Le macchine liriche: sei poeti francesi della contemporaneità (3)

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Terza e ultima parte (Dubois, Suchère) del dossier sulla poesia francese contemporanea apparso su “Nuovi argomenti”, cominciato qui e proseguito qui.

* * *

Caroline DUBOIS. Vive e lavora a Parigi. Ha pubblicato : Je veux être physique, Farrago, 1999, Arrête maintenant, Éditions de l’Attente, 2001, Malécot, Contrat Maint, 2003, C’est toi le business, POL, 2005.

da Je veux être physique (Tours, Farrago, 1999).
Traduzione di Andrea Inglese

Lei comincia con l’ottenere la mia fiducia m’intriga suscita la mia attenzione con ogni sorta di mezzi che Le sono propri poi mi mantiene – senza scosse – placa a poco a poco la mia natura agitata finché io divento quasi perfettamente docile ed ecco Lei mi ascolta – mi porta di piano in piano anche se io non ci riesco anche se è difficile – in modo che possa infine divenire sgombra io voglio essere – questo Lei mi porta a volere – a volere davvero – cosa a cui mi azzardo in effetti all’interno della Sua autorità – davvero volendo dirglielo – questo qualcosa che in me persiste a non scomparire.

Lei comincia io rispondo
ma non so cosa sia né a che cosa
somigli un corpo – Lei mi chiede
a che cosa somiglia
Un corpo – io non lo so

Diciamo – opaco –un corpo opaco
di cui ricordo con fermezza mio malgrado
l’immagine – sì – a cui con fermezza
vorrei sottrarmi – Allora – ma senza riuscirvi

Siccome non ci riesco perché non ci riesco Lei accresce le Sue esigenze – sedermi restare immobile raggiungerLa camminare vicino a Lei rispondere quando mi chiamano per nome o con dei gesti a certe domande che mi vengono fatte capire molte parole diverse ascoltare fare in modo che la mia agitazione scompaia – Lei sa trasformare in un gioco ciò che per me dovrebbe essere un lavoro – dando con fermezza – in modo da farmi associare il tono della Sua voce all’esecuzione di ordini semplici divertenti che tutti devono conoscere. Io sedotta rassicurata dalla Sua autorità faccio tutto il possibile per soddisfarLa.

L’ordine – Indietro
precedendomi di qualche passo
di tutti i pezzettini di legno
senza toccarmi tenermi impedirmi d’avanzare
– Indietro
Lei agita nelle Sue spalle questi interdetti alto là
indietreggia ancora ancora ancora brava

L’ordine – Vai cerca
indicando il suolo con le Sue dita ricompensa
da Lei soltanto
non accetterò nulla da un altro Lei lo sa

L’ordine – Lascia
precedente ogni azione
lasciati lo faccio mi lascio intenerire
dalla prateria i suoi verdi luminosi la sua
erba dolce
poi Lei lancia un bastoncino glielo riporto
con gioia e mentre me lo toglie mi accarezza brava ancora

L’ordine – Vai
per insegnarmi a dirlo
per questo Lei mi stringe nelle braccia
ripetendo senza tregua
Vai
io tale e quale Lei mi conosce come unica
differenza espressione attenta docile io non reagisco

L’ordine – Dài
o lanciare lontano da me difficile da raggiungere
qualcosa il mio oggetto favorito un alimento che amo
poi molto severo intransigente per farmi
abbandonare la presa
lo sia davvero altrimenti rischio
di distruggere per sempre i Suoi sforzi

Vai Cerca le parole ma come trovarle. Mi sembrano a volte molto vicine si aggirano intorno ma al momento di coglierle affondano – come affonda – Lei deve saperlo – questo corpo opaco di cui conservo immagini persistenti nella memoria. Senza impazienza allora senza nessuna impazienza Lei già mi insegna come fare per disporre senz’ordine davanti a Lei tutto quanto accade tutto quanto si presenta – questi luoghi queste cose dolci – quel che riesco a fare con la lingua contro il palato perché è molto difficile – foglie ad esempio – foglie esempio molto difficile – coperti di foglie di un verde d’acqua tenero.

