La lingua italiana dopo Silvio Berlusconi

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di Marco Mancassola

L’attuale Presidente del Consiglio italiano è l’editor migliore del mondo. Grazie a lui ho imparato un sacco di cose, senza bisogno di andare alla scuola Holden. Grazie a lui negli ultimi anni ho imparato ad avere orrore delle frasi fatte, a espellere la bassa retorica dalla mia lingua, a soppesare scrupolosamente la verità di ogni sillaba. Grazie a lui ho sviluppato un’ossessione per i rapporti di causa-effetto, per la tenuta logica di ogni paragrafo che scrivo. Grazie a lui ho espulso il narcisismo che abitava nei miei primi testi, l’ho messo fuori dalla porta come un gatto puzzolente.
Che lui lo sapesse o meno, e che il suo esempio agisse in realtà per contrasto, non conta poi tanto. Il Presidente mi ha insegnato tutto quel che serviva, e lo ha fatto gratis! Bastava osservarlo e fare tutto il contrario.

…ma in realtà, disse una sera un amico esasperato durante una cena a base di cibo vegano e nichilismo politico, siete davvero convinti che, qualunque cosa sia successa negli ultimi anni, sia stata tutta colpa sua?
Decisamente no. Io scossi la testa. Ho sempre pensato a Berlusconi come a un problema linguistico, e il problema linguistico oggi è di tutti. Anche dell’Europa che ride tanto di noi.
Il problema linguistico occidentale è quello di una vita sempre più flessibile, multipla, frammentata, una vita-collage di identità provvisorie cui corrispondono, per mancanza di tempo e risorse, esperienze sempre più standard. Lungi dal portare a una comprensione dell’esistenza più estesa e profonda, la moltiplicazione delle identità (dai mille lavori che uno fa per sopravvivere, agli ambienti sociali più vari e disgregati che ci si trova a frequentare) porta a esperienze sempre più brevi, standardizzate, fatte di contatti superficiali e frasi fatte. Una vita composta di frammenti precotti. Di parole innocue, di frasi da montare e smontare senza dolore come un mobile dell’Ikea.

Questo non toglie, ovvio, che noi a quella cena parlavamo italiano. Né che io scrivo italiano. La lingua del paese dove il Problema Linguistico non solo esiste, ma è diventato governo autoritario (sebbene nel modo obliquo e sfuggente che hanno le cose di manifestarsi, quando non hanno parole stabili, né possono farsi discorso integrale). E lo è già stato per mezzo decennio.

Il disagio delle parole mi ha preso a volte, in questi anni, quando sembrava che nulla di vero potesse essere detto. Non in questa lingua, non con queste parole. Dev’essere anche per questo, credo, che ho cercato di vivere il più possibile all’estero. E mi ha fatto bene. Magari è uguale a quanto accade nel sesso. Quando tradisci una persona, e ti perdi nell’abbraccio di qualcun altro, e ti accade di sentir vibrare, ancora, il desiderio della persona tradita. (Questo non significa che tornerai da lei, ma significa che ridefinisci la sua immagine, il suo corpo, le sue parole).

Il degrado linguistico di una nazione inizia quando le parole non appartengono più a nessuno. Quando entra in crisi l’idea che questa lingua è davvero la mia lingua, vive con me, respira in me, dipende da me, affonda nella mia carne e nei segreti del mio corpo. Quando ognuno parla come se quella lingua non lo riguardasse, non lo toccasse davvero, non lo sfiorasse neppure, esprimendosi per slogan anonimi e prefabbricati. Non personali, mai davvero importanti. È il vecchio incubo heideggeriano della chiacchiera o, più banalmente, il rovesciamento dell’utopia telelinguistica. Decenni dopo averci regalato un’appartenenza linguistica, la televisione italiana ha abolito tale senso di appartenenza.
E chi la ama una lingua così, questa lingua-puttana che tutti scopano, ma nessuno sposa? Se questa lingua non è più di nessuno, si parla da sola come una bocca senza corpo? Cosa resta oltre lo splendore del suo sorriso, oltre l’immagine di una luminosa-schifosa, demenziale, avvilente, grottesca dentiera che parla da sola?

