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La sciagura dei romanzieri italiani: risposta al comparatista Rizzante

di Giacomo Sartori

1. Il comparatista

Massimo Rizzante è un (ottimo) comparatista, e nel testo pubblicato su Nazione Indiana (qui) ragiona da comparatista. A differenza del tassonomo, che classifica tutto, lottando anima e corpo contro la labirintica infinitezza del reale, e correndo a volte il serio rischio di prendere il proprio naso per una nuova interessantissima specie, il comparatista vola alto nei cieli. Con le sue potenti ali di grande rapace, che gli permettono di farsi un baffo delle ripide e perigliose scarpate che separano le varie vallette che incidono il paesaggio – punta con sicurezza sulle prede di proprio gusto: il suo acuminatissimo sguardo è rivolto alle prede più appetitose. Della fauna minore e dei vegetali che chiudono la catena alimentare nelle varie vallette gliene importa in fondo assai poco. Si potrebbe dire, con un’altra metafora, che la sua visione è quella di un raffinato gourmet, poco preoccupato di cosa si mangi nelle trattorie di second’ordine, sprezzantemente indifferente all’esistenza dei fast food.
Ma le cose che dice il (sempre lucidissimo) comparatista Rizzante su Nazione Indiana sono sacrosante, oltreché dette molto bene, intendiamoci. Il cuore del romanzo che batte anche e soprattutto fuori dall’Europa che lo ha visto nascere, l’impero romanzesco con le sue province, la letteratura mondiale come narrazione della diversità… Bellissima e davvero azzeccata la metafora dell’albero e dello scrittore-ramo, belle e vere tante altre frasi che non cito, perché il testo è fulgido e ricco così com’è, e mi sembra un peccato tagliuzzarlo. In quanto lettore/fruitore, poi cercherò di spiegarmi, sono completamente d’accordo con Rizzante. Tra le altre cose concordo: guardando a un qualsiasi grande capolavoro, l’appartenenza a una lingua, a un luogo, e ancor di più a una nazione, perde completamente senso: “ogni nuovo ramo dell’albero del romanzo è una misteriosa messa in dubbio della sua genealogia”.
I problemi però nascono – secondo me, che sono solo scrittore, e che quindi vedo le cose dal mio punto di vista pragmatico di scrittore – quando, abbassandosi vertiginosamente di quota, e cambiando quindi radicalmente di prospettiva, si entra nello specifico delle modalità della genesi di un determinato testo letterario (nella fattispecie un romanzo). Il testo letterario – quello stesso testo letterario che nel migliore dei casi potrà essere paragonato e messo allo stesso livello dei migliori testi delle altre lingue, entrando nella ridottissima crème della letteratura mondiale (in realtà solo di questa ci parla Rizzante) – nasce dalla scrittura di un individuo. Nasce da una lingua, quella di quel dato individuo scrivente, e molto spesso anche da un luogo, quello del medesimo individuo scrivente. Un luogo in senso lato, intendiamoci: al limite un’altalena tra luoghi molto diversi, una reclusione, un’emigrazione, un dispatrio, un esilio, un doppio esilio.
Lo scrittore non può usare un’altra lingua, perché – lasciamo stare le rarissime eccezioni di scrittori bilingui o trilingui – il suo cervello funziona solo con quella lingua lì, e fa fatica a trascendere dal “proprio posto”, perché ha solo, o prevalentemente, quello. Dentro di lui c’è solo, o prevalentemente, quel posto lì (strutturato – nel suo cervello e nella sua psiche – è inutile dirlo, dalla sua lingua): questo è il motivo per cui molti scrittori nei loro testi ritornano ai luoghi dell’infanzia e della giovinezza. Il nostro scrittore può aver viaggiato moltissimo – materialmente o con il suo mezzo di locomozione di predilezione, la lettura – può aver frequentato molte altre lingue – nella vita di tutti i giorni o nel corso della sua attività preferita, la lettura – ma resta pur sempre inchiodato alla propria lingua e al proprio luogo. Il quale, ripeto, può essere anche un luogo plurimo, o un coacervo di luoghi, al limite un augeriano non luogo. [Questo legame geografico è tanto più forte in Italia, dove l’unificazione dei microcosmi regionali è un evento recente, e che per certi versi è stato digerito solo a fatica e molto lentamente. Non a caso molta della nostra narrativa, e non solo quella passata, presenta – come si sa – spiccati caratteri regionali.] Resta insomma legato alla sua storia personale, che si intreccia a quella dei luoghi dove ha vissuto e, soprattutto, alla tessitura/spessore/tonalità/inclinazioni della lingua nella quale si esprime e che, si potrebbe dire, lo costituisce in quanto essere raziocinante, immaginante e scrivente.

