Intervista a Giacomo Sartori

di Sergio Rotino

Sergio Rotino: Lei vive già da molti anni in Francia, ma in questo ultimo romanzo il suo immaginario è fortemente legato al Trentino, sua terra d’origine. Sembrerebbe come se, in lei, venisse a scattare il meccanismo di chi, vivendo in un altro paese, continui a sognare nella lingua madre. Per lei è stata una necessità impossibile da eludere quella di ambientare Anatomia della battaglia in modo, diciamo, “diacronico”?

Giacomo Sartori: Io ho passato gran parte della mia vita da adulto all’estero, anche fuori dall’Europa, ma poi in effetti con miei romanzi – prima Tritolo, e adesso Anatomia della battaglia – è rispuntato il Trentino-Alto Adige. Ciò non corrisponde affatto a una decisione intenzionale. Ma è anche vero che tra tanti progetti che uno scrittore ha in testa alcuni vanno in porto, altri no, e certo in questo nulla è casuale. Evidentemente la mia terra di origine mi aveva marcato molto di più di quanto ne fossi cosciente, e quindi avevo in un certo senso “da dire la mia”, sentivo la necessità di descrivere questa parte d’Italia in cui sono cresciuto, e con la quale a dire la verità ho un rapporto tutt’altro che facile. Avevo bisogno di regolare un po’ di conti, forse.

SR: Nel suo ultimo romanzo, mette in scena due figure fra loro contrapposte, un padre fascista cui si contrappone un figlio considerato inetto, un fallito, e che entra per un breve frangente nella lotta armata durante gli anni Settanta e poi si rifugia nel deserto. Può raccontarci il perché di questo dualismo e il perché di una simile debolezza psicologica nel personaggio principale, quasi succube del padre?

GS: Per scrivere i miei testi non parto da delle tesi preconcette. E anche quando per preparare un testo leggo e studio molto o anche moltissimo – come è successo per Anatomia nella battaglia – nella scrittura il mio approccio resta intuitivo.
Quello che mi attira nella scrittura è proprio il poter utilizzare dei modi di abbordare la realtà non strettamente cerebrali, il fatto di poter arrivare a esprimermi con degli strumenti che sento come profondamente miei, che condensano il mio modo di essere e le mie conoscenze. In questo caso sono partito dalla figura di un vecchio che era stato fascista, e che ha continuato anche dopo la fine del fascismo a definirsi tale, ispirata per molti versi a mio padre. Ma poi nel testo, nella scrittura del testo, è spuntato fuori anche un figlio, un figlio schierato a sinistra, e sono venuti fuori gli anni ’70, e il terrorismo, e la fragilità della condizione attuale contrapposta alla sicumera del ventennio fascista, e la rete di legami tra tutti questi elementi. Nel testo finale è effettivamente presente un dualismo tra il padre e il figlio, dove il padre rappresenta la forza e il figlio la fragilità, e questa contrapposizione è tutt’altro che casuale. Ma per certi versi è vero anche il contrario, per molti aspetti la debolezza del figlio è una grande forza e la forza del padre è una irredimibile fragilità. Il figlio, benché fallito, è sicuramente più maturo del padre. E comunque le varie contrapposizioni sono un punto di arrivo, con tutto il margine di incertezza legato a qualsiasi processo di ricerca di verità, per definizione vano, non un punto di partenza.

SR: Il suo romanzo può essere letto come una critica bipartisan alle esperienze del fascismo e dell’estrema sinistra? Intese entrambe come etica e non come pura ideologia?