Sogno una lingua sentita in ogni virgola. Una lingua capace di non lasciarti mai solo.

Non ho niente contro i vecchi. Non credo neanche esistano, come categoria compatta, come non credo all’esistenza dei ‘giovani’.
Quel che odio è la senilità della lingua italiana. Gli sputi di saliva della Dentiera Parlante. Odio l’arteriosclerosi delle frasi fatte, la rigidità mediatica che riporta ogni cosa a uno schema fisso di luoghi comuni, l’amnesia costante che permette a tutti di dire tutto, senza apparenti contraddizioni. Odio la condizione di equivoco continuo, come in un dialogo fra sordi, in cui la profondità linguistica non ha modo di esistere, l’allusione non può essere compresa, la stratificazione di una pagina si perde nella cataratta, in uno strato di indifferente cerume. Odio che tale senilità venga fatta passare per giovinezza, come esigenza delle nuove generazioni cresciute a sms.

(Come se negli sms non ci fossero codici, figure metaforiche, nuove e strabilianti declinazioni della lingua. A me non fanno paura le volgarizzazioni, i neologismi, gli anglicismi, i congiuntivi sballati, tutti sintomi di cambiamento e contaminazione e vitalità. Mi fa paura l’assenza di realtà, di mondo dalle parole. I pericoli per una lingua non vengono mai dai ragazzi, ma da parte di un certo tipo di vecchi.)

Odio il luogo comune che rimbalza come un pallone sgonfio in tanti salotti di sinistra, secondo cui i ragazzi italiani vogliono fare tutti i calciatori o le veline. Ci sarà magari qualcuno che ha davvero questi sogni. Personalmente, tra i miei conoscenti più giovani incontro soprattutto gente che vorrebbe fare l’avvocato, l’architetto, il medico, il giornalista, l’artista, il manager, il ricercatore, l’artigiano, o anche solo il genitore. Gente che vorrebbe avere accesso alle professioni, e potersi permettere una casa, e vivere col proprio partner, ed essere indipendente. Dico ‘vorrebbe’ e il punto è questo. L’italiano degli ultimi anni è diventato una lingua di desideri, di frustrazioni, di rimpianti molto più che di fatti. Una lingua ipotetica, una lingua impotente. Non è difficile vedere come tutto torna, come in questo paese ogni cosa si lega: senilità della lingua, assenza di ricambio generazionale.

Se l’italiano diventa una lingua impotente, decadono in essa mille tensioni. Diventa una lingua senza sex-appeal.

Il sogno di un mondo perfetto, politicamente equo, è sempre il sogno di un mondo dove la parole evocano in uguale misura fatti e sogni, praticità e fantasia, intimità e mondo, materia e poesia. Un mondo in equilibrio linguistico. E l’equilibrio si fonda sull’agilità, sulla concentrazione, sul misto di giovinezza e consapevolezza, sulla profondità del sentire.
Non sarà mai facile. L’equilibrio, per definizione, è sul bordo dell’abisso.

E la letteratura?
Di fronte al bianco chirurgico della Dentiera Parlante, nell’ultimo decennio mi è sembrato di vedere, da parte di chi scrive, due principali strategie. Da un lato l’idea di riflettere il sorriso della Dentiera Parlante con un sorriso ancora più irrisorio e grottesco: la via di una certa letteratura più o meno sarcastica, più o meno istrionica, più o meno pulp (e derivati).
Dall’altro il tentativo di sviluppare una lingua liquida, sinuosa, a tratti violentemente sincera a tratti oscura, una lingua senza nome né scuole che scansa i riflessi (e i morsi) della Dentiera Parlante. Una lingua che ora si inabissa, ora si mostra, ora si allarga ora restringe (tra i generi, tra gli stili, tra i mille detriti dell’intimo, del realistico, del pop, del politico, del mistico), come una creatura marina che evita le radiazioni del sole. Una lingua-medusa. Una lingua inquieta. Questa lingua non si lascia mai del tutto assorbire, e neppure realmente descrivere. Credo sia presto per darle un contorno. Eppure sento che cresce.

