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Punk a Bologna (avventure di un giornalista underground)

di Mauro Baldrati

I giornalisti italiani, si dice, hanno fama di essere piuttosto pigri. Soprattutto quelli alla moda, le grandi firme. Non hanno voglia di sbattersi per produrre servizi, non amano operare sul campo, e rischiare. Preferiscono avere la pappa pronta, riscrivere i flash di agenzia, tradurre articoli dall’estero, becchettare qua e là. E’ meglio stare al calduccio nel proprio studio, o in albergo, che mettere il naso fuori in questo mondo cattivo. Che ci pensino gli altri, gli stranieri, o i giovani, a muovere le chiappe. Giornalisti come i poveri Baldoni, Ilaria Alpi, Tiziano Terzani, Ettore Mo, sono sempre stati una minoranza in Italia.

Se questo è vero, beh, era vero anche durante l’Antico Regno, quando noi reporters underground ci facevamo il mazzo per scandagliare le schiume sotterranee del mondo.

Io avevo sempre la macchina fotografica in mano. Forse era perché avevo appena comprato la leggendaria Nikon F2A, tutta nera, massiccia, con un otturatore che sembrava una macchina da guerra, che tenevo in mano con una sorta di voluttà; fatto sta che non me ne separavo mai. Oggi, anche sulla base della lettura di Sulla fotografia di Susan Sontag, so che era una sorta di chiave di accesso per la realtà, ma questa è un’altra storia.

Fotografavo soprattutto i giovani: gruppi musicali, le bande, le ragazzine con le stanze tappezzate di poster di Marilyn Monroe, giovani teppisti col coltello e gli occhiali neri, motociclisti. La F2A mi apriva tutte le porte, mi permetteva di essere un esploratore e un navigatore.

Sfogliando le riviste illustrate ammiravo le immagini dei punk inglesi, bellissimi. E i punk italiani, mi chiedevo, dov’erano le foto? Si narrava che un fotografo, a Milano, era stato preso a sassate mentre cercava di ritrarli col teleobiettivo. Erano inavvicinabili, ostili.

Inavvicinabili per me e per la mia F2A? Impossibile. Non esisteva ambiente in cui noi due non potessimo entrare. Non avevo dubbi: avrei fotografato i punk italiani.

Così telefonai al direttore del Frigido e gli proposi la cosa. “Ma bene!” disse subito. “Molto interessante. Cerca anche di intervistarli, non c’è niente in giro su di loro”.

Le interviste, certo. Mi piacevano le interviste. Cioè, io sono sempre stato un pessimo intervistatore, questo va detto, mi ingarbugliavo, facevo domande contorte, andavo fuori tema, ma proprio questa mia difficoltà, questa mia crisi perenne era avvertita dai soggetti che intervistavo i quali, per aiutarmi – o forse per togliersi dai guai – mi aprivano il loro cuore e non la smettevano più di parlare. Sì, avrei fotografato e intervistato i punk italiani.

A quei tempi vivevo ancora al paese, così andai nell’armadio di mio padre e presi il suo vecchio impermeabile degli anni Quaranta, larghissimo di spalle e stretto in vita da un cinturone con la fibbia dorata. Gli attaccai sul bavero due badges rasta che avevo comprato in un mercatino, poi andai a rovistare in un cassettone in cantina che conteneva ancora le mie cose da ragazzino e la trovai: la fascia elastica ricamata che mi mettevo intorno alla fronte quando avevo i capelli lunghi, dieci anni prima. Quindi scesi in garage, aprii l’armadietto delle cianfrusaglie di mio padre cacciatore e presi le due bellissime penne di fagiano che conservava come trofeo (grazie a Dio mio padre non è mai stato uno di quei dementi che imbalsamavano gli uccelli uccisi). Tornai nella stanza da letto dei miei genitori, dove c’era uno specchio a figura intera, infilai le penne nella fascia elastica e mi guardai: ero una via di mezzo tra Humphrey Bogart, un indiano sioux e un rastafari. Perfetto. Sapevo che l’aspetto fisico era importante in certi casi. Una volta per avvicinare dei teppisti molto temuti, dei ragazzotti che avevano fatto saltare in aria per errore l’acquedotto di un paese vicino, lasciando la cittadinanza furiosa senz’acqua per un mese, mi ero presentato zoppicando vistosamente; trascinavo una gamba, come se fossi uno sciancato grave, ma portavo la mia menomazione con dignità, anzi, con durezza. Li guardavo con aria di sfida, e parlavo bruscamente, come se non avessi tempo da perdere con le loro idiozie. Loro mi fissavano dietro gli occhiali scuri, con volti inespressivi. La cosa funzionò. Realizzai delle foto meravigliose, immagini in posa con esibizioni di coltelli, una pistola (era finta, d’accordo, ma sembrava vera) e le immancabili pose da bullo.

