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Il bocciatore

Giacometti di Marino Magliani

Lei voltandosi vide il suo occhio sinistro aperto sul soffitto.
– Sei nervoso.
Era sicuro che gli avrebbe detto qualcosa. Sei nervoso o «non dormi» , «ti fa male il braccio». Mai domande. Come se lei stanotte l’avesse saputo che poteva essere soltanto una di queste tre cose a tenerlo sveglio.
Per questo lui aveva abbassato in fretta le palpebre. Lei fece finta di non aver notato niente.
Gli sembrò di aver vinto allora.

La stanza arrugginiva, o era solo l’abitudine che gli occhi avevano fatto al buio. Fra poco comunque non ci sarebbe stato scampo e la luce l’avrebbe tradito, lei si sarebbe rivoltata di qui o di là – lei si voltava mille volte sospirando felice (ci dormiva da quarant’anni), e ogni volta che si voltava apriva gli occhi per guardarlo – e avrebbe notato tutto quell’occhio spalancato sul soffitto. Ma lui ora voleva ricordare, e non era capace a farlo a occhi chiusi.
Era ragazzo e dalla strada si giocava a fare arrivare le pietre il più lontano possibile di là del torrente, nelle terrazze gerbide. Bisognava cercare scaglie più o meno piatte e assai pesanti. La tecnica stava in due gesti, il contenere la scaglia con l’indice, come il dito sul grilletto, e il lancio din surveman, una specie di effetto dal basso verso l’alto, la scaglia s’abbassava e proseguiva fin quasi a impennare, pareva. Ci provavano ragazzi, adulti dalle braccia potentissime, piene di bicipiti, anziani con meno forza, era lo sport del paese, lanciare oltre il torrente che stava otto terrazze in basso e oltrepassare le canne. Lui per un periodo era stato il migliore, lo era diventato a 16 anni, dopo lunghi esercizi, pomeriggi passati a cercare le pietre adatte e poi, il canestro pieno a portata di mano, ore e ore a lanciare, a provare il surveman, fin quando un giorno il suo braccio lungo e magro non gli si era quasi staccato dal corpo e il suo indice non aveva schiacciato il grilletto: la pietra era caduta dove mai nessuno era riuscito a gettarla. Ricordava l’incredulità del padre e d’altra gente. E allora, una due tre dieci pietre su dieci, quel giorno, sotto gli occhi di tutti, erano cadute nella quarta terrazza oltre il torrente… Due anni aveva tenuto il record, poi un suo coetaneo l’aveva superato di mezzo metro, poi il gioco era finito… Ne era cominciato un altro. Era diventato la spalla della squadra di pallone elastico della provincia. Giocava in Piemonte, a Cuneo, Mondovì, Bra, e in Liguria, la sua terra, a Porto Maurizio, a Arma. Due anni da spalla, e poi come battitore, atleta elegante, potente quanto bastava. Ma ce n’erano sempre stati di meglio di lui. E così aveva dovuto scegliere: o tornare a far la spalla a qualche battitore e restare in Serie A, o continuare a fare il battitore ma scendere di categoria. Aveva scelto di continuare a fare il battitore. Il vecchio dello sferisterio che gli puliva il pallone giallo e glielo consegnava: l’odore del caucciù trovava le narici, al tic del saltino seguiva la rincorsa di sei passi; poi la sinistra lanciava in aria il pallone, e, quando l’occhio l’aveva a mezz’aria, il corpo si torceva elegantemente e il pugno, gonfio di fasciature e bendaggi, sferrava un colpo con tutta la forza. Il pallone schizzava nell’area avversaria, tracciava geometrie perfide, a volte i battitori avversari, piemontesi sgraziati, riuscivano a ribattere, calcolando spigoli di chiese, tetti, a volte bestemmiavano nella loro lingua langarola e gli spettatori applaudivano. No, spalla mai, il battitore era il re, era lui che perdeva o vinceva, battere era come avere in mano quella scaglia quel giorno, l’indice che preme il grilletto e la traiettoria, sotto gli occhi del paese intero, che scavalca il torrente e brucia i record… Da battitore era così, era avere il mondo in un pugno.
Quando batti, pensò guardando la luce del giorno che spogliava la camera, l’ultima cosa a cui pensi è se se giochi in A o in B.