(Domande che non dovrei farmi ma che non posso fare a meno di farmi: che differenza c’è tra la Dentiera Parlante e il famoso critico letterario di sinistra che segnala i libri senza leggerli, copiando frasi dai comunicati stampa? Che differenza c’è tra la Dentiera Parlante e certi intellettuali impassibili, per i quali nulla fa la differenza, né mai più la farà, o i loro opposti-complementari che proclamano un capolavoro al giorno? Di certo una differenza c’è. Ma chissà esattamente quanta.)

La Dentiera Parlante, questa cosa comica e così drammatica, non è indistruttibile. Può essere infranta come una vetrata. La potenza, la durezza, la violenza più o meno esplicita del sasso che la infrangerà, o che aprirà un buco in essa, dipende da chi parla e scrive. Più da loro, credo, che dall’esito di un’elezione.

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42 Commenti

  1. Ci sono due riflessioni distinte che secondo me meritano di essere approfondite.
    Un approccio quasi antropologico, sicuramente politico, sul cambiamento della lingua (triste davvero vedere compiersi in Italia, ma un pò ovunque, la profezia di Orwell sulla nov lingua), da una parte e dall’altra la “visione” sconcertata dell’autore sul paesaggio letterario italiano (meno condivisibile, in assoluto).
    Comunque un testo veramente scritto colla panza e non in langue de bois, come dicono i francesi.
    effeffe

  2. “Dall’altro il tentativo di sviluppare una lingua liquida, sinuosa, a tratti violentemente sincera a tratti oscura, una lingua senza nome né scuole che scansa i riflessi (e i morsi) della Dentiera Parlante. Una lingua che ora si inabissa, ora si mostra, ora si allarga ora restringe (tra i generi, tra gli stili, tra i mille detriti dell’intimo, del realistico, del pop, del politico, del mistico), come una creatura marina che evita le radiazioni del sole. Una lingua-medusa. Una lingua inquieta. Questa lingua non si lascia mai del tutto assorbire, e neppure realmente descrivere. Credo sia presto per darle un contorno. Eppure sento che cresce.”

    Lo sento anch’io, Mancassola. Si sente, si ascolta. Il suolo vibra sotto i piedi. Grazie per questo meraviglioso pezzo.

  3. Cito una citazione dell’Unità di oggi. “Ogni popolo ha la lingua che si merita” (Borges). Non so quanto sia pertinente con il tuo pezzo, che mi sembra ottimo.
    Il berlusconismo, come ogni ipotesi di sovversivismo delle forze proprietarie (leghismo, fascismo, teocon, …), ha la sua cifra irrazionale in un ribaltamento del senso comune, di tipo classicamente democratico. Un esempio è nell’utilizzo dell’ossimoro, di questi giorni, “squadristi – sinistra”, non diversa da quella leghista “nazisti – rossi”, o l’utilizzo del tutto “finto” o fuori contesto di aggettivi come “bislacco” (assai amato da Ferrrara), nella bocca di un orante da bar sport . Ma quanto la realtà materiale potrà sopportare il ribaltamento linguistico della medesima?

  4. Questo post esplicita in maniera chiara i miei sentimenti verso la lingua italiana. E sul perchè della perenne senilità dell’italiano contemporaneo ho anche una teoria.
    L’Italiano formale, purtroppo, non ha alla base salde fondamenta nell’oralità. L’Italiano l’hanno appreso i nostri genitori dalla tv, ed era già una lingua di frasi fatte. I miei nonni parlavano dialetto. E gli artisti che fanno raggiungere all’italiano le vette più alte sono, guardacaso, quelli con un forte sostrato dialettale.
    Allargando la prospettiva alla storia della letteratura, ci accorgeremo che tutti i mostri sacri sono sorti al crocevia tra un contesto orale e una forma letteraria: Dante, Cervantes, Joyce, per non parlare di Omero, il primo aedo trascritto.
    Per far rinascere l’italiano, a mio avviso, c’è una sola soluzione: buttar via tutta la paccottiglia propagandistica risorgimentale, far sapere alla gente come è andata la storia dell’unificazione, com’era l’Italia a livello socioculturale… E soprattutto smetterla di chiamare i dialetti dialetti e, con un briciolo di scientificità linguistica, chiamarli lingue locali.
    Solo con la legittimazione dei dialetti c’è speranza di pompare sangue nell’italiano.
    Fine del proclama :-)
    Davide

  5. Bello.
    Mi torna in mente Ingeborg Bachmann “Keine neue Welt ohne neue Sprache” (Nessun nuovo mondo senza una nuova lingua).

