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IN-SEGNARE 3

Terza rata della conversazione sull’insegnamento con Tina Nastasi.

Cara Tina,

molti sono gli spunti che si potrebbero cavare dalla tua risposta, ad esempio questo qui ultimo del gioco che davvero dovrebbe essere ripreso e rimesso sul suo bel piedestallo. Io lo utilizzerò mettendoti in mano un altro oggetto da manipolare, di quelli abbastanza scottanti per la classe degli insegnanti (ovviamente universitari ampiamente compresi, anzi), e sarebbe la patata bollente della /collaborazione tra insegnanti/. Orrore e raccapriccio, non sarà mica vero che adesso, dopo tutto le ore che devo fare con quegli squinternati studenti, devo anche perder tempo ad accordarmi con dei colleghi che della mia materia nulla
seriamente sanno? E via delirando.

Non solo per quanto riguarda la demenziale divisione drastica tra materie “umanistiche” e materie “scientifiche”, che evidentemente nulla di umano hanno, ma anche all’interno di ognuno di questi due settori, l’insegnante d’italiano vorrà per caso mettersi d’accordo con quello di filosofia e con quello di storia dell’arte, o di lingua straniera, ecc., per spiegare il Rinascimento o il Romanticismo, per dire, in modo coordinato Capisci questa parola, coordinato? Scusa l’ironia, ma questa operazione non si faceva nel mio liceo di cinquant’anni fa e non si fa oggi nel liceo dei miei figli. Ma sarebbe così pazzesco?

Caro Antonello,

riflettevo appunto in questi giorni sul motivo per cui i nostri ragazzini (scuola media) arrivano dalle scuole elementari mediamente entusiasti e curiosi verso gli oggetti culturali e le esperienze che la scuola propone loro e nel giro di un anno, in seconda media, li ritroviamo generalmente studenti apatici e indifferenti ai cosiddetti “stimoli didattici”. La spiegazione facile che si dà solitamente di tale fenomeno chiama in causa invariabilmente gli ormoni e le caratteristiche evolutive della preadolescenza. Ritengo tuttavia che gli insegnanti siano in parte responsabili di questa disaffezione degli studenti verso il sapere e la cultura.

Mi spiego. Gli insegnanti delle scuole elementari sono tenuti per contratto, e quindi abituati, a lavorare in equipe, sia in classe che in fase di programmazione didattica: spesso tengono lezione in coppia, le divisioni disciplinari sono meno drastiche che nella scuola media, si incontrano ogni settimana per discutere quali argomenti ed esperienze proporre alla classe.
Al contrario, nella scuola media, i saperi sono già frazionati nelle forme canoniche e disciplinari a tutti note, le ore di lezione congiunta tra insegnanti di discipline diverse, anche se affini, vengono malviste – dal momento che, per funzionare veramente, devono venire preparate in coppia e presuppongono una condivisione di intenti e modelli educativi tra gli insegnanti attualmente impensabile – inoltre gli incontri collegiali di programmazione didattica sono ridotti a due per anno scolastico e collocati temporalmente nei primi tre mesi di scuola.
Credo che la situazione di lavoro degli insegnanti di scuola superiore sia pressoché identica. Da quest’ultimo ciclo scolare in poi (e stiamo parlando di scuola non più dell’obbligo), la consapevolezza del proprio “specialismo disciplinare” è piuttosto la barricata dietro cui si trincerano un gran numero di insegnanti che, isolati e divisi, non credono più di avere le risorse intellettuali e materiali per invertire una tendenza che spesso non condividono, almeno a livello teorico.

Questo è naturalmente solo un aspetto del problema. Quand’anche zio Ministero pagasse agli insegnanti tutte le ore necessarie per progettare interventi didattici a tutto tondo e in equipe (cosa che per inciso già fa a livello universitario), pochi, immagino, saprebbero cosa farne, perché in pochi sono professionalmente preparati a comunicare e a divulgare seriamente, e perché no, anche attraverso i media contemporanei, quelli, per intenderci, in cui sguazzano i nostri beneamati fanciulli in barba ai puristi della testualità.

