DB9

di Giordano Tedoldi

copertina tedoldi.jpgDi notte, quando non ho sonno, mi piace soprattutto guidare. Guidare è forse l’unica attività fisica che faccio. Un tempo nuotavo, poi ho smesso perché mi sono preso un fungo, la piscina era triste, troppi occhi rossi, pelli rovinate, solo le ragazzine intorno ai vent’anni erano allegre, ma quelle erano sempre per conto loro, non potevi nemmeno parlarci. Comunque erano molto maleducate, o troppo timide, o entrambe le cose. Allora mi sono dedicato alle macchine sportive. Non spendo mai, spendo solo per le macchine. Dopo sei mesi le do indietro e ne prendo un’altra. Per un certo periodo compravo le macchine in società con un tizio. Ogni volta che le riportava puzzavano di mezzo toscano. Ho smobilitato un po’ di investimenti, e ho cominciato a ordinare le macchine da solo, senza coinvolgere nessuno. Negli affari, come nella vita, avere un socio mi mette a disagio.

Ora ho la Ferrari Maranello, una bestia difficile da domare. Mi ha riacutizzato un dolore al ginocchio. È un vero e proprio sforzo fisico. Me l’hanno consegnata due settimane fa e dopo il primo giorno già ero deluso. Ero abituato all’affidabilità, alla maneggevolezza, diciamo pure alla comodità della Porsche turbo, una macchina con cui non rischi minimamente il dolore al ginocchio e al polpaccio, perché i freni sono morbidi e sensibili come la guancia di Enrica, non devi spingerli a fondo come con la Maranello. Poi però mi sono accontentato, tanto tra sei mesi la cambio. Quella del dolore del ginocchio per via dei freni duri non è una fisima, anche se di fisime ne ho molte, essendo un vero e proprio trentenne triste. Quando guido, una fisima è che non mi piace farmi vedere dalla gente – questo no, l’ho sempre detestato – ragion per cui guido soprattutto a notte fonda, quando le strade sono più libere, posso correre, le persone non m’invidiano, è questa la vera emozione che cercavo. La Ferrari ha la carrozzeria grigia e i sedili da corsa in pelle rossa, avvolgenti, con le cinture di sicurezza a X, che ti fasciano completamente. Peccato per i freni: sono durissimi. Il ginocchio mi fa davvero male. A volte si gonfia tutta la gamba.

Mi feci male al ginocchio a casa di Enrica, stavamo sdraiati sul divano e eravamo mezzi spogliati. Io avevo i pantaloni sbottonati e lei era in mutandine. Prima mi aveva invitato a salire dopo il cinema – all’epoca la scarrozzavo con la Porsche – poi ci eravamo allungati sul divano, lei aveva messo la testa sulla mia spalla, le carezzavo i capelli lisci biondi e pensavo al parabrezza della Porsche sporco di guano. I capelli glieli arricciavo dietro l’orecchio, poi lei mi aveva infilato una mano sotto il boxer per scaldarsela e io le avevo sfilato le mutandine per cominciare a leccargliela. Ci eravamo sdraiati per fare l’amore, e io, calcolando male le distanze, per farle spazio, per farla stare più comoda sul divano, ero rotolato a terra battendo il ginocchio. Ora quando freno con la Ferrari, specie dopo una bella stirata, devo stringere i denti, e sembro un attore in una scena d’inseguimento.

Quando la notte non ho sonno, mi vesto male, e alle tre del mattino vado in garage con la Smart, passo davanti al gabbiotto dai vetri polverosi del guardiano, gli chiedo a che ora vuole che torno, lui risponde quando mi pare, e prendo la Ferrari. Una volta in strada, giro senza meta e parlo da solo, mi compatisco, prendo a pugni il volante e bestemmio. A volte incontro un tizio. Guida un’Aston Martin DB9. Quest’uomo, le poche volte che l’ho incrociato, ho avuto modo di sbirciare dentro l’abitacolo come attraverso il vetro di un acquario buio. Dai brandelli che ho visto della sua faccia, deve avere qualche problema anche lui.

L’uomo che guida l’Aston Martin DB9, un seimila di cilindrata con 450 cavalli che fa da zero a cento in meno di cinque secondi, ha sempre i denti di fuori. Un po’ perché li ha sporgenti, un po’ perché mi sembra che digrigni. Anche lui è senz’altro un appassionato di auto sportive come me, perché anche lui circola di notte, quando le strade sono sgombre e i burini che dicono anvedi che macchina stanno dormendo. L’ho incontrato, o incrociato, piuttosto spesso. A volte corre come un dannato, sembra quasi che voglia fare una gara. Altre mi si affianca lento come un’imbarcazione in porto. Mi giro dalla sua parte, e vedo un testone con le zanne. Gli occhi sono sempre nascosti dal buio. Ogni tanto scuote la testa, contrariato. Forse gli dà fastidio il rombo del motore, che in effetti nella DB9 è troppo simile a una Formula Uno, suona eccessivo anche per un appassionato.

La notte dopo l’Immacolata ci ho parlato. Di mattina presto ero andato a scocciare mia sorella, e lei mi aveva portato a fare una passeggiata con il suo cane. Eravamo andati a mangiare una torta di pasta di mandorle al forno del ghetto, un forno gestito da tre donne grassocce che invariabilmente bruciano le torte e i dolci che sfornano, probabilmente perché hanno un forno antico, comunque mangiammo questi dolci bruciacchiati e Gloria, mia sorella, mi chiese se quella sera, come spesso capitava quando mi vedeva nervoso, avevo voglia di dormire da lei, ma dal momento che l’ultima volta, da lei, non avevo dormito per niente, rifiutai. Forse ci rimase male, ma mi sentivo in colpa all’idea di tenerla sveglia.

Ero nudo e avevo la pelle di un colore più scuro del normale. Non so bene dove mi trovassi, sembrava un appartamento disabitato, in alto, come un sedicesimo piano o così, con molte finestre dai vetri rotti, e le schegge di vetro sparse sul pavimento. Ricordo che avevo paura di ferirmi ai piedi, ero anche scalzo. Le finestre davano su una città che cambiava continuamente, i palazzi circostanti sembravano fate morgane, ricordavano i palazzi dei fumetti di fantascienza tipo Buck Rogers, fumetti che non ho mai letto, ma di cui forse qualcuno mi deve aver parlato fino alla noia. Ero seduto su un divano e abbassavo lo sguardo sul mio ginocchio malandato e gonfio. Ma non gonfio per il trauma della caduta a casa di Enrica. Il gonfiore era dovuto a una cosa che se ne stava appollaiata sul mio ginocchio. C’era un specie di insetto, un insetto che non credo possa essere classificato da alcun entomologo. Era del colore dell’ambra, grande quanto… non saprei dire, un palloncino di medie dimensioni. Le zampe, numerose come quelle di un centopiedi, erano corte, seghettate e dorate. Il torace, se così si può chiamare, dell’insetto, era liscio e lucido, e in realtà sembrava che il tipico colore ambrato derivasse dal suo sangue, un sangue che però non circolava lungo vene e arterie, ma come imbottiva l’insetto all’interno di quel sottile rivestimento lucido. Se alzavo un poco lo sguardo, nel mio campo visivo, in basso, vedevo l’ombra dell’insetto appoggiato sul mio ginocchio, con le sue zampette che mi punzecchiavano la pelle. Stava in equilibrio sul ginocchio e non mi faceva male.

Nel sogno non facevo niente per sbarazzarmi di quella specie di palloncino ambrato e con due lunghe antenne dalla parte della testa, le zampette dorate, che aveva deciso di sostare sul mio ginocchio. L’unica cosa di cui ero preoccupato, era che il ginocchio cominciasse a farmi male, ragion per cui guardavo nervosamente fuori dalle finestre senza vetri per capire la situazione del tempo, perché se avesse cominciato a scurirsi, a tirare quel vento freddo che poi porta pioggia, sarebbe stato un guaio, con l’insetto sul ginocchio, tentare di scacciarlo per spalmarmi il Voltaren e massaggiarmi. Non ricordo come finisce il sogno, che comunque ho già fatto diverse volte. Forse, alla fine, l’insetto si muove o sono io che lo mando via.

Il giorno dell’Immacolata il clima era molto rigido. E le farmacie di turno erano piene di gente. Avevo atteso che la processione sgomberasse, quindi ero entrato in una farmacia affollata quanto una sala corse a comprare aspirine e una nuova crema antidolorifica che veniva consigliata addirittura per lievi interventi chirurgici. Chissà chi mi aveva detto che il mio ginocchio ne avrebbe tratto benefici insperati. Io non ci credevo ma, passata la mia fase naturalistica, in cui non prendevo nemmeno un anti-infiammatorio quando mi scoppiava la testa, ora ero nella fase in cui provavo di tutto, meno le cose con le erbe, perché mi facevano regolarmente rimettere. Uscii e fui salutato da alcune gocce di pioggia sugli occhiali. Il mio campo visivo divenne come il parabrezza di un’auto in Polonia, a novembre. Pensai che guidare, quella notte, sarebbe stato ancora più piacevole. Le strade ancora più libere, quella luminosità ferrosa sull’asfalto, i cordoli come acciaio lucido, perfino le macchine della polizia e dei carabinieri di pattuglia hanno un che di più denso, di meno petulante, con la pioggia.

Così, quella notte, dopo aver chiamato mia sorella per confermarle che non avrei dormito da lei, poteva stare tranquilla, non l’avrei certo tirata giù dal letto ripensandoci a notte fonda, e dopo aver provato a dormire ma senza riuscire a chiudere occhio, mi sono vestito a casaccio e qualche minuto dopo ero chiuso in Ferrari con il riscaldamento acceso, lo spannamento sul lunotto anteriore e posteriore, e mi ero fermato a un semaforo su piazza Euclide, dopo aver guidato al massimo a venti all’ora per scaldare il motore, prima di stirarlo a fondo. Quando mi sono voltato dalla parte del passeggero per controllare una ditata sul finestrino ho visto sfrecciarmi accanto qualcuno che digrignava i denti, come un personaggio di Francis Bacon: gli ho visto solo i denti a quel matto. Sono avanzato piano, non di più di una quarantina di metri, finché non mi sono fermato a un altro semaforo con lui. Il semaforo era verde, ma non avevamo nessuno dietro, e stavamo fermi, in surplace. Ho guardato dalla sua parte per capire se per caso si poteva parlare. L’uomo mi ha fatto segno di abbassare il finestrino: il suo era già abbassato.