2. La sciagura di essere un romanziere italiano

Uno scrittore italiano ha la sciagura – parlo solo della scrittura narrativa, e in particolare romanzesca, perché per molti altri aspetti non considero il nostro paese peggiore di tanti altri – di essere nato in Italia. Il che vuol dire che lo strumento che ha a disposizione per scrivere i propri testi romanzeschi è la lingua italiana, e nella fattispecie l’italiano attuale, lingua molto recente e per molti versi artificiale. O, per essere più precisi, i vari registri della lingua italiana attuale, ovvero – per essere più precisi ancora – i vari registri delle differenti varianti regionali, o di ciò che di esse resta, della lingua italiana attuale (i linguisti mi perdonino: so bene che dal loro punto di vista, guardando cioè alle origini, le lingue sono molteplici). Certo, il nostro scrittore si avvarrà naturalmente anche del sussidio dell’arsenale rappresentato da tutta la tradizione letteraria in lingua italiana. Ma il più delle volte questo prezioso bagaglio lo può aiutare fino a un certo punto. Lui può amare per esempio alla follia la prosa di Leopardi – scrittore cronologicamente non poi così distante da noi – ma gran parte del lessico e delle costruzioni sintattiche dello Zibaldone non gli saranno mai granché d’aiuto, se non come modello di compiutezza estetica, per il semplice fatto che non sono più attuali.
E il che vuol dire anche, per tornare alla sciagura di cui è vittima lo scrittore italiano, che il materiale per costruire le sue storie è, ahimè, prevalentemente l’Italia attuale. I suoi personaggi – il loro modo di ragionare e di parlare, i loro caratteri, i loro tic, il loro modo di passare il tempo, i loro vestiti, il loro sentimenti – sono italiani. Le sue vicende sono italiane – i drammi, i colpi di scena, le epifanie, i proustiani capovolgimenti prodotti dal tempo, i lieti fine – sono italiani. I paesaggi che descrive sono italiani. E anche qui il grattacapo che si pone al nostro misero scrittore è drammaticamente complicato.
Il fatto è che la realtà italiana non ha interesse. E’ una realtà prosaica, meschina, intrinsecamente non romanzesca. Una mielosa pedissequità adatta al limite per concepire dei lindi telefilm, dei film di cassetta prenatalizi, non certo dei vasti e eccelsi romanzi. Da noi niente torri gemelle centrate da mortiferi e indignanti aerei pieni di carburante, niente tremende guerre in Vietnam e in Irak, niente spettacolari ascese sociali, niente (almeno apparentemente) bassifondi della contemporanea depravazione, niente costante e fervida coabitazione degli estremi, niente lunghi e epici viaggi nella diversità geografica, umana e razziale. La calma piatta. Peggio, un incosciente e diffuso e autocompiaciuto televisivo bovarismo, una autosoddisfazione da far rigirare Gadda nella tomba. Anche il povero paesaggio, malmesso e devastato com’è, ma senza raggiungere dei già più romanzeschi baltici livelli, degli estraniati eccessi, pare che ci si metta. Anche lui connivente, familiare. Perfino quei pochi elementi di oggettiva gravità (per es. gli anni di piombo, le guerre dell’ex Yugoslavia e dell’Irak, che pure ci hanno sfiorato, i barconi di immigrati) vengono subito riassorbiti nell’uniformata e pacificata visione – nelle sue varianti di destra e di sinistra – che sembra essere l’unica che l’Italia sa e vuole avere di se stessa.
Non sto dicendo che in Italia la tragedia non abbia sede, per carità. Anche da noi si soffre, anche da noi si muore. Anche degli italiani muoiono nel mondo. Gli immigrati annegano. Ma la tragedia viene subito evacuata, viene ipso facto dirottata nel melodramma. Dalle ideologie ancora molto presenti, dagli strascichi di una irresponsabilizzante religione, da totalitarie ondate di emozione, da dittatoriali – appunto – programmi televisivi.
Solo qualche isolato delitto, pare riuscire a forare in maniera non rattoppabile la benettonianamente totalitaria superficie. Solo certi impressionanti crimini, solo i figlioli che ammazzano i genitori, la mamma con il faccino serio che trucida il figlioletto a coltellate, la ragazza violentata nel centro della lustra Bologna, le vittime della mafia affogate nel cemento, i cadaveri della camorra con la faccia sull’asfalto. Non a caso tanti scrittori, si sono allora buttati e tuttora si buttano proprio su questi ultimi non conformatizzati materiali. Io stesso per alcuni miei testi ho percorso questa via.
Mi si obietterà che tanti narratori, pensiamo a Cechov, pensiamo agli irlandesi, ma anche e soprattutto a moltissimi ottimi italiani – ad esempio il delizioso Brancati e altri siciliani – proprio a partire da una determinata piattezza provinciale hanno costruito dei capolavori. Sì, è vero. Ma parliamoci chiaro, ciò è maledettamente difficile. E soprattutto se andiamo a vedere più da vicino, all’orizzonte delle desolate distese di neve dei racconti di Cechov si intuisce pur sempre la presenza della grande Mosca, e la Sicilia di Brancati è una Sicilia che guarda nevroticamente a Roma, in perenne e contrastato dialogo con “l’ailleurs”. Il problema dell’Italia attuale è, più che la quasi completa chiusura su se stessa, sul suo meschino e stagnante presente, sul suo anacronistico papacentrismo, sull’allucinante conformismo della stessa opposizione politica, e della cultura di quest’ultima, la latitanza di una qualsivoglia consapevolezza di questi mali. La provincia, si sa, può esprimere qualcosa di interessante solo quando ha una implacabile coscienza della propria pochezza e della difficoltà dei propri rapporti con il resto del mondo.