Aspettai che tornasse la mia fidanzata Lucilla da un paese del Polesine dove lavorava tutta la settimana (era venerdi), intanto mi rollai un paio di canne di erba romagnola coltivata in un luogo segreto sull’argine del fiume, tanto per “mandare giù il dispiacere”, come dicevano sempre i vecchi del paese quando si facevano un bicchierozzo.

Lucilla arrivò alle otto, trascinando il suo valigione, stanca dopo otto ore di lavoro nell’ufficio contabilità di una cooperativa edile e 150 chilometri di macchina. Salì faticosamente le scale della casa semidiroccata dove abitavamo ed entrò nella stanza disadorna e disordinata che, secondo i canoni dell’abitare, era il salotto.

“Lucy” dissi, balzando in piedi, “andiamo a Bologna”. La borsa con l’attrezzatura era già pronta sul pavimento.

Lucilla mi guardò a bocca aperta, ancora col valigione in mano.
“A Bologna? Adesso? No, sono stanca morta”.
“Dobbiamo andare adesso” dissi con enfasi. “Andiamo a fare delle foto. Partiamo subito, sennò si fa tardi”.
Lucilla lasciò cadere la valigia e sospirò. Quando dicevo “a fare delle foto” non c’era speranza di farmi cambiare idea, lei lo sapeva, io lo sapevo; era nelle cose, era il destino.
“Non potremmo andare domani?” disse, ma senza convinzione.
Domani? Non se ne parlava. Ero pronto adesso, in quel momento preciso; ero in tiro, l’energia era al massimo, impossibile perdere quell’occasione.
“No, Lucy, si va subito. Andiamo a fotografare i punk, e anche a intervistarli. Prendi il registratore”.
“Ma io ho anche fame” disse, debolmente, guardando il pavimento di piastrelle a orribili chiazze marroni che era di gran moda nelle case del dopoguerra.
“Uh. Anch’io. Ci mangiamo un panino per strada”.
Non aspettai la sua replica, mi catapultai in camera da letto, inforcai l’impermeabile, la fascia sulla fronte, le penne di fagiano e mi presentai a lei. “Che ne dici?”
Lucilla mi guardò stranita. “Oh” disse. “Ah”.
“Ok” tagliai corto. “Andiamo, dai”.
Presi la borsa con la F2A, l’inseparabile 28mm, la mia focale preferita, le pellicole e il flash, mentre Lucilla faceva una puntata in bagno. Scendemmo le ripide scale di travertino sbrecciato, salimmo sulla mia R4 e partimmo per Bologna.

Percorsi i 70 km immerso in una sorta di sogno, come sempre mi accadeva prima di un servizio impegnativo. Era un magma caotico di paura, eccitazione, gusto della sfida e chissà che altro. Ero assente, incapace di ascoltare il resoconto della settimana di Lucilla, di rispondere alla sue domande. Ero sospeso nello spazio, brancolavo nella notte profonda.

Arrivammo a Bologna, dopo una breve sosta in un desolato bar sulla statale, e puntai subito verso Via Marconi. Era lì il punto di ritrovo, davanti a un negozio di dischi. Parcheggiai a una certa distanza, perché volevo arrivare a piedi, volevo vedere le loro immagini che ingrandivano progressivamente.

Mentre Lucilla ed io avanzavamo sotto il portico affollato, li vidi: erano una decina, forse di più, al bivacco. Molto bene. Il materiale umano c’era. I giubbotti di pelle nera, i chiodi, brillavano sotto la luce dei lampioni; niente creste colorate, quelle erano cose per i modaioli inglesi. Gli italiani erano più sobri, più duri, più politici.

Arrivammo nel gruppo e ci fermammo. Mi guardai intorno, li fissai per bene. Anche loro mi fissavano. Guardavano le penne di fagiano, l’impermeabile enorme, i badges rasta. I miei occhi, duri e aggressivi, dicevano: “e allora? C’è qualche merdoso punk che osa stupirsi del mio aspetto?”

Mi avvicinai a un tipo alto e massiccio con una faccia da bravo ragazzo. Era appoggiato al muro in postura di puro disgusto, ma il viso era buono. Poiché anch’io ero un tipo buono, cercavo istintivamente i miei simili. E il mio istinto non sbagliava mai.