Gli alberi – sono
coperti di foglie di un verde d’acqua tenero
l’acqua gira
intorno alla casa – diminuita tensione

Si è costruito – questo grande bacino per tenervi
l’acqua profonda
non posso dire il tenore delle cose
fiore grazioso di Giava

Le foglie – vive
hanno colori fusi tutti assieme
il canale
è costeggiato da un muro – Attenzione

Si è costruito – questo grande bacino per tenervi
l’acqua profonda
non posso dire il tenore delle cose
fiore grazioso di Giava

Lei circonda il mio viso
con le dita poi arretra allungo la mano
avanzo di qualche metro
alla ricerca di questo fascino che si sottrae
entro nel suo gioco – Allora
Lei di nuovo indietreggia – allora allungo la mano.

Coricata sul dorso Lei
Mi sostiene la testa inclinata sul lato, cosa
Che io non amo, mi dimeno
Provo ad allontanare la causa del fastidio – Stop

Mi muovo per allontanare la causa
Lei senza sforzo esige che io pieghi, pieghi

Di fronte una siepe come
una barriera Lei frusta il suolo

alla mie spalle con lo scopo
di farmi avanzare per sorpassare l’ostacolo

io restia naturalmente
rifiuto – Hop – penso che Lei vinca

Testa rivolta in basso su una dolce
pendenza anche se il suolo è poco scivoloso resisto

tento per vincere questa
inclinazione di tornare sui miei passi – Andiamo

sui miei passi – Andiamo – io
la detesto pazienza la ingannerò

Sostegno teso rovesciato
effimero sulla siepe – molto difficile

Lei rimpiazza dopo la siepe con un muro
Una trave un’asse che cade nell’acqua un’anta

Le mi osserva dubitare – Olé
Il vento soffia esito mi lancio olé.

Lei mi insegna più tardi a fare il morto la rana colata in sussulti esercizi con la testa in basso per contemplare le cime Lei mi indica la luna sopra il portico la luna o un’altra figura – gran torsione con sforbiciata dietro e senza posa dall’ombra al sole e di nuovo nell’ombra. Io pur ascoltandoLa guardo il paesaggio di colpo così sorprendente visto dal punto in cui sono dalla posizione in cui sono ossia sdraiata sul dorso la testa rovesciata leggermente all’indietro guardo il cielo e Lei che indica amabilmente penso che mi lascio scappare delle grida a volte mi sembra mi scusi che io sia quasi rigorosamente fisica.

Risalire pendio
pendio – piccolo punto del corpo
e fare piccolo salto – Per dire – piccolo salto

sotto un bell’albero di colpo in chiaro in chiaro vedere qualcosa
verso la luce verso la luce
e dire corri verso la luce né ombra né qualcosa
verso la luce – allora

Ricominciare stare là
là seduta tranquillamente nell’erba non fare nulla
– Sì, vedere

e trovare piacere vedendo la luce delle stelle allora
dire vedere – tre volte vedere e di cui una a rovescio ogni
stella sopra il mio occhio per
ogni stella

Rivedo i luoghi – chiari dove iscrivere la scena
diciamo forse che le chiuse – l’ombra impossibile da cogliere
mi hanno fatto talmente paura perché fabbricano bianchezza

di cui ora so che erano dilanianti
fabbricazione di cesura nel corso
corso con paura prudenza impossibile da cogliere

* * *

Éric SUCHÈRE. Nato nel 1967. Tra i suoi libri : L’image différentielle, Voix Éditions, 2001, Le motif Albertine, MeMo, 2002, Lent (…un autre mois…), Le Bleu du Ciel, 2003, Surfaces, Contrat Maint, 2004, Fixe, désole en hiver, Les petits matins, 2005.
http://perso.wanadoo.fr/poesie.suchere
da Surfaces

Traduzione di Massimo Sannelli

Cambiano la distribuzione sulle superfici di bianco-grigio: il manto della Vergine appena bruno, e, questo, della pelle: confronta con la gamma colorata: al suo manto ricamato in filo giallo, chiarissimo giallo: e questa soddisfazione gialla, giallo-limone, che si colora alla luce di lei: bordata da montagne che scuriscono; apportano questo alle pieghe: il blu del manto sarebbe uguale alla corrispondenza più o meno costante del cielo: una gamma dell’atmosfera passa, mentre uguaglia.