GS: Assolutamente no. Credo che un romanzo – un buon romanzo – non possa e non deva dare delle risposte semplici di questo tipo. Sia il fascismo che il terrorismo degli anni 70-80 sono dei fenomeni estremamente complessi, e per quanto mi riguarda ritengo che ogni semplificazione e ogni superficiale confronto siano da evitare. E poi è compito degli storici cercare di semplificare e di trovare i minimi comuni denominatori. I romanzieri colgono invece l’estrema complessità e la contraddittorietà del reale, lavorano anche su quanto nella coscienza comune – o anche addirittura nella ricerca storica – è ancora rimosso. Certo un testo letterario può suggerire delle piste, ma sono solo appunto delle ipotesi, delle intuizioni. Nel mio testo non c’è una sola tesi, ce ne sono molte, c’è una maglia di tesi che si eludono e si contraddicono a vicenda. E non solo storiche, ma anche psicologiche e psicanalitiche. Resta il fatto che i legami tra terrorismo degli anni 70 e gli anni della resistenza, tra una riattivazione di una logica della violenza negli anni 70 e il modo in cui l’Italia è uscita dal fascismo, senza mai fare veramente i conti con esso, tra il non fare i conti con il passato e invece in un certo senso riviverlo, mi sembrano innegabili. Il vero problema mi sembra la rimozione che tuttora fanno gli italiani del fascismo, e delle pesanti eredità di esso che esso ha lasciato e forse lascia tuttora. Nel mio testo questa rimozione non c’è, il che mi permette di muovermi più liberamente. Questo non vuol dire però che ponga fascismo e terrorismo di matrice comunista, anche se entrambi utilizzano la violenza, e quindi almeno questo in comune l’hanno, sullo stesso piano.

SR: Oppure è una visione di assoluta irredimibilità di quello che è il rapporto con la Storia non solo italiano, ma occidentale, se non dell’intero genere umano (penso alla catena di eventi che in modo similare eppure differente unisce il destino del nonno, del padre e, alla fine, del figlio)?

GS: Mi sembra che noi occidentali ricchi abbiamo un po’ la tendenza a considerarci al di sopra della Storia. Preferiamo rappresentarci un mondo asettico, dove tutto è sotto controllo, e la Storia è in un certo senso evacuata. E mi sembra che noi italiani, anche grazie al lungo sessantennio di pace di cui abbiamo goduto, facciamo ancora di più questo errore. In realtà siamo profondamente calati nella Storia, e in un certo senso ne siamo tutti delle vittime. Tutte le nostre famiglie sono profondamente marcate dalla Storia del novecento, se andiamo un minimo a vedere. Il novecento per l’Europa è stato spaventoso, e i traumi storici non si riassorbono certo nello spazio di una o due generazioni.

SR: In Anatomia della battaglia si inseguono una serie infinita di metafore: quella della montagna e del deserto, quella dell’esiliato volontariamente, quella del cancro che distrugge dall’interno. Sono metafore occlusive, che vietano la riconciliazione (in realtà l’avvicinamento) fra i personaggi del padre e del figlio. Se vi è un desiderio di essere vicino al padre, queste metafore ci dicono quanto sia impossibile, perché non si possono riconciliare idee e identità, epoche, caratteri. Le sembra che questa interpretazione possa calzare a quanto lei narra in questo romanzo?

GS: Sì, certo, anche le metafore sono utilizzate per esprimere la distanza tra padre e figlio. In tutti i miei testi le metafore e i paragoni hanno moltissimo spazio. Proprio per l’approccio non cerebrale che esse implicano, per la loro carica multisemica, per la loro potenza evocativa, e nello stesso tempo per il profondo lavoro sulla lingua che esse presuppongono e richiedono. E poi ho l’impressione che anche la metafora più occlusiva lasci pur sempre aperti degli spiragli, a differenza dell’argomentazione logica, suggerendo al limite la pertinenza del suo contrario. Forse proprio per il fatto che le immagini mentali e le esplosioni della lingua che le veicolano fanno appello a zone del nostro cervello che funzionano in modo diverso rispetto all’argomentazione razionale, che hanno molti meno vincoli.

SR: Mi sembra che la presenza ossessiva della morte cementi le varie parti del romanzo. Tutti i protagonisti hanno a che fare con la morte: che si tratti del nonno, presunto collaboratore dei nazisti, o del figlio, o del padre, colpito dal cancro, o di altri protagonisti. Come se questa presenza fosse il grado zero da cui guardare le cose, per quanto con grande difficoltà.