3. Le strategie degli sciagurati romanzieri italiani

Come fare a trasformare in fertile materiale romanzesco la pervasiva e totalitaria televisione, come utilizzare i bei calciatori e le scosciate vallette, l’onnipresente papa, o anche solo i conniventi spettatori che li guardano sdraiati sul divano (ben diversi, tanto per intenderci, dagli atomizzati personaggi di Carver), che fare della pervasiva e dispoticissima “politica”, dell’imbarazzante capo del governo, dei leghisti, di Bossi, della moglie di Bossi, di Cossiga, dei pochissimo intriganti umma-umma cui si riduce gran parte della nostra esistenza, degli anacronistici eppure arroganti raccomandati, dei carabinieri con la grinta da bulletti, dei milioni di rassegnati co-co-cò? Un compito sovrumano, a mio modesto parere. Io personalmente non ne sarei capace, non di petto, e vedo che attorno a me, con qualche rara bella eccezione, e qualche raro sostenitore (il coraggioso Mozzi ci ha addirittura dedicato una collana), pochissimi ci riescono: la maggior parte degli autori è invece inconsapevole vittima di questo conformista e autocompiaciuto delirio dal quale non sa o non può prendere a sufficienza le distanze. E il risultato è un generalizzato autocompiaciuto conformismo letterario, nelle sue varie sottospecie: il conformismo dei buoni sentimenti, il conformismo della trasgressione, il conformismo dei cattivi sentimenti, il conformismo allo stato bruto… Molti critici nello stesso momento fustigano e, valli a capire, perpetuano.
Certo il nostro scrittore italiano, che in molti casi è invece tutt’altro che sprovveduto, può benissimo cercare di sottrarsi al proprio destino, può cercare delle vie di fuga (il mio non è affatto un giudizio di valore, perché sono anzi convinto che le strategie più diverse possono dare eccelsi risultati, come del resto dimostra proprio la storia letteraria del 900 italiano). Potrà per esempio inventarsi scenari non italiani (il primo esempio di qualità che mi viene in mente: l’ottimo Arpaia dell’Angelo della storia e di Tempo perso). O potrà produrre dei métissages geografico-storici di vario genere, badando a scopare via mano a mano le tracce delle proprie scarpe (come fa Baricco), o addirittura, via praticata da molti negli ultimi tempi, sconfinare in vario modo e in varia misura nel futuro, o nel fantastico/immaginario. Magari assurgendolo, come fa Celati, a unica via creativa, a vero atto di coraggio. O semplicemente può scegliere la collaudata via del comico, nelle sue sottospecie del comico-moraleggiante sinistrese, del comico-grottesco, del comico epico, del comico sbracato… Tutte queste strade, forse non è inutile specificarlo, non rappresentano affatto, di per sé, una garanzia contro una caduta, sebbene di un tipo un po’ diverso, per così dire ammortizzata dal conformismo insito per definizione in ogni genere e sottogenere, nel conformismo di cui sopra. Come naturalmente non lo è nemmeno – lungi da questo – la già citata affollata attrazione nei confronti dei sentieri narrativi con più o meno serrate affinità con i generi giallo e noir.
Nel suo prezioso libro sulla “Nuova narrativa italiana”, Filippo La Porta ha dato la sua lettura delle cause della fragilità, chiamiamola così, del romanzo contemporaneo italiano: la generalizzata tendenza degli autori italiani a indossare una maschera. La qual cosa, nel suo modo di vedere, sembra essere necessariamente un difetto. Questa spiegazione personalmente mi è sembrata per molti versi convincente, per altri assai meno (quanta eccelsa letteratura ci viene da autori che per ragioni varie – seppure quasi mai conformistiche – hanno preferito indossare una maschera!). Comunque sia, mettendosi di buzzo buono si potrebbero forse trovare tante altre cause, anche molto diverse. Legate per esempio alla dimensione/spazio che l’individuo singolo ha in Italia nella società, schiacciato com’è dal prevaricante peso delle appartenenze a famiglie, partiti o tendenze politiche, clan (si vedano i libri sull’identità degli italiani di Calcagno, Galli Della Loggia…): non si vede perché il narratore, nella sua attività di scrittura e nei suoi rapporti sociali, così importanti (in una situazione siffatta) per la ricezione delle sue fatiche, dovrebbe fare eccezione. O anche la lettura potrebbe essere psicologica, in base appunto a questa o quella lettura dei rapporti sociali, o addirittura argutamente psicanalitica. O semplicemente storica: abbiamo dietro di noi un regime fascista, tra le altre cose, dal quale siamo usciti senza minimamente fare i conti con le nostre responsabilità e le nostre colpe, sollazzandoci nella retorica. Come potrebbe oggi lo scrittore trovare di punto in bianco, allora, una voce ferma e chiara? O anche, con quel che di verità che c’è in ogni tautologia – la spiegazione potrebbe essere prettamente letteraria: la debolezza della nostra tradizione romanzesca fa sì che i romanzi attuali siano necessariamente deboli.
Ma il dato di fatto resta: un numero di capolavori (romanzeschi) nel corso dell’800 e del 900 molto ridotto, una “qualità media” dei romanzi attuali – non sono assolutamente d’accordo per generalizzare, e tengo a ribadirlo, perché qualche isolato, e non a caso isolato, svetta pur sempre – molto scarsa, un estremo conformismo di temi, di personaggi, di lingua, soprattutto di lingua, l’assenza delle correnti innovatrici che si notano in altri paesi, ben pochi (pochi, non nessuno) romanzi che possono aspirare a rivaleggiare con i pezzi da novanta citati da Rizzante. I quali, è bene notare, non a caso vengono tutti da paesi – anche poveri, non è questo – per un verso o per l’altro, almeno nel periodo del concepimento dell’opera, in grande fermento.