“Mi brucia il culo”, ha detto l’uomo che guida con la smorfia di rabbia e che digrigna i denti.
“Perché?”
“Perché questa troia non ha l’albero della trasmissione isolato”.
“È una macchina magnifica, magnifica, non ci sono altre parole. Nemmeno una donna. Non ho mai visto una donna bella quanto la tua macchina”.
“Vuoi fare una gara?”
“No”.
“Andiamo, non cacarti sotto subito, hai una Maranello mica una Punto”.
“Sono le sei, è quasi giorno. Vado a casa”.
“La prossima volta, allora. Lo sai che non è la prima volta che ti vedo?”
“Stessa cosa per me”.
“Ciao bello, un’altra volta si fa gara”, mi ha detto l’uomo.

Il semaforo nel frattempo era diventato rosso, e poi è scattato il verde. Ricordo che ho resistito alla tentazione di guardare l’uomo un’altra volta mentre affondava il piede sull’acceleratore, perché sarebbe stato come guardare il moncherino di un handicappato. Siamo partiti insieme, di scatto, ma non ci siamo cimentati in una gara. Io ho svoltato quasi subito per andare a casa, lui l’ho visto sparire in pochi secondi in direzione dell’Olimpica.

*

La cosa bella di guidare macchine sportive, è che sono arnesi sensibili. Una macchina sportiva è così sensibile che se sbagli di poco puoi morire. Se sbagli di poco puoi mettere a rischio la vita altrui. Un episodio in particolare mi ha colpito. Cito un ritaglio di giornale, riguarda un fatto accaduto nel 1999:

Olbia. Antonio Leandro, 32 anni di Bologna, collaudatore della casa automobilistica (la Lamborghini n.d.r.), in Sardegna insieme ad alcuni colleghi per presentare la nuova versione della fuoriserie Diablo, è morto carbonizzato dopo il violento urto contro una Fiat Uno a bordo della quale viaggiava Sebastiana Pinna, 57 anni di Lula (Nuoro), deceduta nell’urto.

Leandro, che stava collaudando l’auto, ha effettuato una serie di sorpassi a velocità elevata. L’ultimo è stato fatale. Ha infatti urtato un camion carico di mangime e, dopo aver sbandato, è finito contro la Fiat Uno a bordo della quale viaggiava la famiglia di Lula. L’utilitaria è stata trascinata dalla Lamborghini per alcune centinaia di metri. Le due auto dopo aver strisciato contro il guard-rail hanno preso fuoco. Per Leandro e la donna non c’è stato niente da fare.

Quando guido immagino sempre di portare Enrica, seduta nel posto del passeggero. Non ha importanza che lo stia solo immaginando, già questo mi aiuta a guidare meglio. Quando faccio una cazzata avverto la stretta di Enrica sulla coscia, e quelle specie di ululati diabolici che faceva quando, scarrozzandola in Porsche per andare a bere prima di un cinema, imboccavo per sbadataggine un senso vietato a alta velocità, un errore che ancora oggi, con la Ferrari, mi capita di fare. Non riesco a capire come mai non riesco a correggere questo errore. Continuo a infilare sensi vietati sparato come un missile e solo quando è tardi mi accorgo del segnale rosso con la banda bianca. È come se visualizzassi il segnale solo dopo averlo visto effettivamente, come se fosse un ricordo, o un sogno. Per fortuna finora mi è andata bene: sento un urlo feroce nel cervello, subito inchiodo, ingrano di corsa la retromarcia tentando di soffocare il panico, e guardando nello specchietto retrovisore mi faccio quei dieci quindici a volte quaranta metri per uscire dall’imbuto. Devo proprio starci attento a questa cosa, è una specie di coazione a ripetere che mi perseguita e oltretutto è stupida. Posso fare davvero male a qualcuno, un giorno, e farmi male anch’io.

Enrica per dei lunghi periodi parte. Non so chi vada a cercare, per quello che ne so, potrebbe essere un agente segreto. Sui suoi viaggi cala il velo di un impenetrabile mistero e tutte le volte che torna è sfinita, come avesse ammazzato un ministro degli esteri con un calice di vino avvelenato. Anche se non mi dirà mai dove va, finge di essere offesa per la mia presunta indifferenza. “Non te ne importa niente di me, ad esempio, non mi chiedi mai dove vado quando parto”, mi ha rimproverato una sera che ero salito a bere un gin tonic da lei. “Guarda, bella, che sono stato educato a non romperti i coglioni. È la mia formazione. Non voglio sapere dove vai”. Enrica ha sorriso e ha messo sul compatto un disco di Nick Cave & the Bad Seeds. Ogni tanto la sfinisco con le mie speculazioni finanziarie, e lei mi sfinisce con la sua insana passione per il teatro, che io trovo… non ho nemmeno le parole, è un mondo che non capisco. Oltretutto, trovo ridicolo che lei sia abbonata a queste stagioni teatrali piene di pensionati in dentiera. A volte le tocca perfino andare a vedere gli spettacoli dei comici, tipo Teo Teocoli, oppure vecchie carampane o peggio ancora musical con attori canterini romani. I musical con attori canterini romani, mi ha confessato una volta, non ce la fa nemmeno lei. Una sera c’era uno spettacolo con Massimo Ghini, o che ne so io, e mi ha chiamato al telefono. “Mio Dio”, mi ha detto, “stasera ho l’abbonamento e c’è questo spettacolo musicale – qui ha detto il titolo e gli attori principali – e mi sono impegnata con – qui ha detto il nome della sua amica colla quale si è abbonata alle stagioni teatrali in dentiera – per favore, salvami, fa’ una delle tue cazzate!” e io, pronto come una serpe: “Porca puttana, fatti trovare pronta tra cinque minuti, passo a prenderti in Ferrari”.

Quattro di notte e rotti del ventuno dicembre. Sono fermo davanti alla vetrina di un negozio che vende tutto e niente, ma con pretese. Prima o poi dovrò fare questi cazzo di regali. Sbuffo e mi metto a guardare in strada, appoggiandomi alla portiera affusolata della mia Maranello. Guardo le altre macchine parcheggiate, quasi tutte targhe nuove, piccole scatole di latta in confronto alla mia. Le loro, hanno i copertoni sporchi e usurati, gli pneumatici sottili, hanno delle ammaccature e dei graffi, non vengono lavate da quanto? E sì che un lavaggio non costa nemmeno dieci euro. Passo un dito sopra il cofano di una Mercedes e accarezzo acqua e fango, più fango che acqua. Sono sporche, impolverate, allineate come cadaveri lungo i marciapiedi. Queste piccole non sono benvolute, no. Sono disprezzate. E perciò sono così brutte. Se passa una di queste macchine, non le notiamo nemmeno. Se invece passa la mia, e contemporaneamente Nicole Kidman, non so, ecco, me la giocherei. Riporto la Ferrari in garage, il guardiano nel gabbiotto non mi saluta, vado alla mia Smart, sprofondato fino al naso nella sciarpa, per tornarmene a casa che fa un freddo assassino. Come metto i piedi fuori del garage sento, a basso regime, come in sordina, il rumore di una Formula Uno. Lì sulla strada, un missile color canna di fucile mi si para davanti. L’Aston Martin DB9, il finestrino abbassato, il motore che rumina e manda un vapore caldo dal cofano. Lui, quel faccione gonfio un po’ comico, mi si rivolge con un’aria serena, se non fosse per i grandi occhi azzurri con le venuzze rotte, e quel modo di stringere la bocca per coprire le zanne, col risultato che più che una bocca sembra una cicatrice coi punti. Si è tagliato i capelli molto corti, che mi ricordo aveva biondi.

“Così è a questo sfascio che lasci la Ferrari”, mi dice.
“Sarà uno sfascio, ma costa un fottio”.
“Perché non provi quel garage a circonvallazione Clodia”.
“Chiude all’una e mezza. Io ho bisogno di prendere la macchina di notte”.
“Ma non hai un box?”
“Me la rubano, in un box”.
“Stai messo bene, stai”.
“Sto di merda, ma non digrigno i denti come te”.
“Fanculo”.
“Si nota un casino”.
“Non prendermi per il culo. Non mi fa mica piacere”.
“Okay, non ti prendo per il culo. Ci presentiamo o continuiamo a fare i misteriosi del cazzo?”
“Mi chiamo Martino. E, non ci crederai, ma questa macchina mi porta una sfiga maledetta”.
“Ah sì?”
“Sì, mi sento un po’ come l’Olandese Volante, conosci la storia?”
“No”.
“Dannato a doppiare in eterno il capo di Buona Speranza perseguitato dalle tempeste finché l’amore di una donna pura… stronzate del genere. Ma l’Olanda non c’entra niente. È la maledizione delle macchine inglesi. Prima avevo una Jaguar XKR. L’elettronica si rompeva ogni tre mesi. Una volta sono rimasto fermo a Palmanova. No dico, hai presente la provincia friulana?”
“Ho presente la provincia”.
“Appunto, cazzo. Si nota proprio questa cosa che faccio coi denti, eh?”
“Non fissarti, sennò è peggio. Cos’è che non ti va, Martino?”
“Dimmi il tuo nome”.
Gli dico il mio nome, e lui riprende a spiegarsi.
“Quello che non mi va è che ci siano tutte queste orribili macchine scassate in giro. La gente non ha alcun rispetto per le macchine. Non ne capiscono niente. Sciatti”.
“Guarda, se vuoi saperlo, sono assolutamente d’accordo”.
“Non c’è nulla di più demonizzato ai giorni nostri della macchina, non sei d’accordo?”
“Sono assolutamente d’accordo”.
“E le guerre sono per il petrolio, e il petrolio a chi serve?”
“Alle nostre macchine”.
“Esatto. Alle macchine si imputano le guerre, capisci la follia, la deresponsabilizzazione?”
“E’ un porco alibi”, gli dico.
“Uno ormai entra in guerra quando vuole. Tanto, alla peggio, gli dicono che lo fa per il petrolio e per le macchine. E allora lui risponde: e sticazzi?”
“Già”.
“Eppure le macchine, voglio dire macchine come le nostre, le Lamborghini, le Porsche, le Ferrari, sono perfette. Sono meglio loro del vaccino dell’Aids”.
“Sono senz’altro d’accordo”.
“Io voglio una macchina eccezionale, non voglio guarire dall’Aids. Di Aids voglio morire”.
“Già”.
“E invece guarda i marciapiedi, cosa vedi?”
“Una tristezza”.
“Tutti scaldabagni di merda”, dice Martino. “Ogni famiglia ha una macchina a testa, e ognuno la odia. Guarda come cazzo le tengono, guarda!”
“È questo che ti fa tenere sempre i denti stretti?”
“E’ questa indifferenza, sì, ma a parte questo…”
“Sì?”
“Lascia perdere. Ti dico solo che se mi capita una donna nuda nel letto, la sbudello”.