Mi presentai: siamo del Frigido eccetera. Lui sbatté le palpebre. “Urgh” fece.
“Senti un po’, voglio farvi delle foto”. Intanto aprii la borsa, tirai fuori la F2A e montai il 28. “Delle foto, così” dissi, infilando il manico del flash nella baionetta, “roba buona, roba forte, in bianco e nero”.
“Urgh. Argh” disse.
“Bene, stai così, non ti muovere”. Lo inquadrai e scattai. Il flash lo accecò. Quello era un momento molto delicato, dalla sua reazione poteva dipendere la riuscita del servizio. Si irrigidì, guardò per aria, come se avesse difficoltà a respirare, poi si rilassò, e fece tutto quello che gli ordinai: girati di spalle (facevo spesso le foto di spalle col soggetto appoggiato al muro con le braccia alzate, come in stato di arresto), di fianco, guarda in macchina e così via.

Bene, era andata. E ora volevo gli altri, li volevo tutti.
“Ok ragazzi, facciamo un po’ di scatti come si deve adesso”.
Sentivo le penne di fagiano che vibravano sotto la leggera brezza che scorreva sotto il portico come in un corridoio. Li tenevo in pugno. Li avevo colti di sorpresa, non potevano resistermi. Mi dedicai a due ragazze molto giovani, di non più di quattordici anni, che scoppiarono a ridere e si lasciarono fotografare in maniera meravigliosa, offrendosi completamente, senza riserve né timidezze.

Coi tipi più coriacei, quelli che si chiudevano a riccio, mandavo avanti Lucilla. Lei era avvolta da un’aura molto particolare, come un riverbero di candore infantile che faceva breccia nei cuori più duri e scioglieva ogni resistenza. Un gigante biondo con un paio di anfibi che sembravano due dragamine le ciondolava intorno docilmente e si lasciava sistemare come un manichino contro una colonna.

E io scattavo, scattavo, felice perché vedevo il servizio che prendeva forma, e la F2A assorbiva vorace tutti quei neri scintillanti, quei grigi, quei bianchi luminosi.

Mentre concludevo quella documentazione stupenda, la più fantastica di tutta la mia produzione, una voce mi apostrofò.
“Ehi, sei fortunato, sai?”
Un ragazzo magro, con un faccia ironica, mi squadrava ridendo. “Stasera siamo in parecchi qua. Non capita spesso, di venerdi”.
Aveva una voce dolce, un timbro garbato. Si chiamava Giampi, ed era il leader, disse (per la verità non usò il termine leader, ma era quello il senso) dei punk anarchici. Accanto a lui c’era un tipo più massiccio, coi capelli rapati quasi a zero. Era Steno, il referente dei punk nichilisti.

Li fotografai di fronte e di spalle, under arrest, come gli altri. Ed ora era il momento delle interviste. Giampi e Steno mi illustrarono, come degli oratori consumati, le posizioni degli anarchici – politicizzati, pacifisti, ecologisti – e dei nichilisti – rabbiosi, pessimisti, provocatori: i loro gruppi di riferimento, il loro guardare al movimento punk di Berlino come il più avanzato del mondo. Ci diedero appuntamento per l’indomani, sabato sera, in un magazzino occupato per un concerto. Non potevo assolutamente mancare, disse Giampi, sarebbero venute delle foto “fantastiche”.

* * *
Mentre tornavamo verso la macchina, a mezzanotte e quaranta, mi complimentai con Lucilla: i suoi modi garbati, il suo fascino avevano fatto parlare dei tipi chiusi come crostacei. Lei rideva, cadeva dalle nuvole. Non si rendeva conto delle proprie qualità.

Guidai verso casa in uno stato di trance, pensando furiosamente alle immagini, ai problemi tecnici, alle interviste da sbobinare. Sapevo che la notte non avrei chiuso occhio. Lucilla invece dormiva profondamente, si era addormentata di colpo mentre giravo la chiave dell’accensione.

* * *

Mi alzo alle cinque, distrutto dalla veglia, ma mi riprendo con un fiume di caffè e due brioches laidissime al cioccolato. Il cuore mi martella nel petto, ho un’unica esigenza totalitaria da soddisfare: sviluppare il materiale. Prendo i rullini e, mentre Lucilla dorme, scendo le scale, esco in cortile, giro intorno alla casa ed entro nel miniappartamento al piano terra, che si trova accanto alla stanzona dove vive la mia vecchia nonna svalvolata. Sono due locali privi di mobili, a parte il tavolo che regge l’ingranditore e le vaschette coi bagni di sviluppo. Qui infatti ho allestito la mia camera oscura, qui lavoro per ore, per giorni e per notti quando ho del materiale importante.