4. L’importanza delle strategie sbagliate, e in definitiva dei brutti romanzi

Qualunque sia la strategia scelta da un determinato narratore italiano – e qui la prospettiva (è più una differenza di angolo visuale, mi sembra, che una opposizione di interpretazioni) dalla quale io narratore italiano vedo il problema è molto diversa da quella di Rizzante – resta pur sempre il fatto che il narratore in questione è legato non solo alla lingua italiana, ma anche alle strategie letterarie che le sono proprie, vale a dire alle vie individuate dai narratori che lo hanno preceduto e alle vie percorse dai suoi contemporanei. Anzi, proprio da queste ultime, anche quando sono clorotiche, o virosate, o zoppe, o semplicemente piattamente conformiste, meschine, detto altrimenti perdenti, egli trova ispirazione per elaborare le proprie strategie.
Il nostro scrittore può amare profondamente Lezama Lima e Oe e Onetti, può considerarli dei grandi, può averli costantemente in testa come modelli, ma le proprie strategie, vale a dire le armi con le quali egli ambisce a rivaleggiare con loro (la vanità degli scrittori anche infimi è infinita, si sa), egli le mette a punto a partire da Gadda, da Pasolini, dalla Ginzburg, da Manganelli, da Parise, dalla Ortese… dai suoi contemporanei. E questo nonostante certe barriere linguistiche, alle quali accennavo all’inizio, che lo separano da molti autori pur non molto distanti nel tempo. Perché? Perché i problemi linguistici (in senso lato) che egli deve risolvere per scrivere il proprio testo sono gli stessi, o comunque sono molto simili, a quelli che hanno dovuto risolvere Gadda, Pasolini, la Ginzburg, Manganelli, Parise, la Ortese, o comunque restano pur sempre infinitamente più vicini a questi ultimi che a quelli soggiacenti ai grandi testi scritti nelle altre lingue. E’ vero, “tempo storico e spazio geografico si danno sempre appuntamento in ogni romanzo degno di questo nome”, ma l’incontro tra queste due dimensioni è la lingua. O più precisamente un ben determinato e unico registro linguistico (in senso lato: si veda qui) trovato dall’autore in base a una sua strategia azzeccata.
In realtà i problemi linguistici (in senso lato) che il nostro narratore si trova di fronte sono rigorosamente gli stessi che devono affrontare i suoi contemporanei. Gli errori di questi ultimi, i loro fallimenti, lungi dall’essere ininteressanti, rappresentano quindi delle preziose indicazioni, diventano in un certo modo le sue uniche certezze (certezze negative, ma pur sempre certezze), come una serie di boe che segnalano il canale fuori dal quale il suo battello non deve avventurarsi. Le sue strategie narrative, le risposte al conformismo culturale della propria lingua, le elabora – pur tenendo presente i grandi stranieri e le loro potenti voci – a partire dai testi scritti nella sua lingua. Proprio loro, per paradossale che possa sembrare, gli danno gli strumenti per “varcare le frontiere spirituali del proprio paese”, e per evitare di “rinchiudersi all’interno di una minoranza linguistica”. I romanzi stranieri costituiscono un orizzonte, un punto d’arrivo, non un cammino da seguire. Sono preziosissime fonti di ispirazione di strategie, certo, ma nascono da guerre diverse. Come dire, loro possono aiutarlo solo in maniera indiretta, possono solo dargli delle imbeccate, incoraggiarlo a battersi. Solo una profondissima comprensione della lotta linguistica ad essi soggiacente, può eventualmente far sì che la trasposizione di quella determinata strategia – strategia nello stesso tempo aliena e unica – alla realtà linguistica propria, abbia qualche probabilità di successo. Uno dei nostri conformismi letterari, e si potrebbe fare un catalogo, è proprio quello degli scopiazzamenti.
Si potrebbe quindi dire che i nostri tanti brutti e convenzionali romanzi sono in realtà molto utili. Rappresentano degli esperimenti mancati. Rappresentano un oggettivo e autorevolissimo codice, in un ben determinato contesto, il nostro, dei possibili errori. Qualcosa come quei cartelloni che si vedono l’estate nelle farmacie con le fotine dei tanti funghi da evitare. Quindi non scoraggiamoci, continuiamo a indaffararci attorno a questo bellissimo e imprevedibile albero che è il romanzo.
Ma questo potrebbe forse essere detto per qualsiasi letteratura. Le stesse letterature dei fuoriclasse citati da Rizzante hanno dato ovviamente anche degli esempi meno interessanti e, suppongo, stuoli di esempi per niente interessanti. Quanti cubani mediocri – nonostante l’impressionante ricchezza della narrativa cubana nella seconda metà del secolo scorso – per un geniale Lima, quanti passabili scrittori giapponesi per un grande Oe? Qualsiasi creazione letteraria si scontra in realtà con il conformismo – o per meglio dire i conformismi – che affliggono la lingua (in senso lato) della quale si serve. Riuscendo più o meno vittoriosa, riuscendo o meno a emergere. Molta narrativa francese contemporanea – e qui parlo forse con un po’ più cognizione di causa – è impegolata – a mio umile avviso – nelle pastoie della lingua e della storia culturale recente e meno recente francese, nei limiti della pur molto gloriosa tradizione letteraria francese. E che dire degli Stati Uniti, che nello stesso ci danno il meglio e il peggio? Per non parlare delle tante letterature, in termini percentuali la stragrande maggioranza, che allo stato attuale non producono – non sembrano produrre – alcun capolavoro. Certo, ci sono dei momenti magici in cui una data letteratura mitraglia fuori in uno spazio temporale molto ravvicinato uno stuolo di classici. C’est la vie, mi verrebbe da commentare.

***

L’indice della discussione alla quale questo articolo appartiene:
– Massimo Rizzante, La patria dei luoghi comuni, in Nazione indiana, 10.01.06.
– Giacomo Sartori: Lo scrittore, il mercato, Piperno: ovvero del conformismo, vibrisse, 28.01.06.
– Massimo Rizzante: Storia o geografia del romanzo?, Nazione indiana, 01.02.06.
– Giacomo Sartori: La sciagura dei romanzieri italiani, Nazione indiana, 10.02.06.
– Andrea Inglese: La lingua provvisoria, Nazione indiana, 20.02.06.
– Gianni Biondillo: Una lingua che dice, Nazione indiana, 22.02.06.
– Giacomo Sartori: La rimozione del problema della lingua: ovvero del conformismo, che qualcuno preferisce chiamare restaurazione, Nazione indiana, 24.02.06.
– Giuseppe Caliceti: Restaurazione e conformismo, vibrisse, 26.02.06.
Vedi anche:
– Ivan Roquentin: Gianni Biondillo: a proposito di una lingua che dice, 23.02.06.
– In Lipperatura, la discussione in calce a uno stralcio dell’articolo di Biondillo.