Il guardiano del garage si avvicina e sforzandosi di parlare, cosa difficile per un subumano come lui, ci informa che è meglio se il signore spegne il motore, perché a volte quelli che abitano sopra il garage si lamentano, “e questa c’ha il motore che sembra una formula uno”. Poi rientra nel suo gabbiotto munito di calendario di padre Pio a guardare la televisione. Invece di spegnere il motore, Martino mi fa un cenno col testone e se ne va. Chissà dove abita. L’ennesimo sbudellatore frustrato del cazzo.

*

Fare i regali di Natale è come vomitare, poi annusare la pozza e cominciare a rimangiarsela. Ma oggi mi tocca. Non so se comincerò a comprare qualcosa, ma non ci capito tanto spesso in centro perché arrivarci è un’impresa, ma una cosa a Enrica e a mia sorella vorrei prenderla. Prima però mi sono concesso un whiskey alle tre di pomeriggio, a stomaco semivuoto avendo mangiato solo un pacchetto di crackers, poi ho chiamato il taxi. Nell’attesa ho defecato il secondo turno, il primo turno alle sette di mattina, ne farò un terzo presumo intorno alle sei. Ho messo su gli occhiali da sole che mi lasciano il segno sul naso, così li riporto dall’ottico e faccio regolare il ponte. Dovrei anche tagliarmi i capelli. Sul taxi, un orrendo cassone monovolume, penso a che vita patetica sia quella di questa gente che si sbrana per limitare le licenze. Il tassista, che mi fa un cenno tipicamente romano con la testa fuori dal finestrino quando esco dal portone, ha un brillantino all’orecchio destro. Sta parlando al cellulare, salgo nei sedili dietro e visualizzo con nitidezza nel mio occhio interno un’immagine del 20 aprile ‘41 che ritrae il professor Ferdinand Porsche in compagnia di un uomo magro e dalla fiacca personalità, Adolf Hitler, di cui quel giorno ricorreva il compleanno, mentre collaudano un VK4501 Tiger P, un panzer di 45 tonnellate, che non andrà mai in produzione, nelle industrie di lavoro forzato Nibelungenwerke ne verranno costruiti solo cinque. Il tassista si compiace di terminare la telefonata e gli dico piazza di Spagna, la monovolume si muove nel traffico romano e andiamo ovviamente a passo d’uomo, figurarsi, è primo pomeriggio sotto Natale, il delirio, i motorini rischiano la morte, me ne schizzano ai lati in continuazione, sciamano, ho un conato e tiro su il whiskey, chino la testa in avanti e rapidamente lo inghiotto, qualcosa mi finisce sulla nocca della mano, qualcosa che è risalito su, ha un colore ambrato. “Ci muoviamo?” dico e il tassista non risponde, non guarda nemmeno nello specchietto come in Taxi Driver quando Robert De Niro carica tutta quella serie di psicopatici, tanto sembra ovvio che no, non ci muoviamo.

Venti minuti dopo, fermi disperati a via Mercadante, davanti allo zoo, il tassista mi dice se so niente della tigre che è scappata. E io: “No, non leggo i giornali”, e lui: “E io manco, l’ho sentito alla radio. Je stanno a da’ la caccia. Ma se rende conto? Una tigre pe’ Roma. Pare pure che sia vecchia. Mo’ non lo so quanto campa una tigre, ma dice che è come ’na donna de sessantacinque anni, poraccia”. E io penso: poraccia de che? Una vecchia tigre può anche farsi venire voglia di un’ultima avventura. Un ultimo morso serio, a strappare tendini e muscoli (mica per esibizionismo, per istinto) a un bambino vestito da eroe di Dragonball, a una zingarella coi denti bianchi, a me che vado a comprare regali di Natale. È triste, ma non saprò mai cosa stia pensando ora quella tigre. Spero non stia pensando quello che sto pensando io: cioè che il tassista, nonostante faccia lo sciolto, è frocio. Spero stia pensando qualcosa di meno ossessivo, di più lieve, di più moderno. Chissà la sua giovinezza di cucciolo di tigre. Spero non l’abbiano fotografata appena nata, o filmata per un qualche documentario stile Discovery Channel. Spero l’abbiano lasciata in pace, a bestemmiare il giorno in cui la potenzialità della sua nascita felina si tramutò in atto. Non fraintendete, non sono spiaciuto che sia nata. Dico solo che essere incazzati di venire al mondo, è molto in accordo col suo carattere di tigre. Di pericolo pubblico, di belva cui dare la caccia. Non sarà mica nata in cattività? Non sarà mica come la scimmia di cui racconta Vladimir Nabokov, che finalmente in grado di disegnare, disegnò le sbarre della propria gabbia? Certo è un bel paradosso, ficcare in gabbia gli animali selvatici. Facciamo loro la stessa cosa che accade a noi, in virtù del nostro sofisticato sistema sociale: contenimento. Nel loro caso il contenimento consiste nell’amarli, studiarli, fotografarli, pubblicarli, mandarli in onda, e infine sbatterli in gabbia sotto un’insegna ambientalista e infantile come Bioparco.

E io al tassista: “Ma dove l’hanno avvistata, la poveraccia?”, e lui: “Stammatina all’alba delle parti sue, ai Parioli. Je piacciono i quartieri bene”, e io: “Ma che quartieri bene, è solo che è vicino”, e lui: “Ma me scusi, me scusi, se io so’ ’na tigre, pure vecchia, ma che ce vado a fa’ ai Parioli? Io sta tigre nun la capisco… ma vattene a fa’ ’na passeggiata… che ne so… a rione Monti!”, e io: “Sì, dall’altra parte de Roma, che se non la investono prima, lì la affettano e la servono in qualche cinese, o peggio la invita qualche editore a prendere un aperitivo nella sua mansarda di vicolo degli Zingari, non so cosa sia peggio”, e lui: “Ma lei che lavoro fa?”, e io: “Non lavoro, faccio il mantenuto”, e lui: “Ah, me pareva, come parlava, è tipo ’a tigre lei! Nun fa niente da’a matina a’a sera”, e io: “Io soffro”, e lui: “Che?”, e io: “Sono un po’ una palla al piede”, e lui: “’O sa che è strano lei?”, e io: “Strano lo dice a Woody Allen, se casomai je sale sul taxi, non a me”, e lui: “’mazza o, come semo strani tutti. ’A tigre!, mejo che ’nce incontri a noi, te sbranamo de probblemi!”.

Dopo il simpatico siparietto, una cosa che a Manhattan, a Kuala Lumpur, a Bombay o a Sidney giudicherebbero come merita, una discesa ai gradini inferi dell’interrelazione sociale, ma questo, Roma, nemmeno è il Terzo Mondo, questo è Enne Mondo, Enne come numero infinito, delirante, mi riprendo con un sospirone e emergo dal taxi in una piazza di Spagna fredda pungente e vorticosa di miei sedicenti simili con buste di differenti dimensioni ma invariabilmente rettangolari e color grigio, crema, crema, grigio, bianco, grigio, crema, verdolino, crema, grigio, bianco, nero, rosa, crema, impreziosite da un logo espressivo di buona volontà e sofferenza di vivere. Sì perché c’è la crisi e i bambini non hanno il latte, questo è, tutte queste mani attaccate ai manici delle buste rettangolari. Pago il tassista e mi dico: “Roma, sei mia!” e una fitta tremenda di ansia mi trafigge alla bocca dello stomaco. Il Congo, il fiume nero, è ovunque e soprattutto dentro la mia pancia, tutt’intero. Mi appello a Cuor di Tenebra, a Kurtz: l’Orrore, l’Orrore, l’Orrore!, cantileno mentre cammino nel mio cappotto Emporio Armani verso Chanel in via del Babuino, per regalare una trousse a Enrica e niente di più caro di uno scialle a mia sorella.

Da Chanel, mi accoglie una commessa grassoccia con la parlantina sciolta che sembra guardarmi dall’alto in basso solo perché è alta quanto una modella californiana e questo la aiuta a superare i complessi di fare la commessa nonostante abbia superato la quarantina, ha la parlantina di un attore americano metodo Strasberg, quando si gira per condurmi da qualche parte noto l’etichetta di un codice a barre appiccicata sull’incavo del ginocchio della gamba sinistra dei pantaloni. Mi mostra le varie trousse, che poi sono due perché nel catalogo che mi hanno mandato a casa ce ne sono una buona mezza dozzina che hanno pensato bene di non ordinare datoché i giapponesi e le troie russe non le vogliono, mi domando cosa me li mandino a fare i cataloghi a casa, quando da un anfratto esce la direttrice, una signora per la quale provo un enorme rispetto considerato il lavoro di merda che fa, e la direttrice con quel suo sorriso ormai divenuto una seconda natura mi saluta perché mi conosce fin da quando sono venuto qui la prima volta con Enrica, della quale è in qualche modo amica, e io le spiego il mio problema, una trousse per Enrica e niente di più caro di uno scialle per mia sorella, e lei mi sottrae al diluvio verbale della commessa col codice a barre appiccicato alla gamba, si fa dare un badge, non so perché se le serva davvero o solo per il gusto di dire: “Scusa Laura dammi un badge”, e entriamo nel sancta sanctorum della boutique di Chanel di via del Babuino, un tempio dove quasi sono tentato di restare in calzini, una spianata di sabbia nera dove si accede solo con il badge e si può uscire anche all’esterno nello smog romano in una specie di cortiletto all’orientale con una magnolia magnifica, i giapponesi adorano prenderci il tè, e ci sediamo su una panchetta imbottita color crema vicino agli spogliatoi e con le pareti decorate da fotografie incorniciate di Greta Garbo e Coco Chanel, e la direttrice, chiamandomi per nome, lasciandosi come andare, allentando le falde del suo tailleur, smettendo di sorridere, mi fa: “Lo sai che mio marito ha una storia con quella puttana di Enrica? Lo sapevi?”