Benché sia tormentato da questo entusiasmo frenetico, da questa tensione che mi spacca in due quando un servizio è ancora nel limbo delle pellicole non sviluppate, i miei gesti sono precisi, attenti: sviluppo i rullini, li lavo, li asciugo e li guardo controluce: subito un senso di calma inizia a diffondersi nel mio animo febbricitante: tutto bene, anzi benissimo; i negativi sono perfetti. Saltello sul pavimento e prendo a pugni l’aria: sììì!!! E’ una documentazione superinteressante, nessuno in Italia ha niente del genere, ne sono sicuro.

Bisogna stampare adesso. Preparo gli acidi, accendo la luce gialla, mi metto al lavoro.

A mezzogiorno scende Lucilla. Ha gli occhi gonfi di sonno, la voce rauca. Guarda le stampe appese al filo ad asciugare. “Belle” dice.
“Sì!” esclamo. “Hai visto che roba?” Sono davvero belle: dei 30 X 40 ad alto contrasto, come nel mio stile.
“Dunque…” dice Lucilla, “stasera… cos’è, torniamo a Bologna?”
“Ehm sì” dico, immergendo una stampa nel fissaggio. “C’è un concerto importante”.
Silenzio. La sento sospirare. “Volevo chiedere all’Antonella e Piero se uscivamo a cena insieme…” Di nuovo silenzio. Le vado vicino, le prendo le mani. Le mie puzzano di fissaggio.
“Lucy, ti prego, cerca di capire. Devo concludere il servizio, è importante”.
China il capo. “E’ sempre importante” mormora, a testa bassa. Non insiste. Conosce la mia febbre cerebrale. Sa che sarebbe inutile. “Va bene” dice. “Vado a preparare da mangiare. Vieni su tra un po’”.
“Eh?” dico, mentre faccio scorrere la pellicola nella maschera dell’ingranditore.
La sento mentre sale le scale. Canta.

* * *

Il locale è un seminterrato, in centro. E’ molto ampio, disseminato di colonne verniciate di nero. Anche i muri sono verniciati di nero, ma in molti punti l’intonaco si stacca, così ci sono delle chiazze color pietra non ancora verniciate. E’ stracolmo: ci sono i punk, quelli che ho fotografato ma anche altri, ragazzi giovanissimi stipati sotto a un palco allestito con delle assi grezze da muratore; gruppi di studelinquenti, militanti di Autonomia Operaia. Sul muro dietro al palco è appeso uno striscione con la scritta: “Occupare le case sfitte”. Gli occhi mi lacrimano per il fumo, così denso che oscura persino la luce delle brutte lampadine che pendono dal soffitto.

Due punk ben piantati non ci mollano un istante. Sono le nostre guardie del corpo. Uno di loro, un ragazzo coi capelli cortissimi, la gonna e le calze a rete (era un particolare stile punk berlinese quello di inserire elementi femminili nel proprio aspetto) dice che la mia macchina fotografica è troppo bella, potrebbe suscitare tentazioni troppo forti. Guardo la F2A: sono d’accordo.

Dopo mezz’ora inizia il concerto. Sono in quattro: cantante, chitarra, basso e batteria. Nella sala si riversa subito un ruggito furibondo, una materia sonora solida, selvaggia che ingoia ogni ritmo, ogni melodia. I ragazzi sotto al palco ballano e si spintonano, come fanno i punk, mentre gli autonomi e gli studelinquenti vagano per la sala, con aria assente.

Dopo quaranta minuti decido che ho scattato abbastanza. Le orecchie mi fischiano, la testa mi scoppia. Faccio capire a gesti a Lucilla che possiamo andare. Salutiamo i due nostri accompagnatori e usciamo all’aria aperta. Respiro a pieni polmoni, mi sembra di essere in montagna dopo l’oppressione di quella cantina fumosa. Ho il tam-tam della musica cavernosa ancora nelle tempie.

* * *

Spedisco le foto e le interviste con un corriere. Non me la sento di andare a Roma. Non ho dormito per due notti, e quando la tensione che mi sosteneva è calata mi è venuta una febbricola e un mal di schiena che mi ha costretto a letto per un giorno e una notte.