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18 Commenti

  1. Rigrazio Sartori per le belle parole sul mio saggio. Tuttavia volevo fare a braccio qualche precisazione. Non sono un “comparatista”, ma qualcuno che pensa che senza “comparare” le opere non si può esprimere nessun giudizio di valore, non si può stabilire nessuna gerarchia all’interno della storia di un’arte. Questo non me l’ha insegnato un “comparatista”, ma diversi scrittori e romanzieri, ovvero coloro che come Sartori “praticano” materialmente il romanzo. Danilo Kis, ad esempio. Kis affermava che uno scrittore degno di questo nome doveva essere in grado di smontare e rimontare diversi congegni letterari – compreso il proprio – compararli fra loro, e rimetterli in moto. E a questo tipo di scrittori e romanzieri che penso costantemente quando leggo e scrivo.
    Un altra breve glossa. Sartori ribadisce in modo intelligente e documentato la “vexata questio” della lingua in Italia. E l’altra non meno “vexata” questione dell’assenza in Italia di modelli in prosa. Ma si spinge anche oltre: dice che “le strategie narrative” di un romanziere devono tener conto soprattutto dei testi narrativi elaborati nella propria “lingua”. Qui dissento, pur accettando completamente quanto Sartori afferma sull’importanza, per dirla con la mia solita metafora, del sottobosco quando si tratta di analizare alberi di alto fusto e del pericolo sempre incombente di produrre frutti non originali. Dissento perché concepisco la storia del romanzo come una staffetta: come potrei comprendere Kis senza Borges? e come Saramago senza Gogol? e come Kundera senza Broch? Chi porta il testimone non parla la stessa lingua, ma può comprendere – ritengo che lo possa sempre, al di là della traduzione – la novità formale, il salto di qualità formale presente in un ‘opera romanzesca. Il punto è un altro, e questo va oltre il discorso di Sartori: in Italia, l’ossessione linguistica di quelli che scrivono come di quelli che leggono non permette agli uni e agli altri di riconoscere i “passi in avanti” di quelle “strategie narrative” di cui Sartori parlava, e quindi neppure di procedere da quel riconoscimento essenziale perché la propria opera romanzesca possa inserirsi in una storia del romanzo. Un romanziere può essere un uomo naif, ma non credo possa permettersi di esserlo di fronte alla “forma”, al “savoir-faire”, alla tecné, alle “strategie narrative”: non può essere né un dilettante né un artista anacronistico. Io sono sempre dalla parte di Sklovskij: “Uno scrittore è la somma delle possibilità tecniche della sua epoca”. Della sua epoca, non del suo paese di provenienza.
    Poi, per quanto riguarda i “pezzi da Novanta”. E’ vero, Sartori: sono contro il populismo, contro ogni strizzatina d’occhio da parte dello scrittore al lettore mediocre.

  2. +della sua epoca, non del suo paese di provenienza+
    ma l’epoca ha anche confini geografici, credo, territori.
    Sono perplessa.

  3. Cara Temp,
    credo di capire cosa tu voglia dire, ma il tuo breve commento è forse troppo lungimirante nella misura in cui presuppone che quanto afferma Rizzante sia un fatto estetico assodato. Mi spiego.
    E’ vero che Kis non è stato soltanto un figlio di Rabelais, Flaubert, Nabokov e Borges, ma anche uno scrittore jugoslavo e centroeuropeo; così come è impensabile prescindere, che so, dalla “latinoamericanità” dei romanzi di Marquez, Sabato o Onetti, benché siano anch’essi “rami” di un albero che affonda le proprie radici in Boccaccio, Cervantes o Rabelais. Ma credo che la risposta di Rizzante a Sartori, come tutto il suo lavoro più recente (che ho la fortuna di conoscere da vicino), vada colta, oltre che nella sua effettiva profondità, nel suo valore oppositivo e anticonformista rispetto alla moda “cartografica” degli studi letterari dei giorni nostri, al “mappismo” critico e alle varie “geografie” letterarie che si compiacciono e accontentano di disegnare tracciati orizzontali intorno al globo, senza più preoccuparsi della verticalità temporale che sempre ha costituito il principio e la condizione di possibilità della durata delle arti (che sono ciò che di meglio gli uomini sanno realizzare e che pertanto vale la pena di essere tramandato), a partire dal micromeccanismo che fa sì che ciascun artista debba imparare il mestiere presso una qualche bottega di un qualche maestro e/o servirsi dei modelli che più sente affini prima di poter dare il proprio contributo significativo, vale a dire incisivo sul lungo periodo, alla propria sfera artistica e nella fattispecie letteraria.
    Forse, perciò, solo dopo aver appurato l’insufficienza della prospettiva “geografica” oggi tanto à la page, riconoscendo dunque l’importanza della prospettiva “storica” di Rizzante, possiamo pensare di riequilibrare sincreticamente la bilancia critica tra storia e geografia del romanzo.
    Allora, forse, anche le questioni della lingua e della forma che rimangono aperte nel dialogo Sartori-Rizzante potrebbero trovare il giusto spazio e il giusto peso l’una rispetto all’altra.
    Forse.

  4. @fm

    temperanza ti ringrazia e ti saluta.

    (purtroppo ha qualche problema tecnico con il computer e non riesce ad accedere alla colonna dei commenti, perciò mi ha pregato di mediare, cosa che faccio molto volentieri.)

  5. Grazie a tutti e due: è sempre un piacere leggervi e confrontarsi con quello che scrivete. Ciao.

    p.s.