Viene fuori che Enrica sarebbe non una donna, ma una tigre. Non sto a raccontare tutto lo sfogo lacrimoso della direttrice di Chanel. La cosa che interessa è il ritratto che la direttrice mi fa di Enrica. Un’altra persona da quella che credo di conoscere. Tanto che più volte nel mezzo del suo sfogo le dico: “Ma stai parlando di Enrica? La mia ex?”, e lei: “E di chi? Va bene che faccio Roma-Parigi-Roma in un giorno e magari mi sono fusa il cervello con tutti questi russi che entrano e mi fanno venire i brividi, coi loro pacchi di contanti che ormai solo vederli mi viene il vomito, ma ancora la testa sulle spalle guarda che la mattina me la ritrovo, eh?”, e io: “Enrica che ti insidia il marito, da non crederci”, e lei: “Insidiato il marito, che bell’espressione gentile. Come sei gentile – bum, la direttrice di Chanel mi appoggia la testa sulla spalla, cazzo, sono nei guai – e com’è gentile anche Enrica, non ce l’ho con lei, quello che mi distrugge è che è stata più brava, più abile, più forte di me. Io che credevo di essere imbattibile, di avere tutto sotto controllo, di essere perfetta”, e io: “Va bene, ma ora che succede, tuo marito se ne va con lei, che succede?”, e lei: “Ma no, si sono divertiti, ora è già finita, o comunque è agli sgoccioli. La tigre ha fatto la sua sortita, mi ha portato via il marito per un po’, un uomo che in quarant’anni tra fidanzamento e matrimonio non m’aveva mai nemmeno detto una bugia, e ora sono qui, a giudicarmi una stronza, ferita, umiliata, e ogni mattina prima di alzarmi devo fare esercizi di autostima, devo sentirmi all’altezza del mio uomo, cosa che non mi era mai capitata, mi ha proprio trombata come una principiante, la tua Enrica”. E insomma, ve l’avevo detto: proprio patetico. Il tutto con la sua testa dai capelli innaturalmente rossicci sulla mia spalla. Che è pure stretta. Ma io ho sempre una freccia al mio arco. Una cosa per uscire dal patetico e buttarla sul ridicolo. Così dico alla direttrice di Chanel: “Cosa fai stasera? O meglio stanotte, dopo cena? Ho da poco preso una macchina nuova, mi piacerebbe mostrartela…”, e lei subito, come non attendesse altro, ma senza alzare la testa dalla mia spalla: “No guarda della tua macchina non me ne frega niente, ma domenica prossima c’è un concerto di musica minimalista all’Auditorium, un olandese, Martens, Mertens, non mi ricordo, mi piacerebbe tanto andarci e figurati se Stefano mi ci porta, a lui piacciono solo quelle lagne di ballate jazz, ecco, al concerto ci andrei molto volentieri, però da sola no…” e io capisco che siamo passati dal sentimentale al ridicolo al tremendamente… inadeguato. Lei è inadeguata. Io sono inadeguato. Soprattutto la musica minimalista all’Auditorium è inadeguata. Le carezzo un poco i capelli, lentamente, molto lentamente mi alzo in piedi, mi stringo nel cappotto, e vado via a fare altrove questi cazzo di regali.

*

Ti piace la notte, lettore? La notte delle feste, la notte quando hai casa piena di regali impacchettati che ti hanno riportato agli stadi più primitivi, indifesi, verminosamente sentimentali della tua personalità? Me ne sto in salone, solo e triste come un pupazzo di neve, e guardo questo dvd sadomaso, dove una domina inguainata in guepiere di pelle viola lo infila nel culo di un tale che somiglia tanto a uno che conosco, glielo infila dentro con un fallo di plastica pure lui viola, e il tale è costretto a dire, in inglese, frasi piuttosto facili anche per uno schiavo principiante come: “Mi piace prenderlo in culo!”, e la domina strilla: “Non ti sento!”, e lui: “Mi piace prenderlo in culo!” ma a volume raddoppiato, e a questo punto credo che il concetto sia chiaro, lascio tintinnare il mio scotch con due cubetti semisciolti di acqua Evian dentro, e mi domando perché mi sono portato a casa questo schifoso dvd, ora mi toccherà andare fino al videonoleggio e restituirlo, ho sempre odiato noleggiare i porno per questa cosa che poi tocca tornare e restituire. Restituire un porno, un controsenso immondo. È la notte del ventitré e già una mezza dozzina di dementi mi ha chiesto cosa farò la notte del ventiquattro. E già ho risposto che andrò a fare un giro in macchina. Andrò a soffrire in Ferrari. Mi piace piangerci dentro, quella macchina. Ho cominciato presto a piangere nelle macchine. Io non piango, non perché non sia una maledetta lagna d’uomo, questo lo vedete bene, non piango perché lo trovo uno sfogo da due soldi. Non mi libera. Però in macchina mi è capitato di farlo. Ricordo quand’ero ragazzino, mi portavo le prime fanciulle a scopare nei parcheggi, certi posti assurdi sulla via dei Laghi in direzione dei Castelli Romani, tutti posti con alberi e macchine e preservativi a terra, alberi e macchine e preservativi a terra, e finestrini abbassati da cui usciva lo sbuffo di fumo della sigaretta di fine chiavata. Quella è stata la mia educazione sentimentale, ne vedo ancora gli effetti.

La verità, la porca marcia verità, è che ci ha messo del tempo ad arrivare, ma alla fine mi è arrivato un pugno in faccia, questa storia che Enrica va in giro a predare uomini. Accidenti a me e quando sono entrato da Chanel. Se non ci fossi entrato, non l’avrei mai saputo. Perché non me l’ha detto? Conoscendo quella puttana di una tigre, non me l’ha detto perché si vergogna dei suoi sentimenti. Già. È una tigre. Perché cazzo mi viene in mente continuamente questa storia della tigre? Non sono così ubriaco, due bicchieri di scotch… Ah!, quella storia del tassista. Togliamo questo schifo di dvd e vestiamoci e andiamo a trovarla. Andiamo a conferire con lei. Non è nemmeno l’una, citofonerò e mi aprirà. Sono ancora il suo prediletto. Sono ancora il suo addestratore numero uno. Sono stato io a insegnarle a salire a quattro zampe sulla sedia da giardino. A saltare nel cerchio di fuoco. Sono stato io a insegnarle a leggere certi libri norvegesi, svedesi, che puzzano di paraffina spirituale da qui al Polo Nord. E sono stato io che una volta le ho detto: “Tu sei come una tigre, perché noi uomini vogliamo domare la tigre, ma tu sei assolutamente indomabile”, e lei per tutta risposta: “Tu non puoi domarmi, tutto quello che sei riuscito a domare è la Porsche, la Ferrari, la vera cosa che ami, le sole cose cui pensi. Probabilmente pensi che per fare l’amore siano indispensabili dei buoni pistoni”. E io: “Sì, lo penso. Un buon motore turbo”. E lei: “Guardati dentro, cosa vedi?”, e io: “Un cruscotto illuminato pieno di indicatori, un misto tra tecnologia luminescente moderna con laser azzurrini e vecchi contatori a lancetta, praticamente un’Aston Martin”, e lei: “Cos’è un’Aston Martin? Non so nemmeno di cosa parli”, e io: “Una macchina inglese, James Bond ti dice niente? Ora è uscito il nuovo modello, si chiama DB9, non è una bella sigla? Non è un bel suono, DiBBìNNove? Perché, perché non ti interessa niente di tutto ciò?”, e lei: “E chi ce l’ha questa DB9?”, e io: “Che io sappia, ancora nessuno, forse qualche angelo invisibile, qualche creatura di un film di quelli che piacevano a te, quel regista tedesco con gli occhialini da intellettuale”, e lei: “Vedi? Tu non ti interessi alle mie cose come puoi pretendere che io mi interessi alle tue”, e io: “Vieni, vieni, vieni a fare un giro in macchina con me, fai la strafica accanto a me, vieni a fare la strafica sul sedile del passeggero”. Sogni, amici belli. Sogni. Quando scarrozzavo Enrica in Porsche, una cosa che avrebbe mandato in estasi un milione di ragazzine svuotate d’anima. E a lei non gliene fregava un cazzo. Andavamo al Nuovo Sacher, in Porsche. Andavamo all’Azzurro Scipioni, in Porsche. Andavamo ai teatrini coi topi e le pulci, in Porsche. E lei sempre con quell’aria: “Che uomo cafone”. E io, signorsì, cafone. Non sapevo cosa guardare di più, cosa fosse più bello, il profilo di Enrica seduta accanto a me, con le cinture di sicurezza a X a fasciarle il fortunatissimo corpo di cui è dotata, oppure il tachimetro, il navigatore satellitare, il pomello del cambio, tutta la magnifica tecnologia della mia macchina sportiva da privilegiato. L’amore è veramente una magnifica lotta. Ma devi essere ambizioso. Altrimenti, se non sei ambizioso, rischi di essere felice, e allora tutto finisce. Il motore e le luci del cruscotto si spengono, e la tua creatura del cielo, la più bella donna che tu abbia mai visto, sparisce in un teatro off e non si farà mai più riaccompagnare.

Esco, ma non vado da lei. Se le voglio un’oncia di bene, devo lasciarla in pace, Enrica. Vado solo a fare un giro per calmarmi un po’. Non passo nemmeno in garage a prendere la Ferrari. Ho solo bisogno di guidare un po’. La Smart andrà benissimo egualmente. Una delle vetture più umilianti, ridicole, perfetto specchio della nostra identità rattrappita e miserevole. Vestiamoci male e usciamo con la scatoletta di plastica, dunque.