Il resto torna al pensiero cromatico: al castello sullo sfondo rende possibile in punto chiaro: preciso fuoco non è il cespuglio usato: il colore è lo stesso dei capelli della Vergine, e del manto bruno.

Le figure secondarie unificate in piani semplici, che assegna discreto: un rosso, un blu, un grigio, un po’ di verde, una carne ocra e qualche rosa bianca: abiti: edifici bianco colora.

Uno cammina, non decide: i due piedi rossi visti: dirige il pugno al santo: un giallo e verde, di cui: al piede bianco crema colore: macchia, con luce, contrasta il rosso di lui e centro cromatico.

Il santo: la veste copre, scende fino ai piedi, parte sola del piede, il sinistro, appare in un blu: ricordo dell’altro rosso: quelli delle figure cambiano: appaiono in luce, stabili: questi, questi, concisi: blu, neri seducenti e bianchi.

Molto al centro, e la stabilità accentua del muro cittadino, il rigore di: accentuano mediano di una verticale di ma di forze che sottomettono leggere, tolgono equilibrio: danno le cadute che seguono: curvano le pieghe della veste come ruota, tanto.

Oscillerà la curva e questa assenza di piedi in sentimento di perdita: sola tappa evidente di un estremo per tenere il moto avviato e in un verde più ricco: superficie di una camicia: costante sul giallo della veste il suo peso accentua: la veste gialla in tracce sole, di curve, registra: la caduta più forte che: sotto il peso, sotto: il santo Stefano si gira: è al bordo: quasi fermo, oscilla.

Qui Erasmo è a Rotterdam: luce contro la pagina, studiolo sotto luce: il contrasto del ritratto: bruno su fondo nero, in cui solo un viso legge la pagina, in luce: e il viso di profilo accende: ne indica-dirige: lettura: stabilisce diretta la relazione alla pagina, da solo e, se no, non assomiglia: il viso rapisce, filigrana, una geometria: in parte sinistra, viso, e questa dal lato buono.
La biblioteca è in luce: libri e sezioni in cui lo sguardo circola, la stanza, riflettono: senza immagine del viso: alla sola apertura nello spazio frontale si dà di scorcio da un libro, che si apre: se un angolo di muro vede uno, nello spazio: valori e i colori annullano la profondità.

La matita diagonale, il doppio del braccio sinistro, disegna e mantiene la relazione testa-libro dove rifà opposizione: divide il tavolo nell’incontro mediano, a un punto così preciso, la sua verticale esatta: il braccio sinistra continua la linea della matita e le forbici proseguono dalla linea al punto.

Così la geometria dirige l’assoluta volontà che ordina il luogo in cui tutto le riesce: nella pagina dentro o sarà il concreto, un fatto, per gli strumenti da sarto conosciuti con il nome di: indica il pensiero: forma un triangolo: il pensiero corre al libro, ritaglia il mondo dentro, dà la direzione di: alla struttura del mondo, con la lingua va e fa: dà di sé: un Erasmo ingenuo senza contraffazioni, il Maestro dei geometri lo abbozza.

Il corpo è aperto: un legionario ritira le sue viscere: dirige la mano verso: traccia la diagonale: si congeda puntando la statua: l’ornato spiega il suo martirio.

Il ciclo di attitudini e gesti dà il tempo ripetuto che realizza lo sguardo.

C’è: la curva opposta dei due: il braccio del legionario, la curva di una figura blu, che scende sempre sul dorso di figura rossa, dal dorso alla gamba.

C’è: una massa di curve e metri-curvi: nella forma della X: arresto visuale un: periodo statico dello stesso: entra decompone.

