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Qui non ho pianto

di Christian Raimo

Quando mi risveglio dall’anestesia senza braccio, la prima cosa che penso è che se mi scappa da pisciare d’ora in poi dovrò tenere il pisello con il braccio destro, e non l’ho mai fatto. La stanza del limbo postoperatorio è illuminata da una luce avvolgente e materna, e anche il ronzio del neon ha un languore tutto familiare. Sono sdraiato su un letto da ospedale grande e rettangolare; mi hanno lasciato qui da solo, a contemplare i miei sensi ancora attutiti, che si risvegliano a poco a poco, il liquido anestetico è ancora in circolo, e io: mi sento così bene.

Il soffitto è altissimo, e di vetro, e sopra il soffitto scorre una balaustra circolare dove hanno potuto spiare tutta l’operazione i tirocinanti di medicina. C’è anche Emanuela nel gruppo dei ragazzi in camice, lei che era a scuola mia al liceo, e che non avevo visto più da allora, fino a due giorni fa, quando è venuta a trovarmi in corsia. Avevano già visto e considerato che riattaccare l’arto era impossibile, l’amputazione per evitare la cancrena era stata decisa, e lei Emanuela, specializzanda in medicina, venuta a salutarmi, accorsa come tanti altri a dire addio al Giovanni-con-due-braccia che tutti hanno conosciuto fin adesso, non ha fatto altro che una faccia angelica, una faccia luminosa che le viene bene: i capelli biondi ondulati e gli occhi azzurro acqua. Ai tempi del liceo non persi la testa per lei, al contrario dei miei compagni, ma adesso guardandola affacciata dalla balaustra, immagino di un tratto che, se mi dicesse Ok vieni con me braccio o non braccio, io non ci penserei poi tanto. Dove altro potrei andare?
Devo stare qui fino a domani, ventiquattr’ore di immobilità, dovrei solo andare in bagno se mi riesce, altrimenti mi infileranno il catetere. Fra poco le luci sparate si affievoliranno, mi hanno detto, mi verrà un po’ di sete ma non potrò bere, e l’effetto della narcosi sparirà pian piano. Mi faranno delle flebo di analgesico, morfina anche, se ce n’è bisogno, ma sentirò dolore comunque. Le prime notti, mi hanno avvertito, sono le più brutte. Perché la ferita tira, certo, e i muscoli si devono abituare al nuovo assetto, ma è soprattutto la testa che farà male, risvegliarsi mille volte nel sonno e accorgersi di essere senza un braccio, e non c’è sonno profondo né sogno miracoloso che possa cambiare le cose come sono. Hai tempo per pensare, hai tempo per fare i conti con te stesso, mi hanno detto, con un tono che non si capiva se fosse minaccioso o consolatorio.
Dopo queste ventiquattr’ore mi ripasseranno in corsia, o magari mi terranno un altro paio di giorni in osservazione, ma potrò ricevere visite, una o due al giorno quantomeno. E tutto il calore delle persone, la pietà profusa oltre ogni previsione, quello mi aiuterà a guarire. Almeno i primi tempi, il braccio mancante sarà compensato dalla continua immissione di sorrisi, di chiacchiere, di sguardi che mi diranno tra le poche altre cose che comunque, anche se non ho fatto niente, anche se sono stato solamente una vittima neanche così sfortunata di un pazzo che si è fatto esplodere in mezzo a via della Conciliazione gridando “Morte al papa e a tutto il mondo”, eccolo, sentirò intorno a me l’alone carismatico dell’eroe, un’aura protettiva da salvato e santo.

Ero andato lì a San Pietro per vedere uno spettacolo teatrale all’Auditorium di Santa Cecilia, una rappresentazione amatoriale messa in scena da mio fratello e i suoi compagni di scuola insieme a altri ragazzi down. Sketches, una serie di sketches ritagliati da Pirandello, Ionesco, Beckett, Pinter e un’altra decina di drammaturghi, che lì sul palco, parevano effettivamente aver scritto apposta le loro cose per la mimica ridotta dei down. Mio fratello faceva Estragone in Godot e uno degli attori nei Giganti della montagna. Il risultato della recita nel complesso era così sopra le righe che ogni battuta si colorava di toni comici e metafisici insieme, pareva un vaudeville impazzito e al tempo stesso un copione per iniziati.
Anche gli applausi erano stati fuori controllo, generosi e sguaiati come sono i gesti sinceri e improvvisi Poi, quando eravamo usciti fuori, semirintronati dai continui sbalzi di voce dei ragazzi down, c’era il sole di maggio. È l’ultima sensazione fisica che mi ricordo, questo sole finto tiepido, invadente. Provo a fare mente locale su come è fatta la percezione del calore sulle mani- La mano. Ora, è vero, non c’è più da distinguere, la destra o dalla sinistra, qui e lì. Sullamano: dove adesso ci hanno infilato dei lunghi aghi che sembrano dei fili di burattino alle vene del dorso.