Quando arrivo alla Smart, parcheggiata in strada sotto casa alla mercé di chiunque, tanto chi se ne fotte, lì per lì il mio cervello registra qualcosa di anomalo, ma non capisce cosa. Poi come un cieco che riacquisti la vista di colpo, cammino intorno alla macchina che, messa in doppia fila, in doppia fila di proposito, vista l’ora, me la blocca. In realtà ne blocca due, la mia e un’altra davanti. L’ostacolo è un’Aston Martin DB9 canna di fucile. Mi chino per guardare nell’abitacolo, ma non vedo nessuno. Non c’è bisogno della chiaroveggenza per capire che è quella di Martino. Bene, prendiamolo come un segnale: mi vuole parlare. Se però apparisse, spuntasse fuori, e anche alla svelta, sarebbe meglio. Voglio dire, fa un freddo del cazzo e io parlare posso farlo solo finché la temperatura corporea non scende sotto i trenta gradi, forse dovrei farmi venire in mente qualcosa per farlo apparire, per evocarlo, un esorcismo, qualcosa, senonché non mi viene niente di meglio che:

“Ma va’ all’Inferno”, impreco.
“Quando andrò all’Inferno”, dice Martino, sbucando dall’angolo con viale Parioli, come se fosse stato in attesa sotto gli alberi intossicati dallo smog, “non sarà un problema. Iddio mi dirà: Martino, tu non meriti nient’altro che l’Inferno. E io gli dirò: Padre, una sola cosa, come cazzo devo comportarmi laggiù?”
“Ne fai una questione d’etichetta?”
Lui ride con quel testone di bambino lasciandosi sfuggire le zanne fuori dalla bocca. Con questo freddo, indossa solo una giacca di pelle nera sopra un maglione pesante a righe da marinaio. Per la prima volta mi rendo conto di quanto sia grosso, mi rendo conto che se si trascende, finisce male.
“Dài, guarda qua, ti ho chiuso. Ti ho bloccato. Questo è l’Inferno. L’Inferno non è a molte miglia sottoterra. L’Inferno è sentire i vicini che scopano, le porte dell’ascensore che sbattono nella tromba delle scale, uno che ti si piazza in doppia fila e tu ti disperi e gridi come un cornuto ‘ma dove cazzo sono i vigili’?”
“L’ho già sentita questa, la vita fa schifo, questa valle di lacrime, eccetera. L’ho già sentita troppe volte”.
“Bisogna sapersi comportare all’Inferno. Perché che sia l’Inferno, non c’è dubbio. Ma se ti sai comportare, certo, puoi anche rischiare di diventare un frocetto, ma forse ti salvi”.
“A proposito di frocetti, non è che sei strano?”. Per chiarire, mi do’ anche una schicchera all’orecchio.
Martino scoppia a ridere, totalmente incapace di controllare le zanne, tanto che a un certo punto si mette la mano davanti alla bocca e poi, come vergognandosene, finge di strofinarsi il naso per il freddo.
“Questo è quello che pensi di me, e io che mi illudevo fossimo amici”.
“Non siamo amici, non ci conosciamo”.
“Lo sai cosa?”
“No”.
“Il fatto è che…”
“Parla pure”.
“Be’, senti io sono normale, mi piacciono i transessuali e le donne, tutto regolare dunque. Ma credo proprio di averti sognato”.
“Ah sì?”
“Sì. Eri con la tua Ferrari. E io stavo con la mia. Ma non qui. Non in Italia. Sai cosa facevamo?”
“No”.
“Una gara in mezzo a… non lo so… come dirtelo… cumuli, cumuli enormi di immondizia. Pattume ovunque. Gareggiavamo in una cazzo di favela brasiliana, ecco”.
“Sei tutto scemo!”
“Lo so, ma è stato un gran bel sogno. E tu hai pilotato da Dio. Credimi. Hai anche vinto”.
“Martino, che t’eri bevuto?”
“Non ha nessuna importanza. Bevo regolarmente e non ho mai sognato di sfidare una Ferrari Maranello in mezzo a una favela di Rio. L’ho sognato solo con te. E per giunta, mi battevi. Era mattina cazzo, c’era un sole carico, splendido. La favela si era appena risvegliata. Non è vero che si svegliano presto quelli là, almeno nel mio sogno no, quei rottinculo di miserabili si svegliavano come tutti noi mortali. E abbiamo fatto una gara sotto i loro sguardi affamati di tutto. Io con la mia Aston Martin e tu con la tua Ferrari. E tu hai vinto! Non perché la tua macchina fosse più veloce, semplicemente eri riuscito a elaborare un percorso più rapido in mezzo a quelle torri di merda. Io mi perdevo come un cazzo di topolino nel labirinto. Infilavo sensi vietati e dovevo tornare indietro. Ridicolo no? Sensi vietati nelle favelas. Che razza di sogno!”
“Hai detto che infilavi sensi vietati?”
“Sì, perché?”
“È buffo. Una coincidenza. A me succede davvero. Voglio dire, rischio davvero di morire un giorno”.
“Io solo in questo sogno assurdo. Sensi vietati… in continuazione!, è per quello che ho perso sai. Pestavo fino in fondo sull’acceleratore solo per accorgermi che ero appena entrato in un vicolo contromano. Con tutti questi bambini pezzenti, questi spaventapasseri non so se più scuri di pelle o di sporcizia, che mi venivano contro, con il loro carrettino di stracci… E io mi prendevo paura di accopparne qualcuno, capisci? Mi dicevo, merda, questi già sono rovinati dalla sfiga, dalla sperequazione mondiale, e io ora li investo con la mia Aston Martin. Ingranavo la retromarcia e via, tutto indietro, sperando di non accopparne qualcuno dietro. Era come un assurdo videogame. E intanto tu giravi a meraviglia, e alla fine hai vinto. Hai vinto quando a me mancavano ancora due giri e forse avevo pure arrotato qualche piccolo talento del calcio”.
“E poi quando ti sei svegliato? Ti è venuto in mente di beccarmi, bloccarmi la macchina e farmi la posta sotto casa?”
“Scusami. No davvero, è che sono… te lo dovevo raccontare. Non ho molta gente con cui parlare”.
Lo so che sei uno sfigato, lo so. Lo so che sei solo, che non scopi, che sei talmente puro che se ti fanno un test di purezza la macchina secerne puro grasso di purezza. Ma io? Vuoi tirarmi giù con te? Va bene, solo stanotte.
“Andiamoci a fare un giro con la tua. Ti va?” gli dico.
“Perché no?”

Non lo so chi sono, dice Martino, mentre andiamo da nessuna parte in particolare. Non lo so da dove vengo, forse non sono nemmeno nato in Italia, non so chi siano i miei genitori. Sono stato adottato. Ma dai miei genitori adottivi me ne sono andato. Perché è accaduto come nei film, ho ereditato da qualcuno che ha voluto rimanere anonimo. Potrebbe essere stato mio padre, non me ne frega un cazzo. Solo mi piace pensare così. Un trust alle Isole Vergini, non so se ne capisci di queste cose, ti risparmio. Ho incontrato un tizio, che si faceva chiamare l’uomo con la valigia. Lui si è messo direttamente in contatto con me. All’epoca io vivevo ancora insieme ai miei genitori adottivi. Io e l’uomo con la valigia ci siamo visti in una banca del centro. Lui aveva nemmeno quarant’anni, e non sembrava Babbo Natale. Non sembrava il tipo che ti cambia la vita, e invece la mia vita me l’ha cambiata. Ora ho un sacco di soldi, posso comprarmi le macchine, pagarmi le puttane. Non so perché ti sto facendo tutte queste confidenze, sei sul sedile accanto a me, nella mia macchina, ma non ci conosciamo effettivamente. Comunque qualcuno si è pentito di avermi messo al mondo e poi abbandonato, e questa macchina è il risarcimento. Capito?

*

Martino mi racconta tutta questa storia guidando piano, sempre intorno agli ottanta. Come se parlare con me di questioni personali lo inibisse nella sua ansia di velocità. Si tiene a bada le zanne, ogni tanto fa salire il labbro inferiore quasi fino al naso, si passa la mano davanti alla bocca, finché dopo un’ora interminabile di vagabondaggi per i Parioli bui mi sembra che la strada sia sempre più scura, nera come un abisso, e appoggio la testa di lato, sulla portiera dura come un pugno e mi addormento lì, nella sua macchina, una cosa che in tutta la mia carriera di insonne non mi è mai capitata. Mi addormento nella macchina di un estraneo col quale condivido solo la passione per le auto sportive. E non sogno, non mi agito, forse non cambio mai nemmeno posizione. Quando mi sveglio è spuntato il sole, sono ancora dentro la Aston Martin, ma ho la cintura slacciata. Siamo parcheggiati davanti al bar del Cigno, e Martino sta mangiando un cornetto reggendo una busta di carta bianca, appoggiato col culo enorme al cofano davanti a me. Non si è accorto che mi sono svegliato, mangia il suo cornetto senza curarsi delle zanne, mangia come un animale, si infila in bocca mezzo cornetto intero e subito ne pesca dalla busta un secondo, guardandoselo come un pesciolino azzurro ancora vivo. Batto sul finestrino, e lui non mi sente. Batto più forte e finalmente si volta verso di me, sorride masticando.

“Ti sei addormentato come una pigna”, dice.
Annuisco.
“Ti ho preso due cornetti con la crema”.
Faccio un gesto con la mano: dammeli.
Lui si avvicina, abbasso il finestrino, li pesca dalla busta e me li passa con il tovagliolo di carta.
“Attento a non sbriciolare. Non è meglio se li mangi fuori?”
“Va bene, ora scendo. Ma dimmi una cosa, che hai fatto mentre dormivo?”
“Niente, ho continuato a guidare”.
“Hai continuato a guidare fino ad ora, da ieri notte?”
“Sì. Dormivi così bene. Non potevo mica scaricarti. Mi hanno anche fermato i Carabinieri. Gli ho detto che dormivi. Loro hanno detto che lo vedevano, che dormivi. Ci siamo trovati d’accordo, una volta tanto”.
Martino sorride scoprendo le zanne macchiate dei pezzi marroncini del cornetto.
“La sai una cosa?” mi domanda.
“No”.
“Russi da far schifo”.
“Questo lo so, me lo dice sempre Enrica”.
“Ah sì? Tu ce l’hai una donna, allora”.
“È una storia finita. Lei lo sa che russo peggio che mai perché ogni tanto mi ospita. Anche mia sorella mi ospita, ma ultimamente con mia sorella ho qualche problema. Così vado più spesso a dormire da Enrica. Letti separati, ovviamente. Porte chiuse. Però mi sente lo stesso”.
“Poveraccia. A un certo punto facevi più rumore te dei 450 cavalli”.
Martino scoppia a ridere in modo così demente, selvaggio, che io mi dico: ma sì, ma sì, non è l’amore quello che conta. Quello che conta è dormire bene. Dormire veramente bene. E io stanotte me ne sono fatta una che nemmeno da bambino quando ancora mi ciucciavo il pollice. Mi appoggio sul cofano anch’io. È caldo, ma si resiste.
“Che idiota”, dico tra me e me, e addento il mio cornetto.
“Che ti prende?”
“In questo preciso momento, ho smesso di soffrire per una cosa”.
“Quella donna?”
“Per un attimo ho avuto nostalgia di quando la stringevo forte tra le braccia. Poi è passata”.
“Sei un debole”.
“Niente affatto. Quanti possono dire di aver portato in macchina, e di essere stati ospitati, di aver dormito insieme, di aver scambiato affettuosità e carezze e lunghi abbracci, con un esemplare di tigre adulta, matura?”
“Ma di che parli, scemo?”
“Ascolta. Stanotte, ti va una gara?”
“Non ce l’hai una casa, una famiglia? È Natale, perdio”.