Telefono al direttore. E’ entusiasta. Gli va dato atto che, se un servizio gli piace, non lesina le lodi. Forse perché in questo modo compensa l’esiguità del compenso. Infatti me lo paga una miseria, una cifra che basta appena per i viaggi a Bologna e una parte del materiale fotografico. Ma è inutile protestare. Col direttore è così: prendere o lasciare; e siccome il servizio è in mano sua, e non lo mollerebbe per nessuna ragione al mondo, è inevitabile lasciare. E poi sono troppo contento del lavoro, la mia documentazione sui giovani adesso è monumentale, unica.

* * *

Il servizio uscì dopo due mesi. Era su sei pagine, uno standard elevato per la fogliazione di quel periodo, in cui i servizi raramente superavano le quattro. Ne comprai due copie e le riposi gelosamente nella mia collezione.

Dopo due settimane mi telefonò Giampi.
“Eilà” dissi, sorpreso.
“Bellissimo il servizio” disse. “Complimenti. Le interviste sono così… fresche, sincere. Le foto poi… splendide”.
“Grazie” dissi.
“Hai visto l’#*+?” chiese, e nominò uno dei settimanali più diffusi.
“No. Perché?”
“Te l’hanno copiato completamente. Va’ a comprarlo, è pazzesco”.
Riattaccai in preda a emozioni contrastanti: mi divertiva l’idea che i giornali ricchi sfruttassero il lavoro di avventurieri squattrinati come noi, questo confermava alla perfezione che su questa terra il Potere vince sempre le sue battaglie, mentre noi, gli ultimi eroi solitari, i cavalieri del Santo Graal, siamo sempre sconfitti, derubati, perché così vuole la Storia, così vuole Dio. Ma domani noi saremo i primi, mentre loro, gli egoisti e i furbi, razzoleranno nella merda. Però provavo anche rabbia, disprezzo, voglia di vendetta.

Andai all’edicola e comprai la rivista. Il servizio era molto esteso, firmato Santi Piotta, uno dei giovani rampanti del giornalismo in di quegli anni. Con stupore lessi le nostre interviste inserite nell’articolo, che era il solito svolazzo mondano, salottiero; le interviste erano diventate sue, le aveva realizzate lui. L’impianto del testo poi si basava sul fatto che i punk italiani si dividevano in anarchici e nichilisti, e facevano riferimento al movimento di Berlino.

Scoppiai a ridere. No, era troppo buffo, inutile arrabbiarsi. Seduto al suo bel tavolinetto, col telefono in mano, gli era stato servito su un piatto d’argento questa bella pietanza già cucinata e condita. Doveva solo consumarla. Che fortuna, eh?

(Foto – “Trio punk”- di Mauro Baldrati)

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5 Commenti

  1. bella foto.

    il romanzo punk della narrativa italiana è Costretti a sanguinare di Marco Philopat, che considero un libro bellissimo, con dentro una Milano ancora viva e scalciante.

  2. Divertentissimo. Mi ha colpito il personaggio della fidanzata Lucilla, così rassegnata di fronte alla furia del protagonista, che la sfrutta senza pietà per ottenere i suoi scopi.

  3. Il racconto è davvero godibile e divertente. L’ansia e la voglia di uno scoop; il desiderio di scrivere dalla “prima linea” -un reportage fatto non di parole ma (scomodando Artaud) di sangue e nervi con i soldi per il servizio che passano quasi in secondo piano -residui (sani) d’idealismo?
    Ma poi arriva il Piotta… Quanti ce n’è come lui? Ed è ancora lì, il Piotta, uno stimatissimo copiaincollatore che ha fatto della scrivania non la Fortezza Bastiani di Buzzati ma la Malesia dove anche Salgari non è mai stato.

  4. Così intriso di realtà da sentirmi partecipe a una proiezione in dissolvenza incrociata tra le immagini del “materiale umano” e le emozioni del reporter.
    Non solo leggo…… vedo!.
    Così carico di energia da risultare una piuma (penna) l’F2a.

    Così vero da comprendere con un sorriso : “la rabbia e la fortuna”.

  5. il candore infantile di Lucilla mescolato al tuo fremito bestiale, al destino…
    le scale di granito sconnesse salendo le quali lei canta, felice di essere li, i portici di Bologna, il paese, sembra di esserci e di sentire gli odori respirare il caldo e il freddo… la rassegnata complicita’ di Lucilla perfino difronte a quelle terribili penne di fagiano…fanno del tuo racconto un pezzo bellissimo da leggere, da guardare, da rileggere per sorridere e per dire…aspetta un attimo, come diceva gia’ li’…e quando succede, be’ credo sia un ottimo segno.
    grazie Mauro
    pap

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