Una smorfia, l’avambraccio destro, e al male s’aggiungeva la coscienza di non poter essere più cos’era.
Gli anni erano passati, sangue nuovo lei non gliene aveva mai dato. L’aveva conosciuta durante l’ultimo campionato di B giocato con la Maurina. Poi le estati a guardare gli altri, l’agonismo da calmare, ed era stata lei a fargli prendere la tessera della bocciofila. Lui ci si era subito entusiasmato, gli era sembrata un’estensione dell’immensa stagione giovanile, e così da battitore era diventato bocciatore. Si era allenato per mesi interi, dietro la casa, nella terrazza lunga quanto un gioco, con undici bocce a disposizione perché una la lasciava sul posto come bersaglio da bocciare.
Un’estate intera a capire che erano gli stessi tic del battitore; giochi che si assomigliavano fin troppo, fatti di bocce da pulire con lo straccetto, di rincorse e il braccio destro, quasi si staccasse… il rumore della vittoria giungeva se a quel lancio seguiva lo schianto metallico. Uomo di grandi allenamenti, col tempo era diventato un discreto bocciatore e l’avevano chiamato per fare qualche gara.
Quando la campana suonò la messa, stava rasandosi. Lei l’aspettava, pronta. Qualche minuto più tardi uscirono.
La chiesa era in fondo al vicolo. Lui restò al fondo, in mezzo agli uomini, lei andò al solito tra le amiche del coro.
Dopo un po’ entrò altra gente e lui si spostò, togliendosi da dietro una colonna. Ora lei lo poteva tenere d’occhio, notava ogni quanto faceva la smorfia, e se con la mano sinistra andava all’avambraccio.
Tornarono a casa assieme, camminando tra i turisti che d’estate popolavano il paese. Lei si fermó solo qualche minuto al negozio, lui disse che andava «sopra la casa». Era la sua terrazza, dietro la veranda, la striscia di proprietà che aveva adattato a campo di bocce e dove si allenava.
Si concentrò sul fastidio, ora non lo tormentava più come in chiesa, ma era difficile dire cosa sarebbe successo se avesse bocciato, cosí decise di non sforzare. Mimò qualche bocciata, la rincorsa di sei passi e la mano vuota che gettava… Non ce l’avrebbe fatta mai.
Quando si voltò e vide sul bordo della strada il vecchio e il turista tedesco all’ombra della palma, capì che erano lì da quando aveva cominciato a provare.
– Ci dai ? – disse il vecchio.
– Ci dò, – disse.
– A che ora giocate?
– Alle tre, a San Lazzaro, contro La Dianese, partita di campionato… – disse tutto in una volta, perché il vecchio non gli chiedesse più nulla, perché quel turista non ridesse più. Poi si chinò a raccogliere una boccia, la soppesò e la pulì.
Quando riguardò sotto la palma, il turista non c’era più, e il vecchio guardava altrove.
Ci lasciò perdere, passeggiò nella terrazza di sopra, tra i solchi dei fagioli, tolse i selvatici al capanno di pomodori.
Lei d’in casa gli chiese di portar due foglie di basilico.
Pranzarono in sala, guardando Linea Verde, in silenzio, come per non perdersi un attimo – pensó lui ridendoci dentro – di quel senso di benessere derivante da quel programma che ospitava contadini e parlava di pascoli e produttività.
Poi, dopo il caffè, sparecchiò e le disse che andava, che passava prima a Piani a prendere Silvetti. Per questo andava solo. Sapeva che era una buona scusa per andare da solo e che lei l’avrebbe preferita alla verità.
Lei lo baciò come se fosse una partita qualsiasi. Gli chiese se aveva dei soldi. Lui annuì, raccolse l’astuccio delle bocce, per sicurezza si guardò nel portafoglio e piegò la testa da una parte. Lei allora gli porse una banconota da 50.
In strada, passò davanti al punto dove da ragazzo si giocava a lanciare le pietre. Mimò nella mente la tecnica del surveman.
Sport che non usavano più: sangue non era più nato. Non lo pensò, ma sospirò come se un ricordo che gli mancava l’avesse attraversato lo stesso.
In macchina, dal finestrino aperto sentì arrivare il rossore di agosto, e passati gli ulivi e i paesi, l’odore del traffico e degli stabilimenti balneari alla Marina lo separarono da un mondo.