*

Io e Martino stiamo guidando. Siamo appaiati, io con la mia Ferrari Maranello, lui con la sua Aston Martin DB9. Sono le tre e diciotto di mattina, piove, stiamo scendendo di corsa, furiosi, incazzati, per via Antonelli. Alziamo scie d’acqua alte un paio di metri. Due motoscafi. Se ci beccano i carabinieri ci arrestano per mancanza della patente nautica. Arrivati giù a piazza Euclide, prevedo di stringerlo un po’ contro la farmacia sulla destra, magari fargli strusciare i cassonetti, e passarlo quando poi curviamo a sinistra per sfilare davanti all’Auditorium, in modo da precederlo quando infileremo la strettoia tra i due alberi che poi porta fino a via Flaminia. Dentro la macchina ho messo del bel rock duro, loro si chiamano Dead Combo, e non me ne frega un cazzo che Martino digrigni i denti, non me ne frega un cazzo che ci siamo scambiati confidenze, lui colla sua storia strappalacrime di adozioni e eredità, io con le mie patetiche ridicole storie di cuore e notti insonni, ora tutto quello che sento è il dolore intollerabile al ginocchio, per tutti i colpi di freno che devo dare prima della curva, agli incroci, anche se i semafori non li rispettiamo bisogna fare attenzione, e ecco, ora sono al Teatro Olimpico e secondo il percorso stabilito sto infilandomi in viale Pinturicchio, e lui mi sta dietro, sto solo pensando di vincere, di arrivare per primo davanti a quel verme al quale ho pure parlato di Enrica, come se potesse capire quando nemmeno io mi capisco, e cazzo adesso dove sono? Non è possibile, stai attento, concentrati, cazzo, abbassa questa merda di rock fasullo e certo! Sono di nuovo su via Guido Reni e ora devo risalire ai Parioli, furiosamente, mortalmente, devo davvero vincerla questa gara, se non vinco non dormo, se non vinco mi rimarranno quelle zanne davanti agli occhi per chissà quanti giorni e dovrò chiedere a mia sorella di dormire da lei, ma invece stavolta andrà come desidero, ecco, ora sono di nuovo su, a piazza Euclide, Martino nemmeno si vede, chissà quanto gli sto dando, e ora senza neanche un colpo di freno, il dolore al ginocchio non lo sento fingo che sia un impulso illusorio del cervello che posso dominare benissimo, salgo su per una via buia, buia come la morte, salgo su, e… e cazzo, via Archimede!, Sono contromano! Contromano!!!

Bene. Niente panico. Inchioda. Blocca le ruote con questi cazzo di freni in ceramica da competizione. Chi vuoi che venga a quest’ora. Non rischi niente. Sei a via Archimede, attorno al civico 17, buia come la morte, alle quattro di mattina. E non scende giù nessuno. Perciò ingrana la retromarcia. Ne hai di vantaggio, hai fatto la tua solita cazzata, ma la vittoria non può sfuggirti. Vai, tutto indietro, tutto indietro… BUM! Oh cazzo. Oh cazzo. Stavolta ho fatto fuori qualcuno. Stavolta l’ho fatto veramente fuori. L’ho sentito urlare! Oh merda, non ho voglia nemmeno di scendere e andare a guardare. Non ho voglia! Cristo, che stai facendo? Piangi? Ma tu non piangi mai, non ti libera, non ti sfoga. Cosa cazzo stai facendo? Stai davvero lacrimando e pulendoti le lacrime con le mani e imprecando e pensando a un mucchio di cose confuse e incomprensibili che ti fanno impazzire? Scendi e datti una calmata, e controlla chi hai messo sotto. Controlla chi ha fatto quell’urlo disumano. Bene, okay, a quanto pare ce l’hai ancora sotto. Dài, avanti, e poi parcheggia. Lo senti come geme? Ce l’avevi ancora sotto. Gli sei passato sopra un’altra volta. Prima una botta, poi una passata. Stavolta l’hai proprio spiaccicato. Ecco, parcheggia, spegni, slacciati le cinture, scendi. E vai a vedere. Vai a vedere che cazzo hai combinato, stavolta, che ha fatto un urlo che non sembrava nemmeno un essere umano.

“Povera bestia”, dice Martino, la sua mole antiestetica nel buio di via Archimede. L’ho chiamato al cellulare, è arrivato in un secondo, è sceso, ha lasciato la portiera dell’Aston Martin aperta, e si è messo a guardarla.
“Non avevo mai sentito il cuore a una tigre”, dico.
“Cosa volevi fare?”
“Capire se era ancora viva. L’ho stecchita. Meglio così”.
“Cazzo, ecco che si rimette a piovere. Che facciamo?”
“Proviamo a tirarla su?”
“Che vuoi fare?”
“La portiamo da Enrica”.
“Ma sei scemo?”
“Ascolta, quella donna mi ha ospitato tante di quelle volte, nelle mie notti di disperazione, quella donna ha una pazienza infinita. Devo farle vedere cosa ho combinato. Glielo devo. Le ho sempre raccontato tutti i miei fatti più triviali, e lei se n’è sempre stata con quegli occhioni indulgenti a ascoltarmi, con sacra pazienza, neanche fossero state cose interessanti. E ti posso giurare su mia madre che non lo erano, interessanti. Ora vuoi che non la metta al corrente di questo?”
“È solo una scusa per andare da lei, avanti! Ma che speri, di risultare affascinante e riscattare tutte le notti in cui le hai rotto il cazzo con questa storia che hai investito un gattone con la Ferrari?”
“Senti, non devi venire con me da lei. Però sei grosso come un bisonte, e io certo non ce la faccio a tirarla su da sola”.
“Ma dove cazzo la vuoi mettere? Non entra né nella mia né nella tua”.
“Nella tua, nel bagagliaio, senza chiuderlo, c’entra”.
“Tu sei malato di mente”.
“No, sono solo uno che abita in una città e non è pratico nel gestire il post-investimento tigri. Dammi una mano”.
“Porca eva, ma peserà una tonnellata”.
“Pensa a qualcosa che ti fa incazzare. Ti moltiplicherà le forze”.
“Non c’è niente che mi faccia incazzare, da quando l’uomo con la valigia è entrato nella mia vita”.
“Una volta, me lo ricordo benissimo, mi hai detto che se ti fossi trovato una donna nuda nel letto, l’avresti sbudellata”.
“Oh sì, l’ho detto?”
“L’hai detto. Allora pensa a quella donna nuda nel tuo letto, e solleva ’sta cazzo di tigre”.
“In effetti…”
Martino sbatte le mani e si avvicina alla carcassa. Gli piove addosso e le gocce rimbalzano via dalla sua giacca di pelle nera come terrorizzate. La prende per la testa, la trascina, non chiedetemi come fa, dove la prende tutta questa rabbia, questa assurda, segreta forza. Forse è davvero la visione della donna nuda nel suo letto. Con le zanne che gli scappano da tutti gli angoli della bocca, ficca la tigre nel bagagliaio dell’Aston Martin. Le zampe della tigre sbucano di fuori come quelle di un enorme pupazzo regalo di Natale. Martino l’ha rovesciata dentro, lasciandola andare sulla schiena. Ora andiamo a via Bertoloni da Enrica, sperando che i Carabinieri, la Polizia, e nessun altro voglia dirci quello che dobbiamo o non dobbiamo regalare per il santo Natale. Né come dobbiamo impressionare le nostre donne, in modo da riprendercele, o quantomeno catturare la loro attenzione per una notte.

*

Chi è Enrica Jacchi Pisello? La cosa va chiarita, mentre un duo di dementi, sotto la pioggia battente di questo Venticinque dicembre mattina, allacciati ai sedili di un’Aston Martin DB9 con tigre accoppata nel bagagliaio aperto, si dirigono verso il suo appartamento di via Bertoloni nel soporifero quartiere romano dei Parioli. Enrica Jacchi Pisello è innanzitutto una donna generosa. Esistono donne che quando non amano un uomo lo lasciano marcire sotto il sole del deserto della Morte. Diventano come l’amministratore delegato che deve tagliare il personale. Non così Enrica. Enrica non mi ha mai dato la sensazione di amministrare nulla. Dopo avermi piantato, e Dio sa se fece bene, divenne, se possibile, ancora meno amministratore delegato di prima. Anzi, state bene attenti: credo che mi trovò interessante, mi trovò divertente, e insomma cominciò a amarmi solo dopo avermi piantato. Anche questa è una rarità. Faccio un esempio scemo, ma che, come tutti i paradossi, può aiutare a capire. Ho i denti storti. Prima di lasciarmi, ogni tanto sottolineava questa faccenda dei denti storti, quando ci baciavamo. Sembrava una bambina capricciosa. “Hai i denti storti, cazzo, ma da bambino non portavi l’apparecchio?” Ci baciavamo, io come un coglione sorridevo, lei notava i denti storti, e vai con la critica al mio sorriso. Complessato come sono, capirete che mi dava molto fastidio che notasse i miei denti storti. Poi mi piantò, io passai i miei due anni con un muso lungo così, ma quando ci riavvicinammo, quando cominciai a dormirle a casa nella stanza degli ospiti e a intrattenerla con ogni sorta di aneddoti, avventure, bugie, finte e vere malattie, episodi sparsi, finché la mattina dopo non facevamo colazione con i suoi prediletti cereali Kellogg’s insieme avendo dormito come sassi benché non moltissimo, ma a volte anche moltissimo perché né io né lei lavorando in ufficio ci alzavamo anche alle dieci, quando ci riavvicinammo, lei in uno dei primi re-incontri mi disse: “Perdonami per averti fatto venire il complesso dei denti storti”, e io: “Non me l’hai fatto venire tu, ce l’avevo già”, e lei: “Allora perdonami per non averti aiutato a superarlo, a uscirne gloriosamente”. Capite? Una simile protezione, una simile assicurazione contro la furia bestiale della vita, prima, quando eravamo a tutti gli effetti una coppia ufficiale, mai. E adesso, adesso questa notte di Natale, le sto portando a casa una tigre morta e un nuovo amico che altro che denti storti, ha zanne tali che se non sto concentrato a pensare che è solo Martino, un disadattato grunge come tanti, solo sfondato di soldi, se non sto concentrato, mi sembra di stare in un incubo che dura una vita. In un incubo che è peggio della vita, è ancora più senza luce e senza speranza.