    I giovani tendono a formare una nuova lingua semplificandola -ma anche impoverendola spesso (e non intendo, con questo, dare ora un giudizio di valore). Gli anziani o cercano di tenersi up to date, con effetto stridente, poiché cedono un poco ad una sorta di canto delle sirene, o rimpiangono le belle strutture -che raramente hanno però, nella maggioranza dei casi, posseduto. Parlo di giovani e anziani non come categorie ma come fasce d’età.
    La sensazione è che si esprimano pensieri prima che questi siano compiuti, formati. È un caso se in Italia comanda un piazzista e la sua lingua è fatta di slogan?

  6. Speriamo che almeno Prodi riesca nell’opera titanica di “riscatto” dell’italiano! Poi se reintroduce la tassa sulle successioni infondo… chissenefrega: tanto da ereditare ci resterà sempre meno.
    Almeno la lingua però… signori miei…
    Quella sì, è una nobile causa.
    A riscattare l’italiano ci avevano già provato, mettendo nella stanza dei bottono un dei linguisti più insigni… Bel risultato! Tra qualche anno si parlerà solo il condizionale.
    E c’era da immaginarselo, con Berlusconi al governo, il precariato doveva perfrorza impadronirsi pure della lingua.

    Per quanto mi riguarda continuerò a parlare e a scrivere lo stesso la lingua che mi pare giusta o sbagliata che sia (perché mi piace lo stesso), con Berlusconi o con Prodi al governo e anziché sproloquiare sui massimi sistemi mi concederò tutt’al più una fetta di mortadella!

    … almeno potrò dire, felice, e a ragione veduta, di aver parlato come ho mangiato.

    P.S. Ma questo blog è indipendente o anche qui c’è un O.P.A. di De Benedetti in corso?

  7. io “trend negativo” non l’ho mai detto! le parole sono importanti, chi parla male pensa male…

    mi riaffiorava alla memoria un nanni moretti arrabbiato con chi gli aveva attribuito parole orribili: il ricordo non è nitido, era forse “palombella rossa”?

  8. Moretti lo dice in “Caro Diario”, quando dopo una rimpatriata con ex-sensattottini ora imborghesiti che dicono “Come eravamo brutti, che parole orribili dicevamo”. Replica “Voi eravate brutti e dicevate parole orribili! Io non dicevo parole orribili, dicevo cose bellissime, e adesso sono un bellissimo quarantenne” :-) Più o meno questo è il contesto.
    Davide

  9. Sì, Dario, “chi parla male pensa male” lo diceva proprio in Palombella rossa.
    E, Davide: non bellissimo, ma splendido.
    “Uno splendido quarantenne”. Quello che sono io, in fondo. ;-)

  10. ma questa cosa qua:
    “Odio l’arteriosclerosi delle frasi fatte, la rigidità mediatica che riporta ogni cosa a uno schema fisso di luoghi comuni, l’amnesia costante che permette a tutti di dire tutto, senza apparenti contraddizioni. Odio la condizione di equivoco continuo, come in un dialogo fra sordi, in cui la profondità linguistica non ha modo di esistere, l’allusione non può essere compresa, la stratificazione di una pagina si perde nella cataratta, in uno strato di indifferente cerume.”
    è una cosa solo dell’italiano, dell’italiano di oggi? o non è, piuttosto, una cosa propria di ogni lingua, di _ogni lingua in quanto lingua_? lungi dall’essere una condizione di _crisi_, non è essa, invece, la condizione naturale, normale, di ogni lingua in quanto lingua (cioè una cosa socialmente condivisa ecc ecc..)? è forse mai esistito un tempo e uno spazio in cui ci si comprendeva esattamente per ciò che si voleva dire e nessuno m’ha avvertito?! un tempo e uno spazio in cui la letteratura _non_ era uno stato d’eccezzione (lei sì di crisi), uno scarto rispetto alla norma?
    (ma anche la letteratura è un dialogo tra sordi! l’amiamo per quello!)

