Lettera da Praga

Una poesia di Francesco Marotta.

Per la particolare impaginazione dell’originale, il testo è qui proposto in formato pdf.

Lettera da Praga (pdf) di Francesco Marotta.

(Immagine: Emil Filla – Still Life, 1913)

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7 Commenti

  1. A me si è aperta solo ieri da un Mac con Acrobat aggiornato, mentre i pc che uso normalmente non la aprono. Peccato, perché da quel poco che ho potuto scorrere tra un pranzo e una lezione sull’intertestualità, si tratta di un testo interessante, forse bello.

  2. Io riesco ad aprire il pdf senza problemi. Comunque copiaincollo il testo per chi ha problemi.

    FRANCESCO MAROTTA – LETTERA DA PRAGA

    fango dislagato in pozze di cielo
    l’urlo che annaspa stretto alle sue radici musica
    sghemba s’irida
    in
    prospettive e note di volo disordine necessario
    che ripete l’occhio a curare lampi malati –

    calchi di vento
    segnano il confine tra attesa e oblio e il futuro è un volto
    che riemerge
    da franate memorie sottovetro una catena di passi
    marcati col sangue uno a uno
    dalla foce del Sele alle porte del Hrad un ponte di croci
    gettato sull’abisso…

    mio padre coltivava sogni
    dietro il filo spinato di terragne lune tra cumuli di vite
    lasciate a marcire
    e una viola
    spuntata per caso in pieno gelo
    li allevava nel piscio nel vomito
    di bocche smembrate proprio i sogni
    che resistono alla deriva degli anni
    quelli che lasciano una traccia indelebile ad ogni risveglio

    un papavero che vigila le messi un
    fiammifero
    che
    urla alla marea un’ala
    trafitta di chiodi
    un frammento di buio strappato a un delirio di luci

    forse
    già da bambino abitava il fuoco
    che il giorno porta iscritto dentro il palmo
    gabbiano insonne
    che misura il naufragio della storia
    come si guarda il tempo di una vela
    in balìa delle onde
    del crepuscolo –

    ora dal reliquiario delle sue sacre ombre
    qualcuno libera serpi
    a impastare il pane delle stelle…

    …solo la sua mano
    ancora
    s’illumina
    all’oracolo sapiente della spiga
    recita parole d’esilio
    esorcismi contro l’artiglio
    uncinato della grandine
    una preghiera a un dio senza altari
    un breviario di immagini
    dove il fumo che spunta dai camini
    non è alito di ceri e d’incenso ma un respiro
    che ieri
    aveva occhi
    e voce

    era
    dita smagrite d’infanzia
    che disegnavano rotte di astri splendenti
    sulle pareti dell’inferno
    nei corridoi di Terezin
    o tra le case sventrate del ghetto –
    era
    bambini che ritagliavano ali di luce
    scavando coi denti nell’ombra
    incidendo brandelli di pelle
    sul corpo inesplorato degli anni
    dove non sarebbero stati –

    rischiaravano la pianura boema
    annerita da nuvole d’acciaio
    solcata da transiti di uomini cavie
    stipati nel ventre
    di carri bestiame…

    … se ti fermi e accarezzi la terra
    che conserva il calore
    la linfa di giorni infiniti
    mai nati
    ogni stelo che spunta ai tuoi piedi
    ha la forma di un calice –
    simbolo perenne di un unico rito
    il ritorno ai deserti di un grido

    (i vivi – diceva
    è
    appena un
    rigagnolo di vino memoriale della terra e
    delle stagioni
    che dall’orlo colmo cade
    e accende sui prati
    alfabeti fraterni
    di assenza –

    lumi apparecchiati
    per la cena interminabile
    dei morti )

    ogni sera accosto alle labbra
    la sua pupilla di sopravvissuto – estranea a un mondo
    che rimargina ferite con l’oblio l’orrore
    con il balsamo e i drappi putrefatti
    dell’eterno

    – incessante
    dismisura del sentire mappa vegliata
    da silenziosi inverni
    dalla neve che cova salici e mulini
    giorni d’alveare nel cratere
    dei numeri abrasi sfrangiati dall’unghia della tenebra
    sul braccio –

    muta sorgente
    di polvere

    rifiorita d’albe nel passaggio

  3. N.B.: dopo avere premuto “submit comment”, il testo non è apparso nell’impaginazione originale.

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