Via Bertoloni, ovviamente, è una pace. Ormai è quasi l’alba, piove sempre forte, Martino non ha fatto altro che rompere le palle per tutto il tempo e avvertirmi di macchine della polizia qui e lì che poi erano solo cittadini privati scoglionati come noi. A un certo punto Martino coprendosi le zanne con una mano mi ha detto: “Sei un incosciente”, e io ho pensato, con una punta di tristezza nel cuore, che aver aspettato trentaquattro anni per farsi dire da qualcuno “Sei un incosciente” devo aver vissuto veramente male, ma finalmente, stanotte, ce l’ho fatta. Ho detto a Martino di parcheggiare davanti al ventotto, il civico di Enrica, visto che c’era un posto preciso quanto l’Aston Martin, lui ha parcheggiato senza commentare giacché sa bene che qui, in questo preciso punto dell’universo, le Aston Martin, andiamo, non le rubano, questa è la parte bella dei Parioli, mica quello schifo di palazzoni popolari attorno a viale Parioli vero e proprio, per non dire di quel cesso di via Archimede, dove ho accoppato la tigre, povera tigre, se ne stava nella via che dei Parioli è in assoluto la più scacazzata da cani di ogni genere, specie bulldog asmatici. Povera tigre, povera gattona. Spero che, a differenza di me, qualcuno l’abbia amata finché è vissuta. Ci liberiamo dalle cinture di sicurezza e io e Martino scendiamo dalla DB9 e io gli dico: “Prendi la tigre”, e lui: “Sì, prendi la tigre, non so se ti rendi conto delle frasi che escono dalla tua bocca”, e io, come convinto che ripetendo una frase la porzione di realtà in essa contenuta possa materializzarsi, o qualcosa del genere: “Prendi la tigre e caricala nell’ascensore di Enrica”, e Martino risponde con un fischio e poi dice: “Ehi, ragazzo, ora torna sulla Terra, il tuo Pianeta non va più bene. Io ti ho accompagnato fin qui, ora butto questa signora sul marciapiede e me ne vado a dormire, perché poi a mezzogiorno voglio andare a piazza Navona a mangiare lo zucchero filato”, e io: “Ci andremo a piazza Navona a mangiare lo zucchero filato, te lo giuro sul mio cuore, ma ci andremo con Enrica, a mezzogiorno, solo dopo essere saliti da lei, averla salutata, averle fatto gli auguri di Natale, avere conversato amabilmente e mi raccomando cerca di comportarti bene cazzo, e soprattutto dopo averle mostrato la tigre, perché so per certo che la tigre le interessa”, e Martino: “E cosa te lo fa pensare?”, e io: “Io lo so, io lo so che è così, la tigre le interessa. Dài, pensa a quella donna nuda nel letto, tira su la tigre, io ora citofono”.

(Da “Io odio John Updike”, uscito per Fazi Editore il 10 marzo)

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30 Commenti

  1. Giordano è uno dei migliori scrittori italiani…

    aspetto con ansia il suo primo libro, di sicuro sarà un capolavoro…

  2. credevo che fosse un racconto messo on-line…

    solo verso la fine mi sono accorto che è un estratto da
    “Io odio John Updike” :-)

    dopo aver letto “corri coniglio” e “Centauro” anni fa e non averne capito la bellezza, mi associo

    solo che in modalità lobotomica, quando capita, continuo a prendere libri di Cheever, di racconti, un libro su un codice di non so cosa, insomma, forse non odio, ma dubbi inscrostabili, certo

    vado a vedere se da qualche librivendolo nei paraggi lo trovo…
    non John Updike, non lo riconoscerei manco, ma il libro di tedoldi, in fondo non sarei in grado di riconoscere neanche Tedoldi di persona

    byezz

  3. Accipicchia DONATO come ti esprimi nello scritto:”..solo che in modalità lobotomica, quando capita”….”un libro su un codice di non so cosa, insomma, forse non odio, ma dubbi inscrostabili”..certo

    vado a vedere se da qualche librivendolo nei paraggi lo trovo( mi ricordi i tempi del Montgomeri&Eskimo :-)..

  4. Io di Tedoldi ricorso le risse che faceva scoppiare sul forum di maltese usando nick di pittori surrealisti. Spassosissimo.

  5. sono sconcertato dalla lettura. io attualmente sono all’ottava incarnazione = pirla (nato l’8 dicembre 19?9 in via Roma 9), ed ero convinto che la nona = asino. Qui mi dicono dobermann. Proporrei all’autore e al postante (il FK che seguo e di cui sento la fibra ottico/etica) una mediazione: jaguar?

    DB8

  6. siete una marea di rottinculo, nella vostra ansia delirante di un’etichetta da addossare a tedoldi: manco fosse un deterviso, un brandy o una merendina. “bravo, cattivo, delirante, noioso, geniale” le vostre definizioni panna rendono troppo dolciastro il sapore acre della lettura. e la tequila bum bum diventa vin santo, in mano vostra.

    a che cazzo vale una definizione di letteratura senza l’azione, senza la presa diretta di un sub davanti ad un bianco o un tigre, senza lo scrivere, il riflettere, l’agire nell’arte e per l’arte?

    in sintesi: che minchia elogiate o disprezzate, se non scrivete prima le bateau ivre?

    ciao ciucciaminchia simpatici, vi voglio un mondo di bene, non importa cosa scriviate: amate leggere e la letteratura e, anche se siete un pò finocchi, ce ne fossero di stronzi come voi…ed il mondo sarebbe migliore, invece di essere popolato da una ridda di testa di cazzo che sfondano i mc donald’s pieni di bambini (invece che mangiarsi un crispy mc bacon).

    leggetevi il libro di tedoldi, e poi respirate: se vi si rizza il cazzo, giordano è un grande artista. altrimenti, rimarrà solo un grande scrittore.

    un bacio, con affetto, a voi tutti (tedoldino compreso, che può intuire chi io sia)
    henry

  7. chinasky, “deterviso”: geniale! ma chi è lei in realtà, bartezzaghi? eco?

    complimentonissimi per la prosa casual con cui esprime il suo entusiasmo, anche! c’è molto bisogno di aria fresca in giro. un incipit come “siete una marea di rottinculo” non l’avevo mai letto qui su Nazione Indiana!

  8. effettivamente, una cosa forte, diretta, un pugno nello stomaco.
    un bell’inizio: “siete una marea di rottinculo”.
    propongo anche, in alternativa:
    siete una rottea di marinculo;
    siete una culea di rottinmare.

  9. io teodoldi lo trovo presuntuoso. non è male ma uno che nella vita non fa niente se non ogni tanto imbrattare fogli, non lo so. come scrittore mi sembra essere un sei come persona uno zero. uno zero spaccato.

  10. effettivamente questa racconto ha un’atmosfera fortissima, mi sa che davvero è un grande scrittore anche se c’è qualcosa di troppo introverso, come nella maggior parte degli italiani contemporanei (nessun cenno al mondo reale, che so, come in Houellebeck)

  11. ehi, f.says, e tu chi sei? san francesco? tu scrivi “uno che nella vita non fa niente se non ogni tanto imbrattare fogli, non lo so. come scrittore mi sembra essere un sei come persona uno zero” e ti permetti il lusso del giudizio sulla persona e sullo scrittore.

    tu cosa fai? timbri il cartellino tutte le mattine, e solo perchè lecchi il culo ad un fottuto capoufficio o perchè dici alla tua segretaria quali appuntamenti prendere e quando ciucciarlo, ti senti più utile di tedoldi? forse socrate, leopardi, platone o nietzche facevano altro che “imbrattare fogli”?

    forse l’unico che “imbratta fogli” sei tu, che sei rimasto nei costrutti mentali alle seghe che ti tiravi a tredici anni, quando “imbrattavi i fogli” di supersex, guardando gabriel pontello e seka!

    attento, a dare giudizi sulla vita altrui. tu che ti ritieni utile e santo, ricorda che qualcuno la pensa diversamente da te, ricorda che qualcuno scrisse: “lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare”.

    tu, che sei ignorante come un ciucco andino, sappi che “vita activa” non è produrre denaro, ma conoscenza, arte, cultura ed amore.

    e tu, che ti atteggi a censore della vita di tedoldi, cosa mai avrai combinato per poterlo giudicare, per vantare il potere della mannaia, per essere coinquilino di Robespierre sul tavolo del tribunale del popolo?

    tu mi sembri Hitler nel covo delle aquile, forte di un potere che oscilla sulla tua testa come una mannaia, di un potere che ostenti a Tedoldi che, da casa sua, scrive le pagine della storia della letteratura, senza alcun potere, se non quello di “imbrattare fogli”.

    fogli su cui saranno interrogati i tuoi nipotini. i quali, tornando da scuola, diranno di aver preso sette e mezzo all’interrogazione, e chiederanno alla loro madre dov’è quel rincoglionito del nonno (tu), scassapalle sempre pronto a dire loro cosa debbono o non debbono fare.

    pensaci prima e non ridurti così!
    con affetto
    henry chinasky

  12. Ah la letteratura!
    però finché ci si insulta così anche per scherzo, non possiamo certo stupirci se poi vince Berlusconi e gli italiani sono per metà fascisti.
    Che ne direste di dare un’occhiata da vicino al buddhismo? In confronto alla nonviolenza buddhista tutto il pensiero occidentale vale quanto un cadavere all’obitorio.