  11. ciao marco, a scuola per esempio insegnano ancora a “parlare pulito”e poco ci manca che non ti impicchino se usi,come da prassi, l’italiano regionale del luogo dove vivi.guai!
    tu quando scrivi(ho letto tre tuoi romanzi) sei limpidissimo(perchè sei uno scrittore) ma nascondi al tuo interno una furia distruttiva e anarchica che è palpabilissima(è un merito bada bene). adesso non per fare l’incendiario ma sarebbe auspicabile che i “giovani” imparino ad acquisire la furia del linguaggio e delle contaminazioni più varie per far esplodere, metaforicamente, la campana di vetro che li avvolge, che tornino a inventare idioletti, gerghi e che riescano ad essere maledettamente oscuri e criptolalici. forse una spruzzata di paroloni e parolacce ci farà tornare a vivere.

  12. Carissima Teresina,
    Mi è stata consegnata solo pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e che conteneva la fotografia di Franco. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto e te ne faccio la mie congratulazioni; mi manderai, è vero?, anche la fotografia della Mimì e così sarò proprio contento. Mi ha colpito molto che Franco, almeno dalla fotografia, rassomigli pochissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paolo e alla sua stirpe campidanese e forse addirittura maurreddina: e Mimì a che somiglia? Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Graziella. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza ala sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente bell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro. […]

    Antonio Gramsci, 26 marzo 1927

  13. al di là dell’esercizio di retorica e delle metaforazze seminate a tutto spiano in ogni punto del testo non c’è, dico non c’è, un solo concetto enucleabile e di conseguenza utilizzabile: un pezzo sulla lingua con un uso della lingua stessa che ne contraddice il possibile contenuto, che ne dimostra il contrario, nel suo tentativo di esprimere concetti che non ci sono e dunque avvitandosi tristemente su se stesso: insomma la “lingua puttana che tutti scopano e nessuno sposa” (complimenti, bella frase) anche stavolta è stata costretta a sotto-stare alle voglie del primo venuto: senza godere nemmeno un po’.

  14. sottoscrivo in pieno l’affermazione di tashtego.
    Ma forse è questione di puntualizzare alcuni concetti (ammesso sia possibile) e solo chi ha scritto l’articolo lo può fare:
    Sennò rischia di vanificare ciò che è in apparenza un bellissimo esercizio di stile.

    Provo ad analizzare alcune frasi:

    “Il problema linguistico occidentale è quello di una vita sempre più flessibile, multipla, frammentata, una vita-collage di identità provvisorie cui corrispondono, per mancanza di tempo e risorse, esperienze sempre più standard.”

    Che vuol dire?
    Siamo veramente sicuri che le nostre vite siano più standardizzate rispetto al passato? Rispetto cioè ad altri periodi, di cui la storia è piena, e in cui prevaleva l’incertezza? Siamo meno “precari” rispetto a chi, nell’anno mille si sentiva sull’orlo della fine del mondo? E la lingua dipende davvero dalla convivenza di molteplici delle identità incastrate nel tempo? I moti a cui va incontro una lingua non richiedono (de Saussure insegna) la condivisione e il tempo? Non basta la “confusione di identità” o il loro contrasto per scardinare il linguaggio. Il linguaggio accompagna e segue il tempo: è una convenzione sociale. Non è un fine ma un mezzo. Un media come tanti altri. Con diritto e su quali basi possiamo affermare che la nostra lingua degenera?

    Questa vorrei mi fosse spiegata:

    “Il degrado linguistico di una nazione inizia quando le parole non appartengono più a nessuno.”

    Forse sono troppo ignorante per cogliere il senso ultimo della frase.
    Ma così mi sembra vuota. Seducente a livello estetico ma priva di un qualsiasi concetto da esprimere. Chi le dovrebbe possedere le parole?
    Forse Berlusconi?