Il mettere in comune ciò che si sa con qualunque mezzo (comunicare) e il narrare a molti in modo chiaro e comprensibile (divulgare), nascono dalla curiosità che è desiderio di sapere e dalla ricerca sui fenomeni, di qualunque natura essi siano. In questo i bambini sono i nostri maestri, instancabili. Utilizzano tutto il loro tempo, soddisfatti i bisogni primari, a studiare e narrare le loro scoperte, meravigliati e desiderosi di condividere il loro sapere con chiunque. In alcuni adulti rimane intatta la sana distanza dalla noia mentale (intellettuale) e la nostra società li investe del ruolo di ricercatori universitari (e gli insegnanti all’inferno, condannati al ruolo sociale di vigilanti). Guai però a giocare troppo con gli altri! Perché nel mondo degli adulti esiste l’idea della proprietà privata delle idee. Attento ragazzo, se poi, a raccontar troppo, ti rubano un’idea, potresti perdere il Nobel o la medaglia Fields!
Abbiamo imparato finora una sola lezione: è pericoloso mettere in comune. E rinunciamo ogni giorno a quel giocoso e infantile fare conoscenza delle cose indicando, facendo smorfie e suoni, mimando forme e spazi e azioni, quando ancora la parola non risuona nella persona del suo significato, al di là di ogni lingua o linguaggio. Se però quella parola significativa la cercassimo con serietà e libertà, allora sì che andremmo a condividerla con chi lavora con noi, sia esso un bambino o un collega.

Una volta trovata la parola, nato il desiderio in noi di comunicarla ai più, il nostro agire ne conseguirebbe: proveremmo a creare una buona forma (Gestalt) comunicativa, degna del suo significato e frutto di un duro lavoro di disciplina sugli aspetti non verbali nel comunicarla. Ho negli occhi e nelle orecchie la grande lezione di teatro tenuta da Dario Fo sul grammelot che tante analogie presenta con i migliori cartoni animati prodotti dalla Warner Bros. e con il film muto di Charlie Chaplin. Penso anche a un modo di comunicare raccontando per analogie tra quello che non si vede o appartiene al passato e qualcosa che tutti possiamo esperire nel nostro presente quotidiano, con quel gesto finale e birichino di chi smonta e rimonta il mondo e che porta a paragonare, per esempio, il peso della cupola di Brunelleschi a quello di un transatlantico come l’Andrea Doria e a concludere, sorridendo di un un pensiero sfrontato: per i fiorentini stare sotto quella cupola era come avere sulla testa un transatlantico.

Quello che ci manca e ci rende dei tristi professori tristi è il gioco. Non ci permettiamo di giocare al gioco del sapere, che per sua natura è un gioco di società: basta solo accendere il cervello prima di parlare. Quanto a insegnarlo, riesce difficile se ne custodiamo gelosamente gli atomi illudendoci di possederne l’intero organismo (detto in tre parole: illudendoci di sapere). Risultato: isolati e divisi, come il nostro sapere, ne enunciamo astrattamente le regole e descriviamo quei poveri atomi che lo costituiscono, individuando, per comodità o convenzione, con sicumera, limiti che qualcuno un giorno si è immaginato di tracciare in attesa che altri lo contraddicessero.

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4 Commenti

  1. Ciao Antonello
    ti sarebbe possibile inviarmi l’intervista nella sua totalità. Veramente preziosa.
    effeffe

  2. “Quand’anche zio Ministero pagasse agli insegnanti tutte le ore necessarie per progettare interventi didattici a tutto tondo e in equipe (cosa che per inciso già fa a livello universitario), pochi, immagino, saprebbero cosa farne, perché in pochi sono professionalmente preparati a comunicare e a divulgare seriamente.”

    Grazie, davvero, i professori di medie e superiori (mi scuso per il plurale) ringraziano. Faccio notare, umilmente, che all’Università non ho mai potuto rintracciare il benché minimo lavoro di equipe dei professori, che peraltro spesso delegavano l’infimo lavoro dell’insegnamento agli assistenti o ai professori associati.
    Sarei curioso poi di sapere se i docenti universitari possano attestare in qualche modo di possedere dei titoli per “comunicare e divulgare seriamente” che sono preclusi a quelli delle medie inferiori/superiori.
    Evidentemente il fatto di avere aggiunto, dopo la laurea, altri due anni di scuola di specializzazione (di fatto altri corsi universitari con frequenza obbligatoria) per poter insegnare non ha migliorato in alcun modo la capacità professionale dei docenti delle superiori, poveretti, si capisce che proprio non ci arrivano, o sono degli indolenti. O i corsi di specializzazione non servono a niente: allora aboliteli, per favore, perché oltre il danno vorremmo (scusate il plurale) evitare di sorbirci la beffa di questi giudizi.