    Rizzante non era affatto escluso dalla partita, s’intende. :-)

  6. E’ curioso il ribaltamento di ruoli che si sta manifestando in questa discussione, sorta dalle ceneri di quella su Kundera. Lì lo scrittore boemo non prendeva neppure in considerazione l’esistenza di una critica comparativa, quando denunciava il pericolo di “provincialismo culturale” insito negli studi critici dei grandi del Novecento, appannaggio esclusivo degli “specialisti”; cosa che io contestavo con nomi (Steiner, Bloom, Frye) e riferimenti bibliografici suscitando lo sdegno di Rizzante ed altri; ed ora scopro che Rizzante, che difendeva Kundera, è uno strenuo comparatista. Vabe’. Un’altra cosa: “la prospettiva geografica oggi tanto à la page” non esiste, nel senso che non è mai diventata di moda. Per affermare il contrario bisognerebbe citare i nomi di questi “cartografi” che reputano la dimensione storica come una variabile irrilevante. La “geografia letteraria” era un’espressione priva di senso fino a due decenni fa, giusto un sottoinsieme nazionalistico come per il testo di Dionisotti. L’invito di José Lambert a tracciare nuove mappe letterarie non si sognava neppure di ignorare la dimensione storica, che rimane prevalente; intendeva solo integrarla con un’analisi tematica che attingesse a quell’inesauribile deposito di simboli e metafore che sono i miti classici. Tant’è che gli esempi più illustri di Stoffgeschichte (tematologia) – penso a “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica” di Mario Praz o a “Mimesis” di Erich Auerbach – continuano a far riferimento alla dimensione temporale in cui quei temi si sono formati. In sintesi: la prospettiva storicistica degli specialisti, che relega gli studi critici ai confini nazionali e linguistici prescindendo da ogni orizzontalità, resta quella dominante; come denunciato da Kundera. Ma la prospettiva tematica o geografica, avanzata da José Lambert, George Steiner e Northroph Frye fra gli altri, ci sollecita a considerare la letteratura come un insieme meno statico e rigido, in cui i confini linguistici e nazionali non costituiscano più delle barriere insormontabili. Borges, qui tanto citato, è un autore per molti versi meno latinoamericano che europeo, e meno spagnolo che inglese (si veda “Le cosmopolitisme de Borges” di Michel Berveiller); e i saggi più illuminanti sulla sua opera sono stati scritti da Gerard Genette e Maurice Blanchot, non da ispanoamericanisti. Il comparativismo nasce dall’idea che la critica è essenzialmente una macchina analogica, la cui produzione di senso avviene per accostamento, svelando cioè le parentele profonde che accomunano autori di nazionalità, lingue ed epoche storiche differenti; fino a rinvenire il complesso schema di rapporti dialettici che regola le più diverse espressioni artistiche. “Nessuna passione spenta” di Steiner mette insieme pittura, poesia e musica, e altrettanto fa Trevi in “Musica distante” o “Istruzioni per l’uso del lupo”. Non c’è niente di rivoluzionario o blasfemo in questo, è piuttosto un ritorno all’antico, perché nella Grecia classica non esisteva una netta distinzione fra poesia, musica e danza. Della qual cosa dovrebbero essere contenti sia Kundera che Rizzante.

  7. Garufi, mi pare che Rizzante abbia obiettato di non essere affatto un “comparatista”, ma semplicemente uno che ha imparato molto dai romanzieri, il che temo invalidi la prima parte del tuo commento; mi pare inoltre che tu abbia frainteso qualche altra prospettiva critica, non ultima quella di Kundera stesso. Comunque eventualmente sarà Rizzante, che non si è formato alla corte accademica di nessun comparatista, ma precisamente nei seminari parigini di Kundera sul romanzo europeo, a risponderti in merito, se lo vorrà.

    Quanto a me, devo confessarti che non digerisco bene la fragile spocchia delle citazioni, forse anche perché sono uno che non ha letto molto; di certo non tutto quello che affermi di aver letto tu (Berveiller, per la precisione). Ma quando penso alla moda cartografica dell’accademia, penso per esempio alla “Geografia del romanzo” di Moretti, o alle “Mappe della letteratura europea e mediterranea” curate da Anselmi, o a tanto terzomondismo critico come quello portato avanti da Gnisci e da diverse cordate di angloamericanisti i quali, invece di preoccuparsi di stabilire il valore estetico delle opere promosse all’interno di un canone in fieri esteso a ogni angolo del mondo conosciuto, si occupa semplicemente di gettarle nel gran calderone senza regole (di mercato, anche) della scrittura globale.
    Beninteso che tutto questo, essendo pura accademia, e benché io stesso sia un cococò universitario, non mi interesserebbe se non vi ravvisassi, come si capisce anche dalle parentesi quattro righe fa, un’intima adesione allo stesso spirito del tempo che forgia certe cattive abitudini editoriali e socio-politiche che, come tali, vanno a ripercuotersi sui lettori e sulle lettrici. Ma in questo momento, purtroppo o per fortuna, mi manca il tempo per approfondire questa che considero la più insidiosa delle false coscienze occidentali.

    Prima di salutare, tuttavia, vorrei riportare qui sotto, con il di lei permesso, ciò che mi ha scritto privatamente Temperanza, che costituisce una risposta al mio commento di prima e alla quale in parte ho risposto con le righe qui sopra, ma che forse può suggerire qualche nuova osservazione anche ad altri. Buona giornata.

    StZ
    _________________

    Anch’io, come Sartori, sono d’accordo con Rizzante, il cuore del romanzo non batte in una piccola patria nazionale, né per il lettore né per lo scrittore
    che voglia impadronirsi della tecné.

