e dall’umido, materassi sfondati e al centro due o tre secchi dove la pioggia, gocciolando dal soffitto, si raccoglie strimpellando.

Residenza Vanessa è una palazzina stile liberty degli anni ’30, situata a Roma in via Forlì 36/38, vicino al Centro di Ematologia. Donata a Romail dal Banco di Roma, nel 1993 è stata ristrutturata grazie alla nazionale cantanti. Artefice il dott. Franco Mandelli, una di quelle rare persone in cui le capacità professionali si appaiano a una toccante caratura umana. L’edificio è composto da 15 stanze a due letti, un soggiorno, due cucine e un giardino. Nei primi tempi, mi racconta zia Rosy, le stanze erano spoglie, la cucina un fornellino a gas e i tavoli due lunghe assi di legno con cavalletti. Grazie alle donazioni, Residenza Vanessa ha oggi un soggiorno con tavoli e poltrone e le stanze godono del dignitoso corredo di un frigorifero, una tv e un bagno doccia. Ogni stanza, sull’etichetta ovale in ceramica bianca, reca il nome di un fiore. Azalea, Begonia, Camelia, Dalia, Erica, Fiordaliso, Ginestra, Iris, Lillà, Mimosa, Ninfea, Orchidea, Papavero, Rosa, Violetta. Residenza Vanessa è un piccolo grande prato umano nel centro di Roma.
Ma che cos’è esattamente Residenza Vanessa? Pensando a Kafka, mi dico che è una struttura che cerca di sovrapporre allo squallore della camera interna di alcune persone la dignità e il decoro di un soggiorno umano. Le stanze, infatti, sono messe gratuitamente a disposizione dei malati di tumore e dei loro parenti. La cura di un tumore, si sa, ha una durata considerevole e non tutti possono permettersi un soggiorno di lunga scadenza a Roma, cosicché sono spesso costretti a vivere per mesi in stanzette squallide e desolate a basso costo o, nel più grave dei casi, a rinunciare alla speranza.

Zia Rosy è un fuscello umano. Una ragazzina di settant’anni bassa ed esile. Braccia ossute da anoressica. Spalle magre e strette su cui la giacca del tailleur spiove larga, generosa. Così minuta e secca che, in questo giorno arieggiato, temi quasi che un’impennata del vento possa portarsela via. Sul collo di tartaruga ruota un faccino che, dietro la serpaia di rughe, ha incastonati due occhietti vispi e inquieti – due piccoli laghi scuri in cui sembra raccogliersi il dolore del mondo. A vederla non la diresti così forte, di una tale robustezza e giovinezza interiore. Eppure è lei che manda avanti Residenza Vanessa – assegna le stanze, raccoglie e destina i fondi, organizza il mercatino di beneficenza della domenica…
Una donna grassoccia e lievemente strabica sale dal soggiorno dove si tiene il mercato domenicale. Chiede: Che prezzo facciamo per questo posacenere? Fai un po’ tu, dispone secca zia Rosy, non devo mica dirvi ogni cosa! E ride. Zia Rosy ride spesso. Una risata di gola ricca, profonda. Sembra venire da molto lontano. Ma poi, quando parla del marito perso sedici anni fa o dei tanti amici visti morire, il suo corpo minuto è percorso da un brivido e gli occhietti vispi e inquieti si affacciano sul ricordo del dolore – sembrano guardare distante, oltre il tempo e lo spazio. Questa donna, mi dico, ha dentro di sé una stanza funebre. Una stanza ombrosa piena di foto coi fiori e i lumini accesi. La memoria di questa donna è un cimitero.