    “Se questa lingua non è più di nessuno, si parla da sola come una bocca senza corpo? Cosa resta oltre lo splendore del suo sorriso, oltre l’immagine di una luminosa-schifosa, demenziale, avvilente, grottesca dentiera che parla da sola?”

    Su che base si afferma che non è più di nessuno? Io per esempio la sento abbastanza “mia”. Mi ci arrovello, la declino, la stupro, sperimento ma alla fine ci gioco e basta. Solo per questo mio giocarci, non la possiedo? Invero credo di possederla quel minimo che basta per usarla.

    Forse dimentichiamo che la lingua (la parole), come tutti i linguaggi è soggetta a convenzione. Chi stupra il linguaggio commette violenza fine a se stessa se il suo stupro non è condiviso. Io francamente di orge in corso non ne vedo. Non tutti siamo stupratori e non tutti condividiamo stupri.

  15. Ma è esattamente quello che Mancassola sta dicendo: bisogna riconoscere la contraddizione: abitiamo una lingua malridotta, svuotata, abusata e abusiva (come uno di quegli ecomostri che deturpano il paesaggio), e ci tocca denunciare questa condizione usando la medesima lingua, dal suo interno. Questo essere “a mal partito” della lingua è una cosa che nessun autore può superare da solo, con un’impennata soggettiva: la lingua è grande e ciascuno di noi è piccolo. Si può abitare la lingua in modo conflittuale, esponendosi a ogni frase, anzi, a ogni parola, al rischio che venga ri-inghiottita nel non-senso. Però, non credo che Mancassola stia facendo il solito discorso del “degrado” della lingua, come i puristi della grammatica: qui si parla del senso delle parole, di una semantica andata a puttane (per l’appunto), non del fatto che si dimenticano i congiuntivi o si usano troppi termini inglesi. Anzi, Mancassola dice una cosa che c’era già nel primo “florilegio”: la consuetudine con un’altra lingua aiuta a “relativizzare” la propria e a vederne il possibile logoramento.

  16. Partendo dalla politica per fare un discorso sulla lingua, ho la vaga impressione che si faccia come colui che per vedere il cielo si metta a scavare una buca.

    Basta ascoltare i dibattiti politici di questi giorni per rendersi conto che la letteratura ha poco a che fare con un tale linguaggio. Un minimo comune denominatore tiene insieme il linguaggio dei politici (e lo ha tenuto nel passato e lo terrà nel futuro), ed è la ricerca della parola come specchio sempre anche di qualcosa d’altro. La parola ha dentro di sè, ossia, non più solo l’esattezza della cosa che rappresenta, ma anche un sottile velo d’ombra pronto a cadere e a svelare perfino il suo contrario.

    La lingua che ci sta a cuore e di cui, a mio avviso, si dovrebbe parlare è altra, è quella, come scrive Benini, che trae la sua vitalità dal parlato, che sempre si rinnova, il solo che ha contatto con il tempo che si vive, e che si codifica, trovandovi la sua elaborazione più alta, nella espressione dei grandi scrittori.

    Non credo che l’Italia manchi di artisti che lavorano in questa direzione.

    Bart

  17. @ davide e gianni: grazie per le precisazioni “morettiane”

    @ claudio: vorrei averla avuta io, l’idea di inserie gramsci…

  18. Già è un’ottima cosa che tu non abbia frequentato sto cazzo di holden.

    E basta, basta, basta con Baricco e i suoi adepti (non sa più dove infilarli, torino è piena , milano anche)

    B-A-S-T-A-!!!!

    Manuela

  19. @ Daniele
    condivido la tua idea di linguaggio furioso e come te credo nell’idioletto come punto di partenza del linguaggio (e non come di non ritorno) come alcune avanguardie ci hanno voluto far credere. Il testo in questione però non credo voglia standardizzare il linguaggio, al contrario, liberarlo dalla sua semplificazione in bueno no bueno, sinistra destra, rock lento ecc.ecc.
    effeffe