    Ma nel momento in cui lo scrittore, immerso non in un mondo romanzesco
    nazionalistico e asfittico – giustamente, e qui sono ovviamente d’accordo
    con Rizzante – ma in quella patria (patria? non so come chiamarla)
    trasversale che è il romanzo, si mette all’opera, la lingua per scriverlo lo
    plasma e lo trattiene, anche, all’interno del suo pensare, del suo pensare
    di lingua, per il quale un bosco non è una forêt o un Wald.
    E questo, a mio modo di vedere, anche se non è ossessionato dalla lingua.

    Detto questo, dopo aver letto il tuo commento, vedo che c’è un bel pezzo di reale che non conosco, ed è quel mondo disciplinare “accademico” che io non frequento se non per caso, e forse per fortuna. O meglio, quei pezzi che ho frequentato (Agosti, Lavagetto) hanno sempre spaziato da un autore all’altro in modo diverso e trasversale, dunque capisco che se Rizzante si oppone ai limiti, della *moda ³cartografica² degli studi letterari dei giorni nostri, al ³mappismo² critico e alle varie ³geografie² letterarie che si compiacciono e accontentano di disegnare tracciati orizzontali intorno al globo, senza più preoccuparsi della verticalità temporale che sempre ha costituito il principio e la condizione di possibilità della durata delle arti* come tu dici, parli di un mondo di studi che io non conosco e dunque il mio commento può sembrare molto naif e superficiale.

    Forse anche per una mia certa “sfiducia” nel romanzo, sulla quale tuttavia,
    per non essere fraintesa, bisognerebbe aprire una cartella a parte.

    Temperanza

  8. Errata corrige: L'”Atlante del romanzo europeo” di Moretti (anche se nemmeno il grande Fuentes, nel saggio che ho citato per sbaglio, sfugge completamente dalle insidie dello spirito del tempo…)

    Un’ultima, fondamentale precisazione/risposta a Garufi:
    Il vizio capitale della prospettiva geografica non è quello di trascurare la “storia”, né tanto meno di lasciarsi alle spalle la prospettiva “storicistica” (che non è la stessa cosa di “storica”) di un certo specialismo precedente, ma di trascurare il valore ESTETICO delle opere, che solo attraverso la storia sovranazionale dell’arte in questione, nel senso inteso da Kundera e Rizzante, può essere riconosciuto e valorizzato.

  9. Mi piacerebbe molto che qualche altro scrittore (narratore o poeta) dicesse la sua su questi temi. Sotto forma di commento, o ancora meglio come intervento a sè stante.
    Perchè mi sembra che l’interesse di questo dibattito stia, più che nel voler dimostrare costi quel che costi di aver ragione (ma le cose dette nei commenti sono molto interessanti, intendiamoci: il mio è solo un invito a non fossilizzarsi sulle proprie posizioni), nella possibilità di confrontare approcci anche molto diversi: scrittori “puri”, scrittori attenti ai dibattiti dei critici, critici attenti a quello che pensano gli scrittori, critici con orizzonti diversi…).
    E vorrei chiarire una cosa:
    la mia difesa della centralità della lingua non è un partito preso, è una constatazione a posteriori. Io sono fondamentalemente esterofilo, ho vissuto quasi tutta la mia vita adulta in paesi dove non si parla l’italiano, mi sono formato su testi letterari che non appartengono alla tradizione italiana, i miei più importanti punti di riferimento letterari non sono italiani. Eppure, me ne accorgo ora, dopo molti anni di scrittura, dopo avere scritto diversi romanzi, di quanto la tradizione italiana, come il problema della lingua italiana, sia in realtà per me centrale. Me ne accorgo riflettendo su me stesso, ma anche riflettendo su quanto stanno facendo gli altri autori italiani, sulle diverse vie che prendono, sulle soluzioni più o meno interessanti che propongono. Io parlo alla luce della mia esperienza, la mia unica autorità sono i miei testi di narrativa, il mio unico fine è avere i mezzi per capire meglio e per essere più profondo, perchè mi sembra che molta narrativa italiana soffra di una grande superficialità, anche “teorica”. Altrimenti avrei il buon gusto, di fronte a persone certo molto più ferrate di me sul versante teorico, di starmene zitto
    gs

  10. Giacomo, porta pazienza. Io un mio contributo l’ho scritto 2 settimane fa ma ho promesso a Bonina che non l’avrei postato prima dell’uscita di Stilos. Che è domani.
    Ti abbraccio. Queste discussioni sono belle e intense.

  11. Anch’io, come Gianni, ho scritto una cosa per Stilos sull’argomento, sperando che non ci si pesti i piedi. Ragion per cui, come Gianni, mi astengo dal proseguire la discussione fino a che non sarà pubblicato il pezzo.

  12. Una precisazione: sul saggio di Berveiller che “affermo di aver letto” (o meglio sul tema più generale del “cosmopolitismo” di Borges), ho scritto qualcosa nel lontano giugno 1986, sulla rivista accademica “Rassegna Iberistica (edita da Cisalpino La Goliardica e diretta da Giuseppe Bellini, all’epoca dicente di letteratura ispanoamericana alla Statale di Milano e presidente della sezione umanistica del C.N.R.) Studi ben più autorevoli del mio sulla questione sono stati scritti da Roberto Paoli (“Tre saggi su Borges”, edito da Bulzoni, pp.32-44).

  13. Seguo con grandissimo interesse la discussione in corso e pur non avendo di prossima uscita su Stylos, ma sull’Atelier du Roman, un testo sul tema, spero di postarvelo presto. (lo sto traducendo )
    effeffe
    ps
    Intanto un grazie a Rizzante e a Sartori

  14. Caro Giacomo,

    da dietro le quinte arrivano anche a me inviti a esprimere la mia opinione come scrittore, forse anche perché, visto da fuori, a fianco dei mutandoni critici di Rizzante e della cintura di castità accademica di Garufi, il mio giovane pensiero mascherato da prospettiva critica rimane effettivamente in braghe di tela.