GS: Le tre generazioni presenti in questo libro hanno in comune il fatto di avere vissuto la guerra, di essersi ritrovate in battaglia. Per ciascuna di esse la presenza della morte è quindi un dato di fatto, una esperienza naturale. Secondo me questa è la realtà di moltissime famiglie italiane, anche se la visione che abbiamo può essere molto diversa, molto più superficiale e rosea. La prima guerra mondiale è stata un’ecatombe, e anche la seconda guerra è stata un evento molto traumatico, e soprattutto è molto presente anche per le generazioni nate negli anni 50 – come me – o addirittura negli anni 60. La guerra era rimossa, ma c’era. Se non altro nel modo di essere e di ragionare dei genitori. E gli anni ’70, il periodo in cui la generazione di cui parlo è diventata adulta, non sono stati certo una guerra, ma pur sempre un periodo di estrema violenza, di morte. Anche lasciando stare il terrorismo, l’eroina – che per molti versi può essere vista un seguito dopo l’ubriacatura politica – ha fatto una vera e propria falcidia, nella mia generazione. Della sua parte più fragile, in ogni caso.

SR: Lei pensa che il suo romanzo, precisamente per quanto riguarda la figura del padre, possa ascriversi nel filone del tragicismo eroico europeo, quello cui appartengono secondo Fortini le opere di Hamsun e di Jünger, che le indicò appartenenti al pensiero politico della destra?

GS: Forse la figura del padre, proprio per il suo essere profondamente e intimamente fascista, in un modo e per così dire viscerale e prepolitico, ha qualcosa in comune con la tradizione che lei cita. Ma appunto il padre è descritto dal punto di vista di un figlio che con questa tradizione ha molto poco a che fare, e non mi sembra che il romanzo nel suo complesso possa essere avvicinato a questo filone.

SR: Nella nota finale parla dei personaggi di questo suo romanzo come di elementi non desunti dalla realtà; appartenenti forse al mondo dei sogni, ma necessari o utili per poter avere la visione di una verità altrimenti impenetrabile. Ecco, fino dove è riuscito a scalfire il muro di questa verità, dove è riuscito a fare breccia?

GS: La nota finale l’ho messa per evitare l’identificazione tra autore e protagonista del libro, e appunto per scoraggiare le interpretazioni semplificate, entrambi vizi molto frequenti nel nostro paese. Nella traduzione in francese non ci sarà. Ma non so se sono riuscito a dire davvero qualcosa, so che ci ho provato. E so che questo è un libro che, per l’enorme ricerca che c’è dietro, e per il grande lavoro di elaborazione e di scrittura, mi ha dato molto.

Giacomo Sartori, Anatomia della battaglia, Sironi editore, Milano, 2005, p. 242

Questa intervista è già apparsa, in forma ridotta, su Stilos del 7 febbraio 2006.

Vd. anche, sempre su NI, il “Dialogo di Andrea Raos con Giacomo Sartori”, qui e qui.

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1 commento

  1. Una nota “glottocentrica” :-) Quel che dice Sartori a proposito delle metafore (anche la metafora più “occlusiva” lascia spiragli), con rapidissima incursione nella neurofisiologia, potrebbe tranquillamente entrare in uno dei prossimi florilegi sulla lingua. Ed è vero che l’uso delle metafore presuppone un poderoso lavoro sulla lingua. E’ facile sbagliarle: quante brutte metafore (sgraziate, incoerenti) si trovano ogni giorno nella letteratura e nell’informazione! Ricordo di aver sentito un uomo politico dire: “Evito di trincerarmi sotto una vena di sarcasmo”. Trincerarsi… sotto… una vena. Se non c’è padronanza e consapevolezza della lingua, il parlare iconico e figurato diventa la morte del senso. E’ molto più difficile da usare dell’argomentazione logico-razionale.

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