    Mi scuso per questo sfogo con la collega autrice del pezzo. Non credo certo che i docenti siano privi di difetti. A volte mancano anche di passione per l’insegnamento e di dedizione per il lavoro.
    Ma credo dipenda in piccola parte da loro la mancata “messa in comune” del sapere. Si inizi a riformare veramente la scuola, i programmi, i metodi, gli strumenti di intervento; si inizi a trovare una soluzione al precariato, che per i docenti delle superiori inizia a 25 anni e termina intorno ai 45: dopo magari possiamo parlare anche di lavoro di equipe, di diffondere il sapere oltre gli angusti confini disciplinari.

  3. Interessante, molto. Anche la risposta di Galbiati. Da profano – solo per puro culo son finito, dopo un ottimo liceo per esclusivo merito dei docenti, a frequentare l’università negli Stati Uniti e quindi, se non per sentito dire, non ho alcuna idea di come funzioni qui – vorrei aggiungere un dettaglio che, a mio parere, fa la differenza e che racchiude parecchie risposte.
    Parto da un esempio relativo a un altro servizio fondamentale: la sanità. Nessuno si è mai chiesto perché negli ospedali italiani svegliano le persone ricoverate alle 6, a volte alle 5 del mattino e hanno quegli orari assurdi per esami, colazione, pranzo e cena?

    Non sforzatevi, la risposta è semplicissima e non ha nulla a che fare con strani meccanismi medici o efficienze o altre *amenità* che nascono, come naturale risposta, nella testa delle persone di buon senso. No, nulla di tutto questo. Gli orari sono quelli perché, se fossero normali e diversi, non rimarrebbe tempo, ai Professoroni, per gestire con calma le loro attività private; in clinica o in studio privato non fa differenza.

    E cosa c’entra questo con la scuola? C’entra, c’entra ed è la dimostrazione dimostrata che il grande difetto delle nostre strutture pubbliche (scuola inclusa e tranne rare e lodevoli eccezioni, parlo di materna ed elementare) è uno solo: sono pensate, progettate e gestite a uso e consumo di chi ci lavora e non per gli utenti.
    Pare strano, persino brutto a dirsi, ma è così e mi rimane la personalissima certezza che, fino a quando non sarà rovesciato questo caposaldo, questa roccaforte di diritti astrusi, nulla potrà migliorare e nulla migliorerà.

    Buona giornata. Trespolo.

  4. Chiedo venia a Lorenzo per essere stata poco chiara.
    Considero insegnanti anche i professori universitari, seppure nella pratica quotidiana abbiamo imparato a considerarli una specie professionale a sé stante. E l’esiguo numero di professori universitari in grado di comunicare è se vuoi straordinariamente pallido rispetto al numero di insegnanti che lo fanno, e bene, nella scuola. Il che mi fa rabbrividire, se penso che l’Università dovrebbe essere un luogo d’eccellenza di cultura e comunicazione.

    Giusta la tua rabbia e ben fondate le tue motivazioni, non sono d’accordo con le tue conclusioni. Ritengo che debbano essere i professionisti dell’insegnamento a riformare, se non rivoluzionare, i modi di una pratica che per lo più rimane quella di impronta gentiliana.
    Ogni giorno entro in classe dopo aver sentito timori da studentelli serpeggiare fra le pieghe dei discorsi di molti dei miei colleghi (riguardo a sanzioni di qualunque tipo) e ogni giorno entro in classe ricordando quell’articolo dell’ancora nostra, anche se un po’ sciupata, Costituzione, l’art. 33 con quelle sue belle, sempre belle, parole:

    “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.”

    Sono io che scelgo cosa comunicare e come comunicarlo e me ne assumo tutte le responsabilità, prima civili e poi professionali. Solo di queste responsabilità io posso parlare, invitata a dire quello che significa insegnare.
    Altrove devo agire perché la società di cui faccio parte scelga di occuparsi seriamente della cultura e dell’educazione in questo Paese.

    E sono d’accordo con Trespolo. Le strutture pubbliche sono organizzate solo in funzione di chi ci lavora, ma noi cittadini non siamo in grado, per tanti e complessi motivi, di partecipare all’organizzazione dei nostri spazi e servizi pubblici e rovesciare capisaldi e roccaforti.

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