Sul retro di Residenza Vanessa si apre il giardino. Un tavolo con panchine e sedie. Un pentagramma di fili per il bucato comune. Un albero di mandarini che ribatte con un tocco di colore e letizia al grigio desolato del ghiaino e dei muretti. Sotto l’albero, che sembra quasi proteggerli con fare materno, alcuni giocattoli sparsi. Una casettina Chicco, uno scivolo, una biciclettina a tre ruote. Nel momento in cui li vedo l’odore dei mandarini si fa più forte, intenso. È come un campanello nella testa. Allora capisco. A Residenza Vanessa soggiornano anche bambini. Malati di leucemia, linfoma, glaucoma. I loro tre o quattro anni bombardati dalla radioterapia. Ho un attimo di mancamento. L’odore dei mandarini vortica, si fa assordante. Bambini e dolore. Bambini e morte. Un’associazione d’idee a cui la mente non è abituata. Ho bisogno di evadere dall’inferno di questo pensiero. Infilo le cuffie, faccio partire il cd e, dal giardino di Residenza Vanessa a Roma via Forlì 36/38, mi trasferisco all’interno di un notturno di Chopin. Non basta. Allora chiudo gli occhi ma…
(Eppure uno lo avevo visto, anzi una – una bambina. Piccola, avrà avuto tre o quattro anni. Gonnellina jeans, golfino rosa, scarpette bianche da ginnastica. La faccia florida e allegra di chi non afferra ancora le cose intorno. La testa calva della radioterapia. Mi vede nel corridoio che sbuccio e mangio un’arancia. Si avvicina e mi fa segno con un dito. Ne vuoi una, faccio io, aspetta qui. Entro nella stanza e riesco con nella mano una bella arancia luccicante – la più grossa che ho trovato. Mi piego e la offro con un sorriso a quella testolina brulla. Ma lei, improvvisamente, scappa via. Dopo qualche secondo ritorna con la madre. La donna mi guarda e ha un moto di comprensione negli occhi. Poi si rivolge alla bambina: Cosa vuoi, un’arancia? Ce le abbiamo anche noi. Vuoi la tua o quella del signore? La bambina fa segno di no con la testa e tira via la madre per la gonna. Ha scelto per la sua. Io resto lì palleggiando la mia arancia in una mano, mentre ripasso la lezione di vita impartitami da un bambina di tre anni: l’infanzia e il dolore non chiedono niente di più, non vogliono la questua della pietà, semmai solo un po’ di rispetto.)
….ma anche chiudere gli occhi non serve. Le immagini si affollano comunque nella mente, sulla retina della memoria visiva. Allora mi dico che non si scappa dal dolore degli altri. Non ci si difende dal dolore chiudendo gli occhi. Così spengo il cd e scendo in via. Il sole gronda forte sulle cose. Dà loro evidenza, carattere. Sulla facciata di Residenza Vanessa iniziano ad aprirsi le finestre. Occhieggiano come fiori. Se guardi dentro, scorgi qualcuno passare nelle stanze e attraverso un gesto – una lacrima, un abbraccio, il fiore messo in un bicchiere – puoi quasi intravedere la stanza che ognuno si porta dentro.

***
Il giorno dell’inaugurazione della “Residenza Vanessa” il prof. Franco Mandelli ha lanciato l’idea di “adottare” una stanza della Residenza. “Adozione” significa che una delle 15 stanze può diventare più bella e funzionale grazie ad un contributo. Le adozioni possono essere fatte per uno o più mesi – fino a 12 mesi – con possibilità di rinnovo annuale. Il contributo minimo è di € 50,00 per ogni mese. A ciascuna stanza è stato abbinato il nome di un fiore: Azalea, Begonia, Camelia, Dalia, Erica, Fiordaliso, Ginestra, Iris, Lillà, Mimosa, Ninfea, Orchidea, Papavero, Rosa, Violetta. Chi desidera diventare “Padrino”o “Madrina” di una stanza può scegliere il mese ed il fiore preferito. Per informazioni chiamate l’Ufficio Promozione al numero 06 441639621. La donazione può essere effettuata tramite c/c postale n. 15116007 intestato a Romail-Onlus specificando nella causale il mese ed il fiore scelto.

Immagine “Kafka” di Andy Warhol

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1 commento

  1. Nella mia Residenza Vanessa c’era una donna di trent’anni. E c’era una bambina di tre anni che si aggrappava forte alla mia mano, perché non osava avvicinarsi alla madre. Porto ancora nell’anima i segni che le sue dita scavarono sulla mia pelle, mentre i suoi occhi chiusi inventavano capelli, labbra, palpebre, voce, per quel volto perduto che non avrebbe mai più rivisto. Ha disegnato bambole per anni, in silenzio. E ogni volta che voleva comunicarmi qualcosa, non aveva più bisogno di parole, che non diceva. Mi indicava i suoi occhi. E io eri lì, davanti al suo sguardo posato su chi sa quali altrove. A leggere l’alfabeto delle sue pupille che cambiavano colore.

    Sono due giorni che continuo a leggere questo testo, una ragione ci sarà. Forse la stessa di chi si porta impressa dentro l’immagine di quella bambina a cui ha offerto un’arancia. Ed è proprio per quella ragione, per quell’immagine che ora lo accompagna nei suoi giorni, che io non finirò mai di dirgli grazie.

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