C’è: la coppia dei rossi, il tessuto rosso a terra, un braccio – il sinistro – piegato, una figura rossa, una piramide, una mano bianca in cima, un cherubino, angeli che portano corone.

C’è: bianco corpo, il santo Erasmo: la figura bianca contro il quarto di cerchio delle braccia e degli angeli.

Il rapporto-rapporto scrive l’artificio per l’atmosfera di: dietro il corpo del Cristo, calmo e bucolico, viso mortale senza tragedia, di colori molli e luci: pietà che non decora bene un parapetto al cielo molto molle e blu con giallo di sabbia, senza alberi o uccelli: gialla, giusta azione sulle nuvole: colorando bruno del Cristo all’arancio degli altri: indicando il tempo vicino al passaggio dei colori: le temporalità.

Il tutto inquadrato da un angolo basso, da Welles o da Lang: alle mani dominano, danno: il Cristo monumentale: rapportano: indicano, più, quasi lo tocca in uno.

Più spento che morto, Cristo gli occhi chiude, per mani migliori: sentimento e contatto: metà, apre la bocca in previsione, e sospira: ecco un inizio vero: e Maria di Magdala al soffio la bocca, semiaperta: dolce regge la mano e della sinistra adora il dorso e la sua linea incastonati stretti.

L’inguine solo è coperto: i legni della croce al livello del suo sesso: la mano sotto con: la figura che, vicino, da dietro sostiene: pare, con la sua mano, discendere, quasi, il tessuto in carezza; chiude gli occhi sempre muovendo: lui, da vedere dove accentua il piacere: corpo suo, tronco suo, suo corpo placcato quando quella da dietro getta un colpo d’occhio con: il sesso veramente lui: scoperto del Cristo: se la sua bocca di sorpresa…

Da Lento (…un altro mese…)

Traduzione di Massimo Sannelli
87 (dicembre 2004). Nella distanza

Fa tutto, fa tutto a tempo. E fa tutto il suo dovere e altre e altre cose, il resto impreciso, tanto impreciso uno, il tempo, controlla tutto. Fa tutto, esplora l’impianto dei bagni, fa la lezione, continua nell’impulso, esplora l’impianto delle luci, va svelto, non impone o non esige l’attenzione e poi tocca-accende, lo sperimenta a suo modo accanto al corpo, che al suo contatto si esponeva, emette o geme, tritato-tagliato, con le vere pulsazioni che accelerano, sente, ha bisogno di fare una cosa che, allontanarsi dalla scarica, così è vero del suo contatto, o è vero bianco, il suo colore puro, tanto simili al sentimento i trèmiti sempre, ancora esige la pausa, o aspira, per ridurre tutte le vibrazioni, nel respiro si impegna, nel controllo che non è preso, dei pochi secondi per essere sicuro su un sorso d’acqua, nell’aspirazione ancora per distendere di. E fa tutto, perde la cartina per il tabacco, crea panico, muove-regola per sollevare ancora o vedere sotto e infine ritrovare per calmarsi a. Fa tutto, tenta di dormire se non conta i bip intermittenti allo scatto di un elettrodomestico o di un singulto, il suo intervallo, di un gatto che miagola, se. Fa tutto ma senza memoria, il solo, sogna il contesto, prende tutto per chiaro, è contesto puro, solo nel contesto reagisce, lo circonda, è contesto, il suo impiego tanto specifico si chiarisce solo in un contesto, e tutto diventa e lo diventa, in pieno sonno riesamina Wittgenstein e Hocquard sul problema, tutto, e riprende nel dormiveglia le intuizioni del sonno, non è così lucido per l’impreciso o non sa a che cosa si applica ora e svaniscono, in.