  20. credo esista una residua speranza di far scattare la lingua italiana (che, com’è noto, fino agli anni Sessanta era letteraria di riuso) in avanti: ma resta sempre il problema, insuperabile, dettato dal consumismo: frigorifero si dice ‘frigorigero’. Non c’è un modo ‘locale’, ‘originale’ di dirlo. La tecnocrazia, che è il vero potere – assai più della politica e dei partiti – parla una lingua essenziale e pretende che noi ci si comprenda il più velocemente possibile. Anche per non dirsi nulla, ovvio, ma è il controllo che conta. Se è lungo fa in tempo a mutare, se è breve no. Per questa ragione apprezzo molto ogni letteratura, anche del passato, in cui risiede una lingua che è un ‘toreare’, un linguaggio sofferto, magari irrisolto, ma vivo, vero, sfuggente. Perché se la crifra del nostro tempo è l’ossessione per il controllo, allora ciò che non si controlla, che non sa star fermo, va nella direzione opposta. Cioè migliore ;)

  21. A dir la verità a casa mia si dice “Frigo”. “Apri il frigo e prendi il latte!”
    (e “latte”? “latte” va bene?)

  22. Mia nonna diceva “frigor” (ma anche “frigorigero” non è male, sembra un animale preistorico).
    Una lettura salutare, complimenti a Mancassola.

  23. parliamo e pensiamo per slogan e slang e jingle. vediamo e ascoltiamo e pensiamo veloce.
    la dentiera estetica parla per noi, in nostra vece.
    desideriamo assomigliare alla maggioranza di cui sopra per non sentirci soli.sposiamo il conformismo sperando di farci due soldi o che almeno ci dia un pò di fama.
    è ora di basta!

    bravo marco

  24. Ecco. Una lingua senza sex appeal (a meno che non si consideri il sex appeal dell’inorganico e quello necrofilo). Una lingua morta, in-formata dagli ossimori. Spottabile perché televisiva. O televisiva perché fatta d(a)i claim. E geriatrica.
    Ma se fosse anche una lingua finalmente priva di distinzione (la distinzione di Bourdieu). Omologata, sì e proprio per questo democratica? Se stessimo vivendo un’uguaglianza e ci trovassimo a rimpiangere la diseguaglianza precedente?
    Non so per voi tutti, ma, per me, sarebbe tragico.
    (lo stesso dcasi per la moda, l’arte in generale, il cinema, ecc.)

  25. Mi unisco alla schiera di elogi.
    M.M., complimenti per questo pezzo lucido e appassionato.
    Grazie per lo spunto di riflessione.

  26. Peccato che il maestro al quale sputi è anche tuo genitore e se esso è pure il vecchio che vuoi scaricare allora hai deciso di morire assieme a lui.
    Buon per te

  27. Già Mc Luhan un po’ d’annetti fa aveva capito che conta più la forma della comunicazione che non il contenuto, e che è questa a determinare ciò che accade nelle coscienze e nei subconsci dei comunicanti stessi… Già ci son maree e montagne su montagne di studi e tesi di laurea e parole su parole d’analisi del fenomeno del berlusconismo… Già la realtà bastava, ma se si voleva una mazzata allo stomaco bastava andar al cinema a vedersi pure Il Caimano di Moretti questa primavera… Infine già qualcuno disse che dai cattivi maestri imparò moltissimo… Eppure: eppure alle ultime politiche un buon 49 e rotti % degli Italiani s’è rivotato il suo idolo personale, e ciò che resta della sinistra ha raccolto i cocci e sta tentando di contener il tornado.

  28. Per marco v: “Tieniti in movimento: non s’è mai visto un cane pisciare sulle ruote d’un’auto in corsa.” – ha detto, e ben a ragione, una volta il grande Tom Waits (che non è uno “scrittore”, per chi non lo sapesse) – comunque sia il frigorifero per es. qua da noi si chiama frigo, e basta; all’incirca come a Milano dicono “la tele” per televisione, che invece si chiama “teevisòn” in dialetto mio e semmai in italiano è scorciata “tv”. Basta ascoltare i bambini, piccoli, che sono ancora liberi, e dicono per es. “sventolatore” (ventilatore) e quant’altro di immaginabile esista o anche non esista (ancora)! “Ei dice cose, e voi dite parole.” – scriveva Francesco Berni nei suoi Capitoli burleschi a proposito di Michelangelo.

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