Lo sapete come è andata. Il ragazzo è venuto fuori all’improvviso, si era sistemato il giubbotto in un bagno pubblico al lato della strada. Aveva un volto da bambino, disperato, impaurito, felice, drogato, chi può dirlo?, tutto insieme. Aveva urlato la frase contro il papa e contro tutto e poi era esploso.
È difficile dire come esplode un uomo. Il rumore che fa è quello di mille palloncini pressati insieme che si sfiatano. C’è anche un odore che senti, o immagini di sentire, dolciastro come i presagi di una morte imminente. È difficile descrivere l’onda d’urto di una bomba, la pressione è identica a un terremoto che però non sai però da dove arriva. Ed è ancora più difficile dire che effetto fa una placca di una bomba fatta in casa con residui di tritolo e pezzi di vetro e plastica che ti entra come un proiettile di fuoco all’altezza del bicipite.
Sventrare (ti ha sventrato…, ti sventra…) non è la parola giusta, la parola giusta è più semplice e cafona: è squarciare. Perché c’è un secondo, meno di un secondo, prima che l’adrenalina, le endorfine o non so cosa inondino i nervi, c’è un istante in cui sembra proprio che qualcosa all’interno del tuo corpo si apra, si spalanchi, pronto a far entrare l’altro corpo, il corpo di quello che si è appena fatto saltare in aria.
È stato il primo attentato del genere a Roma. La città, subito dopo, mentre le ambulanze non erano ancora arrivate, ha cambiato faccia e modi di fare. Si è comportata come una ragazzina violentata. Si è protetta, coccolata, si è chiusa su se stessa. E noi, noi colpiti, noi feriti, noi feriti prima ancora che i morti, siamo diventati in un baleno, i cittadini più romani che questa città abbia mai avuto, le vittime di un sacrificio fatto alla città sul nostro corpo. Le nostre facce immortalate dappertutto, le nostre ferite le icone delle cronache per settimane. A operazione terminata, quando mi dimetteranno, mi hanno già detto che dovrò parlare molto, interviste, dichiarazioni, quasi certamente conferenze stampe. E allora adesso chiudo gli occhi e mi immagino le facce incuriosite, i corpi ammassati, la gente con due braccia a scalmanarsi che mi fa un sacco di domande: Perché qui? Prova rabbia? È una guerra di civiltà? Perdonerà?
E adesso? Devo pisciare adesso, mi dice l’infermiera, se non piscio nel pappagallo dovrà mettermi il catetere. Ha una faccia stanca lei e me lo dice, vuole dormire, stendersi in branda. Che mi decido, o piscio o mi infila. Allora le chiedo se mi fa alzare un istante, giusto il tempo di mettere la vescica in verticale, basta che mi dia una mano lei. Sbuffa ma lo fa, non si dovrebbe assolutamente: uno appena operato deve rimanere orizzontale.
E in piedi le chiedo quello che mai pensavo di chiedere a qualcuno in vita mia. Se mi tiene il pappagallo, e così in piedi, reggendomi il pisello col braccio destro, scomodo, dolorante, con la paura di cadere all’improvviso per le vertigini, con nessunissimo stimolo alla vescica, guardo la faccia dell’infermiera per non guardarle la mano, e poi mi immagino di essere Jim Morrison, devo immaginarmi di essere Jim Morrison che piscia sulla folla, perché la folla osannante non vuole altro, e mi concentro. E quando sento che forse il flusso arriva, sento anche che sta arrivando una botta di torpore, una bolla cerebrale che mi dice che fra poco sverrò e che forse addirittura perderò coscienza per sempre. E quindi se devo dire qualcosa sul mondo, se devo pensare qualcosa, lo devo fare in fretta, devo dirlo, devo pensarci adesso, perché forse quest’infermiera dalle pesanti occhiaie che mi sta tenendo il pappagallo, schifata dal mio pisello moscio che non piscia e non la fa andare a dormire, lei è l’ultima persona a cui posso comunicare qualcosa da cosciente.
Tossisco. Lei mi chiede se va tutto bene, mi ridice Mettiamo il catetere. Io dico, No, sta arrivando. Un attimo solo. E poi le dico: Vede io per quello che si è fatto esplodere non provo nulla, se per caso adesso perdo i sensi e non lo potrò dire di persona…
Piscia, forza!, mi dice lei.
…Se non potrò dirlo di persona a nessuno, io gli vorrei dire che effettivamente è stupido, ma è così. Lui è in mille pezzi e io senza un braccio. Lui sepolto chissà dove e io pieno di antidolorifici, anticoagulanti, che non riesco più a pisciare da solo. Non lo capisco cos’è che dovrei provare. Non so che cos’è questa cosa. Vorrei solo adesso che la vescica recepisse lo stimolo nervoso che le sto mandando da me-
E poi è proprio a questo punto che effettivamente crollo.

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22 Commenti

  1. mamma mia….
    ho i brividi. pesantemente in tema con mille delle mie ultime personali paranoie e riflessioni. incredibile.