80 (maggio 2004) L’impersonale al massimo

Ma tu lavora, non fare, guarda, che cosa, guarda, non fare, non aver tempo di, nessuna voglia, parlargli, maldestra la guida, la velocità, snervato, discussione impossibile, pretesto l’attività, urta, una svista, infine, urta, fa’ cadere, sguardo intenso, insulto visibile con sguardo, a lungo, se non prolunga lo sguardo non può nulla, resta, non fare, guarda, io guardo, prepara, non fare che, già abbastanza sgradevole con una, qualcuno già visto, non conoscere, non sapere. Lavora il giorno, la notte parla, lavora, no, a che cosa, senza dubbio, finisci qualcosa, poi lavora e poi bisogna che, partenza, stazione davanti al bar, guarda chi passa, quello che dicono, quanto distrae, fanne gioia, io resto, ancora notte in giardino, immobile a, aspira prima l’aria. Lavora, non fermarti, sfinisciti in un giorno, trova penoso, non parlare che e non chiedere se, sbadiglia, non esaltarti, snerva con, immaturo, la metro, in pochissimo da dire in, non interessa nessuna, le discussioni, riaccompagna un pezzo, io vado, un po’ imbarazzato, davvero. Lavora un po’, perdi un po’, declina, distante, capace di, per questo, non arrivare a fingere, non importa, viene altro, che bisognerebbe e tu lavoraci, io resto a distanza, tu lavora, la mollezza, attraggono musiche e figure. Lavora, stanco, stàncati, esagera, dormi nel treno, ché io dormo, sveglia con luci e colori intensi, niente da dire, niente di che, e loro partono per, lavora, cambia posto per, prova, evita il rumore, io la vedo quando, cambia posto per, guardarla con il medium del vetro sopra, vista tuffata, guarda tutti, i loro gesti, il riccio che fa orecchino all’occhio, si addormenta, la maniera in cui, l’articolazione dei polsi, scivola e la spalla, la bretella: tutto funziona in un mondo autonomo: alcuni camminano lontani sulla ferrovia, il sentimento dell’accelerazione, una facciata di hangar rosso pieno, le nuvole che corrono e un aereo si allontana, scompare: un sentimento, un legame d’amore, circonda di sentimenti il mondo e le storie.

Immagine: il poeta francese Eric Suchère (in alto nella foto, in testa a quello brutto e mal rasato) nel corso di un’intimistica lettura di delicati versi lirici.

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7 Commenti

  1. Di fronte a queste poesie, ciò che istintivamente mi verrebbe da porre è una serie di domande. Siccome sono più o meno le stesse che poneva @temperanza, ve le risparmio.
    Intanto direi che queste poesie, da lettrice di poesia, non mi convincono, non mi appassionano, sento anche una notevole difficoltà a portare in fondo la lettura (in particolare di Suchère e Viton).
    Non comprendo la necessità di difendere questo tipo di “sperimentazione” su varî livelli. Proprio in un momento come questo, in cui tutto e il contrario di tutto (tutto dal punto di vista teorico e formale) rientra nelle possibilità della poesia, non vedo come si possa fondare un’argomentazione teorica o critica sul fatto che l’io biografico-psicologico sia o meno dismesso o la lingua comune utilizzata in maniera straniante. Come si può dire, ormai, che lo scarto minimo rispetto alla lingua d’uso sia meno auspicabile dello scarto massimo, o viceversa? Che un contenuto o una forma, o una non-forma, siano “una soluzione” rispetto ad altri?
    Perché ritenere centrale in poesia il meccanismo dell’enunciazione linguistica? Sono decenni che leggiamo poesie in cui massimo è lo scarto rispetto alla lingua d’uso, massima è la sperimentazione sul verso, sul non-verso (anche la Rosselli, per fare un esempio, andava a capo dopo un numero fisso di battute, o meglio, avrebbe voluto, visto che poi la sua volontà non è stata accolta dagli editori), sulla sintassi, numerosissimi i discorsi metapoetici e massima la concentrazione sui meccanismi dell’enunciazione. Tutto è pacificamente accettato, possibile, auspicabile, e ovviamente non c’è che da rallegrarsene.
    Ma, proprio per questo motivo, a me pare che questa opzione “sperimentale” non sia ormai che un’opzione “tradizionale” (conta una sua tradizione ormai decennale, ha degli “epigoni”), motivo per cui non mi pare che questi testi, oggi, forzino più di tanto i confini del genere, o debbano essere giudicati con la categoria della novità. Dico questo perché ho notato, con sincero sconcerto, che spuntavano in diversi commenti del thread dei supposti “tradizionalisti”, che osteggerebbero la supposta “sperimentazione” e/o “novità”.
    Del resto, quando leggo una nuova voce poetica che mi piace, trovo sempre che abbia aggiunto a suo modo qualcosa ai secoli di tradizione del genere, che sia sempre in qualche modo nuova (mi pare che qualcun altro qui l’abbia detto, ma non ricordo chi).
    Mi piacerebbe capire come si può fare critica della poesia contemporanea in una tale situazione di simultaneità: forse solo scommettendo – consapevoli della propria parzialità – su una via (un “paradigma”) e portandola coerentemente avanti… In questo caso io avrei scelto certamente un’altra via.
    Penso, ma è una mia opinione, che decenni di poesia che gioca su un significante oscuro e “sperimentale” (nel senso in cui si usa nel vostro saggio), su un eccesso di teoria e di intellettualismo, al punto da far apparire il linguaggio della poesia come un gergo da iniziati, siano tra le cause della scarsità di lettori che costituisce il triste primato di questo genere. Di questo non incolpo ovviamente Inglese e Raos (ci mancherebbe), però è uno dei motivi per cui l’oscurità programmatica m’infastidisce.
    Scusate davvero la lunghezza, ma gli argomenti messi in campo mi sembrano molti e importanti.
    SN