    Tu sai bene, del resto, che una certa mia opera prima ha risentito a tal punto delle questioni che qui si affrontano da averle messe al centro del proprio orizzonte epistemologico, immaginativo e compositivo. E poiché alla mia età tutto quel poco che si ha da dire lo si dice con le opere, e tutto quello che potrei dire qui come scrittore l’ho già detto meglio che potevo in quell’opera prima, anch’io in queste colonne, per ora, non ho altro da dire.

  15. Passo sei mesi all’anno in braghe di tela, le esibirò anche sotto la neve.
    Mi stupisce che nessuno dei commenti abbia affrontato il lato (per me) più drammatico del post, che ha a che fare con la questione della lingua ma non la riguarda propriamente. Ho letto diversi contributi sul romanzo ultimamente, anche perché Davide Bregola ne ha raccolti a decine, compreso il mio, in

    http://www.vibrissebollettino.net/davidebregola/archives/romanzo_xxi_secolo/index.html

    ma questo di Sartori mi ha impressionato perché lui “sente” questa sciagura. Quando dice:

    “Il fatto è che la realtà italiana non ha interesse. E’ una realtà prosaica, meschina, intrinsecamente non romanzesca. Una mielosa pedissequità adatta al limite per concepire dei lindi telefilm, dei film di cassetta prenatalizi, non certo dei vasti e eccelsi romanzi. Da noi niente torri gemelle centrate da mortiferi e indignanti aerei pieni di carburante, niente tremende guerre in Vietnam e in Irak, niente spettacolari ascese sociali, niente (almeno apparentemente) bassifondi della contemporanea depravazione, niente costante e fervida coabitazione degli estremi, niente lunghi e epici viaggi nella diversità geografica, umana e razziale. La calma piatta. Peggio, un incosciente e diffuso e autocompiaciuto televisivo bovarismo, una autosoddisfazione da far rigirare Gadda nella tomba. Anche il povero paesaggio, malmesso e devastato com’è, ma senza raggiungere dei già più romanzeschi baltici livelli, degli estraniati eccessi, pare che ci si metta. Anche lui connivente, familiare. Perfino quei pochi elementi di oggettiva gravità (per es. gli anni di piombo, le guerre dell’ex Yugoslavia e dell’Irak, che pure ci hanno sfiorato, i barconi di immigrati) vengono subito riassorbiti nell’uniformata e pacificata visione – nelle sue varianti di destra e di sinistra – che sembra essere l’unica che l’Italia sa e vuole avere di se stessa”.

    si avverte che si è davvero trovato di fronte alla materia, non da dotto, non da critico, ma per cavarne l’opera, accorgendosi con disperazione che la materia non era plasmabile. Ho avvertito troppo spesso questa sensazione. Troppe volte mi sono ripetuto certe considerazioni riportate da Sartori. Ma non mi sono azzardato a coltivarle, a metterle per iscritto. Troppo facile. Mi sono sempre risposto che era troppo facile. Continuo a confortarmi, periodicamente, con la considerazione che la cialtroneria circostante non mi spinge alla scrittura, ma intimamente temo che il difetto sia nella MIA potenza immaginativa: troppo comodo prendersela con la sterilità del paese. Sartori stesso, del resto, abusando di “anche se” ed “è vero” enumera una non piccola casistica di “terreni agricoli” e ammette: “Io PERSONALMENTE non sarei capace” di trasformarli in “fertile materiale romanzesco”.
    E’ esatto che il gioco provincia-capitale, così fecondo per Cechov e Brancati (e come non aggiungere Fellini?) non c’è più. Ma si potrebbe obiettare che esiste quello provincia/continente o provincia/globo, sia pure – molto spesso – a livello di scontro igienico per il lardo di Colonnata. E diverse altre obiezioni si potrebbero fare. Quando Sartori dice che i conniventi spettatori italiani sono ben diversi dagli atomizzati personaggi di Carver, dà per scontato che questi spettatori esistessero PRIMA che Carver li “inventasse”. Probabilmente, se li avessimo visti stravaccati sul divano, come li ha visti Carver, li avremmo trovati troppo scialbi per lavorarci su.

    Nell’ultimo Stilos Andrea Di Consoli, rispondendo a una domanda su antiche, affascinanti figure, e sul doversi confrontare con le contraddizioni della pacificazione (“uniformata e pacificata visione” sono le parole di Sartori) afferma: “Sono convinto che se l’Italia affrontasse una guerra tornerebbero le grandi idee, i grandi scrittori e i grandi editori. Però mi sta bene così, francamente”.
    E’ questo il punto: possiamo davvero rammaricarci di NON aver avuto l’attacco alle torri gemelle? Meglio non averlo avuto e difettare di ispirazione. Meglio dedicarsi al giardinaggio che sperare in una guerra. Che non servirebbe a nulla comunque: l’idea della “fertilità” di una guerra (“Ti ci vorrebbe intorno una barbarie, fortune che non capitano più!” esclama la santa-puttana di Nostra signora dei turchi) vale quanto quella speculare (dopo Auschwitz non si può più fare poesia). Quando mi viene da lamentarmi del piattume italico contemporaneo mi faccio sempre la domanda spezzagambe: “Quali tragici, strepitosi avvenimenti hanno nutrito la sensibilità di Emily Dickinson?”

  16. Sto rileggendo in queste ore, a qualche anno di distanza dal mio primo corpo a corpo con i suoi romanzi, un bellissimo intervento di Paolo Volponi sulle “Difficoltà del romanzo”, contenuto nel primo volume degli opera omnia in prosa usciti pochi anni fa da Einaudi, NUE.

    E’ un testo del 1966: quarant’anni e non sentirli.

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