  2. un racconto davidfosterwallace-tipo?
    una cattiveria la mia?
    ragioniamo:
    cosa fa uno scrittore? scrive
    cosa se ne fa uno scrittore del terrore che roma possa essere teatro, pure lei, del botto di un kamikaze? lo descrive – bè, narrativamente – chuaro
    e lui il kamikaze cosa ne pensa, dall’aldilà?
    ecco cosa pensa –

    certo che questi vivi già morti sono speciali
    tu, figliolo, per dire – sono accanto a te da minuti e neppure senti che ti sto
    facendo da diavolo custode
    si sarebbe mai detto che uno come me nella mia attuale situazione potesse ritrovarsi a pregare? – eppure io lo faccio, lo sto facendo da minuti mentre te provi a sbloccare il rubinetto
    prego perché vorrei proprio che la piantassi fintone occidentale di poter sfruttare questa parentesi patetica questa tua condizione incantevole di vittima per provarci con l’infermiera
    ma davvero voialtri ci avete la mente deviata così tanto che la quasi morte vi serve solo a arraparvi con candore, vestire la veste candida dell’innocente che può pretendere una masturbazione come un premio e farsi tenere il coso da una donna che vi viene data d’ufficio?
    o sapessi lei quanto poco è addormentata e quanto tanto sta godendo rigorosamente senza fartelo capire, figliolo
    una coppia formidabile di bugiardi, questo siete tu e lei
    monumenti al vostro mondo falso
    e il bello è che quello che si è tirato fuori sono io

  3. sui commenti di NI si usa dire in otto righe piene zeppe di avverbi quello che si potrebbe benissimo riassumere in mezza, forse perchè fa più figo, non lo so.
    io invece me ne frego e lo dico in ancora meno di mezza riga:
    quanto cazzo sei bravo. punto.

  4. Quindi ora sappiamo che Raimo vive con mamma e papà, si è fatto una pera e ha perso un braccio in un attentato terroristico (ma non mi ricordo ce ne siano stati ultimamente a Roma, strano…). Bella questa telenovela, chissà la prossima puntata cosa ci riserva! :-)

    Scherzi a parte mi piace veramente molto quello che scrivi (per quello che può contare la mia opinione).
    C’è una piccola cosa che mi da fastidio in questo come nel precedente racconto: alcuni dettagli (la banca etica, la recita con gli handicappati) sembrano un po’ “mezzucci” (mi spiace vorrei trovare una parola migliore ma non sono scrittore) per comunicare una supposta “bontà di fondo” o “ricerca della bene” da parte del protagonista. Non so… è necessario? è necessario esprimerlo così? Se è un tema importante allora forse vale la pena dedicargli più attenzione, se è un segno lasciato lì per dare una connotazione al personaggio forse varrebbe la pena di trovarne di migliori.
    Sperò mi verrà perdonato l’ardire di questa critica.

    P.S.

    è un refuso? “la pressione è identica a un terremoto che però non sai però da dove arriva”

  5. a me il racconto è piaciuto un casino, se la batte con “trovarsi in mezzo” per la palma del racconto che preferisco su NI , però credo di condividere in parte l’appunto di Il golpista sul ‘buonismo’. in realtà non la metterei proprio in questi termini, però alla fine del racconto ho pensato che il fatto che giovanni fosse andato ad uno spettacolo teatrale in cui c’erano ragazzi down in un certo qual modo mi ha inquinato un pochino tutto il racconto.
    in realtà ci ho pensato meglio, non sono arrivata ancora ad una conclusione, ma credo che questa critica alla fine sia frutto di un mio pregiudizio di fondo. se giovanni fosse capitato semplicemente in quella strada per caso, o anche se fosse andato lì appositamente per scippare una vecchietta, la sostanza delle cose sarebbe sempre la stessa.
    rimane sempre uno i mille pezzi e l’altro senza un braccio.

  6. A me non preoccupa affatto il “buonismo”, non è che avrei preferito che il protagonista avesse appena finito di rapinare la pensione a una vecchietta. Solo mi sembra inutile dire cosa aveva fatto poco prima o lasciare lì così (precedente racconto) che usa la Banca Etica.

    P.S.

    la storia ha dato ragione a Little Tony.

  7. no dai scusa, come fai a dire che ti sembra inutile sapere che cosa stesse facendo lì prima dell’attentato? non te lo stavi chiedendo cosa ci fosse andato a fare? non glie lo avresti chiesto se fosse stato un tuo amico?

  8. non mi permetto di dire “come sarebbe dovuto essere il racconto”, se fossi capace lo scriverei io. Ho riferito solo delle cose che a me danno fastidio, tanto più perché entrambi i racconti mi sono piaciuti molto nel complesso.

  9. no perdonami non mi fraintendere. non è un’accusa, dal modo in cui reagisci sembra che ti abbia aggredito ma non è stata mia intenzione, veramente. ho preso una tua frase solo come pretesto per fare una osservazione che è solo mia. capisco che la pensiamo in modo differente. infatti per esempio il grado di piacere che trovo nella lettura dei racconti per me sta anche nella misura in cui soddisfa/delude le mie attese. non nel senso che mi piace solo se le soddisfa, anzi, molte volte è proprio il contrario. tutto qui! :)

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