  13. caro Edoardo Acotto,
    leggi la fine dei miei due post, e capirai che tutto voglio tranne che odiare il mondo. lo amo troppo, per rovinare me stesso con un sentimento di ostilità, tanto più se preconcetto. in questo senso, non condivido il titolo del libro di Giordano: “Io odio”. Odiare gli altri equivale a rovinare se stessi. E, se leggi i testi buddisti, questi te lo confermeranno. Ma ti diranno anche che la potenza in te va coltivata, esaltata quanto controllata. ti diranno anche che devi essere verso gli altri energia, e dagli altri trarne altrettanta. per questo, nei miei incipit, posso apparire offensivo, anche se nella sostanza sono “amorevole”.

    un’ulteriore notazione: credi sia più buddista il fratacchione berlusconi o i violenti comunisti che spaccano vetrine in corso buenos aires o lanciano molotov contro la polizia ed i carabinieri a genova?

    attenzione a sostenere che buddista è bello, equivale a privo di emozioni e sensazioni e pulsioni e forza, ed equivale a giusto, buono e santo, e che tutto ciò equivale a persona di sinistra. Buddha non era nè di sinistra, nè di destra, e non va strumentalizzato, come fanno molti partiti con Gesù. Questa, sì, è violenza.

    un bacio se sei donna, una stretta di mano se hai il palo tra le gambe
    henry chinasky

  14. ma caro henry chinasky, non volevo farti incazzare… e’ solo che penso che la violenza si annidi già nel linguaggio e nelle enunciazioni.
    Riguardo al fatto che buddhista = privo di emozioni, questo è completamente falso, come evidente da qualsiasi esempio vivente o testuale di buddhismo.
    Solo si tratta di emozioni diverse da quelle occidentali, e a mio parere migliori (confrontare la reazione popolare allo tsunami con quella a New Orleans: magari è un po’ scorretto ma qualcosa di diverso si intravvede).

    Poi non è che ci siano i nonviolenti assoluti: non credo proprio di essere immune da violenza, se sei vivo è impossibile: ma è quell’effetto catarico che tu consideri buono (coltivare esaltare e controllare la violenza) che invece io considero il grande inganno aristotelico dell’Occidente.
    Identificarsi con le proprie emozioni distruttive non porta a nessun bene per il sistema, al massimo solo a un bene immediato per chi incarni la propria volontà di potenza.

    Ma in ogni caso fai come vuoi tu.

    Buddhismo è comunque bello.

    un abbraccio, che tu sia donna o uomo

  15. caro edoardo acotto,
    ho scritto infatti che non bisogna sostenere che “buddista è bello, equivale a privo di emozioni”. La penso come te, quando sostieni che “buddhista = privo di emozioni, questo è completamente falso”.

    Non ho capito, quindi, in cosa differiva questo tuo ultimo pensiero da quello prima scritto da me.

    Io ho scritto che “se leggi i testi buddisti, questi te lo confermeranno. Ma ti diranno anche che la potenza in te va coltivata, esaltata quanto controllata”… hai presente i monaci combattenti, ed i samurai? hai presente la prevalenza della mente sulla materia? hai presente la crescita progressiva di status spirituale, come forma di crescita di potenza?

    ma non ho affatto scritto – come tu sostieni che io abbia fatto – “quell’effetto catarico che tu consideri buono (coltivare esaltare e controllare la violenza)”, che la violenza – ripeto – la violenza possa essere coltivata esaltata e controllata. Violenza non è potenza. Violenza è sentimento sgraziato e debole. Potenza è tensione che stravolge e determina, forte radice di un albero divelto da un uragano. Anche un albero morto per uno tsunami ribadisce con forza la sua potenza, con una radice di 4 metri d’altezza. Ma non cìè violenza, nella sua aggraziata posa statica, nel suo essere legna in attesa di ardere, nel suo essere prigioniero di una stasi mistica, appoggiato sul fianco della radice, come se stesse per morire e fosse morte che pulsa da mille anni, morte fresca di stagione antica.

    non ho mai parlato di “indentificazione” con le mie “emozioni distruttive”, come tu mi attribuisci di aver fatto. Semmai, ho scritto il contrario: “Odiare gli altri equivale a rovinare se stessi”.

    Perchè non leggi ciò che scrivo e non rispondi a questo, invece che ripetere ossessivamente i precetti del tuo Vangelo, di quella serie di precetti che hai bisogno di ripetere. perchè in essi hai bisogno di credere?

    C’è una verità danzante nel tuo cuore, caro Edoardo, una verità danzante che al ritmo del valzer scandisce le tue giornate, facendo ballare i tuoi secondi con un ritmo predeterminato, un ritmo controllato.

    Perchè senza quella danza, quel ritmo, quel battito da metronomo di questa tua personale ed ossessiva religione che diventa strumento e canzone, di questa nenia che mi ripeti senza rispondermi, forse tutto ti sembra privo di ordine, di senso, di ragione, di musica, di verità?

    Forse la prima verità sei tu. Ed allora dì ciò che senti, non ciò che hai imparato a cantare. Perchè nel tuo senso e sentire scoprirai che forse troppe volte hai pensato di cantare, ma eri in play-back, sulle note di un vecchio 45 giri interpretato dagli Stormy Six del mio amico Garau (buddhista come te).

    Un caro saluto
    henry chinasky

  16. comunque, parliamo del bel libro di tedoldi, invece che di altro!!!
    ripeto: parliamo del bel libro di tedoldi, invece che di altro!!!

  17. Non posso parlare del bel libro di Tedoldi, perché NON L’HO LETTO, HO LETTO SOLO IL RACCONTO – FRETTOLOSAMENTE ANCHE QUELLO – E PERO’ MI E’ PIACIUTO.
    ok, ammetto che non avevo capito un cazzo nemmeno del tuo post, a lettura frettolosa una virgola mi aveva tratto in inganno.
    Quindi ripartiamo da zero se ti va di parlare per l’ultima volta di altro e non di Tedoldi, poi il libro me lo comprerò così parliamo di quello (ma non è che Tedoldi sei tu?).
    Allora sul buddhismo siamo d’accordo? Benissimo, ne sono lieto.
    Sulle mie emozioni hai senz’altro ragione, ma trovavo nei tuoi primi post un tono che mi appariva “violento” più che potente. Naturalmente era una mia impressione.
    Quindi, se capisco bene, consideri i samurai un fenomeno intrinsecamente buddhista? E’ vero che il buddhismo ha prodotto anche quello ma io sto decisamente più dalla parte dei bonzi che si davano fuoco in Vietnam.
    Non è che io sia buddhista in senso stretto: credo però che la filosofia buddhista possa fornire agli occidentali una via di fuga dalla filosofia occidentale.
    Per il resto, boh: non credo che esprimersi sia bello. Inevitabile come la violenza, ma come quella bisognerebbe ridurla al minimo. Sono per una passività attenta piuttosto che per un’attività creativa che aumenta l’entropia. Non che mi importi della morte termica: l’essere è vuoto, perciò vita e morte sono lo stesso, come esserci o non esserci.
    Ma quel che mi disturba mi illude che qualcosa faccia differenza, mentre in realtà nulla fa davvero differenza. Lo zen è la differenza che abolisce tutte le differenze. Questa non mi pare religione… Magari sbaglio.
    Beh, basta, un giono parleremo di Tedoldi
    Salutami il tuo amico buddhista, caro Henry.

    PS A proposito, Bukowsky non lo sopporto proprio, mi deprime un casino (ma ho letto solo Post Office). Invece mi piacciono le sue poesie…

    W tedoldi

    Ehi, da cinque minuti E’ IL MIO COMPLEANNO!!!

  18. comunque rileggendo l’incipit del racconto di tedoldi trovo che sia falso come la morte, con tutto il rispetto. L’ennesimo scimmiottamento del tono aldonovista pseudoalienato e pseudosfigatoautocommiserante, apatico solo per finta.
    Una maschera che se piace agli editori e ai lettori colti che leggono i libri oggi in Italia, forse è perché rivela qualcosa di vero.
    ho anche iniziato a leggere il tuo primo post quassù, caro Henry, e ti trovo proprio espressivista… Mi sa che tu e io siamo agli antipodi (ma tanto è un’illusione!)

  19. auguri per il compleanno di edoardo… ma cosa è un’illusione?
    inoltre: io non sono tedoldi, che non ha certo bisogno di nascondersi dietro uno pseudonimo, se vuole mandare a cagare qualcuno… cosa che peraltro io non ho fatto, salvo qualche benevolo incipit… non leggere, caro edoardo, solo l’inizio, ma tutto il post!

    saludos y besos a vosotros

  20. uffa, ho già detto che io dei post leggo quello che voglio!
    comunque l’ho letto tutto il tuo primo post, Henry.
    Ne ricavo tra l’altro che fai immersioni subacquee…
    Dai, chi sei? Scommetto che sei la Santacroce!
    A sostegno di Tedoldi, che evidentemente devo proprio leggere, e che comunque non ha certo bisogno di essere sostenuto, riproduco per tutti gli annoiati curiosi di quassù un post di Santacroce sul suo blog (non avrei mai immaginato di rimanere invischiato a questa pagina… Ormai Tedoldi è nella mia vita, Henry sarà contento… Anche Henry ormai è nella mia vita!):

    martedì, 23 maggio 2006
    Io amo Giordano Tedoldi.

    “Io odio John Updike”.

    Sto leggendo.

    Giordano Tedoldi.

    Meraviglioso.

    Postato da: isabellas a 12:41 | link |

  21. non sono isabella, non sono femmina. comunque, se anche lo fossi, cambierebbe il libro di tedoldi ed il tuo giudizio su di lui? non credo, quindi… ma forse la discussione ti ha eccitato e volevi sapere se eri nelle grazie e nelle attenzioni di una dotata di fighetta, eh?

    saluti e baci a tutti
    henry chinasky

  22. veramente dicevo per darti ragione e conforto, ma sai che ti dico? Mi sa che hai un’età compresa tra i 18 e i 24 anni, quindi forse il dialogo tra noi è impossible visto che io ne ho 34 e ragiono diversamente da te.
    Insomma mi sa che alla fine mi fai odiare Tedoldi. credo che non lo leggero’ mai per colpa tua.
    Sarà contento giordano…
    senti, Henry, ma secondo te ci viene qualcuno quassù oltre a noi due? Dài cerchiamo di fare un po’ amicizia, magari ne nasce un dialogo decente.
    Sono a Parigi per qualche giorno e mi sono portato Un amore dell’altro mondo che devo terminare. Mi piace. L’hai letto?

  23. sono maschio, 35 enne, e questo spazio non mi sembra il più consono per “fare amicizia”, visto che è uno spazio pubblico.
    se ti fa piacere, scrivimi in email: h_chinasky@hotmail.com
    saluti
    henry
    p.s.: compra il libro di tedoldi, che non è male. non conosco “un amore dell’altro mondo”.

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