  2. “Il ciclo di attitudini e gesti dà il tempo ripetuto che
    realizza lo sguardo”.

    Abissale, pur nella semplice, elementare tessitura del dettato lirico: la scrittura di Suchère somiglia mirabilmente all’opera di un bambino che riscrive le geometrie e l’alfabeto inesplorato delle cose con un tratto di matita: una macchia di azzurro nei deserti assolati del foglio: è quella è l’acqua delle origini e della fine: l’acqua per sempre.

  3. “[…] Proprio in un momento come questo, in cui tutto e il contrario di tutto (tutto dal punto di vista teorico e formale) rientra nelle possibilità della poesia […]”

    quel “momento”, a mio avviso, data dal 1839, circa. ossia da quando, con la nascita della fotografia, “tutto e il contrario di tutto” è diventato l’enigmatico e possibile oggetto di uno sguardo persuaso.

    più o meno da quel ‘momento’ (non si sa perché, tutti si interrogano su questa faccenda da allora) l’oggetto estetico e le sue forme e apparizioni e vuoti hanno preso a farsi ed esser percepiti come più problematici – e magari inquietanti – di quanto risultassero fino a pochi decenni prima.

  4. [
    questo fatto, e la tradizione di opere non certo solo letterarie che ne deriva, rende complicato liquidare metà Ottocento e tutto il Novecento come un abbaglio (o come una cosa di radici superficiali); e rende impraticabile sia una lettura univoca e prescrittiva di certi oggetti d’arte, sia il polarizzare e sintonizzare tale lettura su un codice solo binario: ricerca versus tradizione.

    anzi. “si cerca di formare dei concetti dall’articolazione fine, o molto differenziata, per sfuggire alle grosse nozioni dualiste” (Deleuze)
    ]

  5. Mille volte meglio di me ha già chiosato Marco. Solo due cosine:

    In effetti, opponendo tradizione ad avanguardia non si va da nessuna parte. Ancora meno, opponendo leggibilità a illeggibilità; in cosa non è “leggibile” Viton? o Dubois (una poesia che per di più è anche fortemente narrativa)? O tutti gli altri, o chiunque altro? Cosa è leggibile? Una poesia programmaticamente intimista?

    Dubito alquanto, peraltro, che la presunta “difficoltà” o “facilità” di qualcosa respingano o attraggano il lettore;
    ma che la non-lettura di talune cose in Italia dipenda dalla polverizzazione di un certo ceto intellettuale in seguito a taluni eventi politici degli ultimi decenni;
    più in generale, che si viva in un regime di separatezza dei saperi (anche all’interno dello stesso “genere” poesia, per non parlare di tutto il resto) che, in sostanza, rende “illeggibile” ogni cosa;
    che crediamo di leggere, ma che in realtà sogniamo di farlo;
    […]

  6. Andrea, io credo, anche, e parlo in base alla mia esperienza e alle mie letture, che la contrapposizione tradizione/avanguardia sia un falso problema, nel senso che l’avanguardia è parte integrante del canone novecentesco, pur rappresentandone, per una breve stagione, una sorta di smottamento, di scossa di assestamento. Il problema dello “sperimentalismo” a tutti i costi, e della relativa conseguente “oscurità”, da più parti denunciato con alti lai o con ostentata derisione, non è che un corollario a sostegno della supposta inesistente contrapposizione. Forse, al tirar delle somme, il problema lo aveva già risolto Dante (penso, tra l’altro, alle attualissime riflessioni contenute nell’Epistola XIII), o lo stesso Leopardi in alcune mirabili (e profetiche) pagine dello Zibaldone, un’opera che tutti citano, ma che pochi hanno letto e meditato nella sua tensione inappagata a definire “mappe dell’alterità”; ma la stragrande maggioranza dei critici (o presunti tali) attuali legge solo ciò che fa comodo, ignorando volutamente la profonda interazione e intersecazione di campi del sapere e di esperienze che oggi anima il dibattito artistico-culturale più avanzato e più aperto alla ricerca di nuovi orizzonti di senso. L’oscurità programmatica, poi, mi sembra un parametro critico improponibile, visto che muove dal presupposto teorico che il “caos” sia razionalizzabile, o attraversabile con strumenti concettualmente definiti dal punto di vista logico. Un assurdo: che impedisce, oltretutto, di cogliere in questi poeti (siano francesi, italiani o altro) i sensi altri che la loro scrittura dischiude: a partire dall’idea, concretamente operante in alcuni di loro, che la tradizione (proprio come la sua accezione etimologica detta) sia sostanzialmente uno spingere oltre, presuppone un “attraversamento” che può avere senso e futuro solo a patto di esplorare le “zone in ombra”, gli anfratti e le voragini che ogni canone, per sua necessità strutturale, crea e oblìa, lasciandoli al deserto delle possibilità, al silenzio e, in definitiva, alla rimozione. Questi poeti mi sembrano proprio in piena traversata del deserto: alla scoperta di tutte le “voci” che la matrice silenziosa delle sabbie contiene, e che dona solo alla vista e all’udito di chi sa “porsi in ascolto”, cioè sa spogliarsi della singolarità dei suoi strumenti e delle sue coordinate, e aprirsi agli orizzonti di una oralità nuova, tutta incentrata sullo scambio e sull’apertura all’altro.

  7. Andrea: non ho detto che è illeggibile… ma figurati. Si legge persino Sollers. :-)
    Ho detto che “ho difficoltà a leggerlo”, visto che se un poeta non mi convince, né mi appassiona, non vedo perché devo impegnarmi a “giustificarlo” dal punto di vista teorico.
    Riguardo al problema dell’oscurità: voi nel vostro saggio parlate di “soluzioni” linguistiche non adeguate. Quello che mi chiedevo è: come si può dire che un’opzione linguistica sia giusta o meno, a prescindere dal risultato, cioè i versi che abbiamo davanti?
    In effetti ciò che scriveva marco lo condivido: ma voi? Non avete introdotto questi sei poeti con un saggio critico in cui si fondava come valore positivo la “novità”, lo “sperimentalismo” e la forzatura dei confini del genere? Non è una tipica dinamica dualistica tra tradizione e avanguardia, questa?
    Riguardo al discorso sulla “novità” e il supposto “tradizionalismo”, reagivo a cose lette nei commenti (come specificavo), ma non da voi.

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