Posteggiò sotto l’eucaliptus e fu tentato di lasciar sul sedile il giubbetto leggero, ma poi lo prese con sé.
– Fai tutto quello che devi fare.
Il custode disse che era presto. Annuì, andò sul campo deserto, aprì il borsello e lasciò cadere le bocce sulla sabbia. Aveva ancora paura a provare e così giocò di costa, la boccia che rotolava calma verso il punto.
Gli restava sempre quello, come far da spalla un tempo, pensò, non si poteva bocciare fino alla fine. Sentì che il giorno di oggi era una preparazione a quel cambio, che niente finiva con questo pomeriggio, e che il suo essere bocciatore o non esserlo non aveva nessuna importanza. Pensò a cose che lei tanti anni fa gli aveva detto per strappargli da dentro un silenzio, ma smise subito di cercare, sentendo che non aveva diritto di usar altri dolori come una consolazione.
Verso le due entrò Silvetti e lo liberò da quel caldo. Andarono a prendere il caffè al bar della bocciofila.
Lui si assentò e tornò dal bagno con la faccia lavata, e una sensazione di frescura gli grondava appena dal collo lungo la schiena.
– E il braccio? – disse Silvetti.
– Attaccato ce l’ho ancora, – rispose.
S’erano fatte le due e trenta. Ora entrava gente dal cancello, anche il bar pian piano si riempiva, e sulle panchine di là della rete si sedevano pensionati prudentemente coperti, nonostante il soffoco, il cameriere correva da una parte e dall’altra.
Quando con Silvetti uscirono, quelli della Dianese, erano già in campo, giovani sui quaranta, scaltri forse.
E lo capì lì – lo vide nelle cose, come nella luce si intuiva la presenza di un mare oltre la fronda degli eucaliptus – che poi non avrebbe mai più bocciato.
Raggiunse il campo, si chinò a toccare il terreno di sabbia battuta. Era asciutta, l’avevano bagnato poco.
Non camminano, si disse.
– Va bene ? – gli chiese Silvetti.
– Daccene, non camminano, – disse. Poi salutò gli avversari, il bocciatore e il costatore. Era costui che doveva temere, era chi costava il possessore del pallino. Quando arrivò l’arbitro salutarono tutti anche l’arbitro.
Lui, in disparte, guardava ora le panchine e la piccola gradinata, quasi affollata. Cercò facce come quando batteva a pallone elastico nei paesi e riconosceva i gesti dei scommettitori. S’era venduto parecchie volte, neanche in questo era stato speciale.
Poi la partita iniziò. Il pallino andò a Silvetti, il suo costatore. Lo lasciò molto corto.
Sulle panchine qualcuno bisbigliò qualcosa. Silvetti pulì la sua boccia, si fermò sulla riga e si abbassò lentamente, la gamba destra indietro e il piede sinistro puntato sulla riga, come in una posizione di partenza ai cento metri, il braccio destro, che teneva la boccia, indietreggiò e avanzò lentamente due volte prima che la boccia trovasse il suolo sabbioso.
– Ce n’hai dato ? – chiese dalle panchine la voce che poco prima aveva commentato quel pallino corto.
– Forza sì, – rispose Silvetti. Era la strada che non lo convinceva, e come per imprimere una direzione diversa alla boccia che stava rotolando ancora verso il pallino, si piegò sul tronco verso destra. La forza sì, aveva consentito alla boccia di fermarsi a un paio di centimetri dalla linea del pallino, ma l’aveva tenuta larga e alla fine la boccia non era più scesa. L’arbitro segnò la boccia con due righette, come due baffetti sul terreno, a angolo retto.
L’avversario si avvicinò al punto della riga da cui aveva deciso di giocare, il socio disse in un dialetto savonese: – Tienila bassa… mettiti un palmo più a ridosso.
Il costatore della Dianese ubbidì e si spostò. Concentrato, giocò. La boccia, malgrado fosse lunghetta, prese il punto.
L’arbitro la segnò.
Lui non aveva ancora aperto bocca, guardava ancora la gente sulle panchine, quello che commentava e spiegava a un paio di giovanotti lì per caso, le regole. Poi Silvetti, che dalla zona del pallino aveva rifatto il campo, occhi bassi, in un’impressione di crearsi la giusta concentrazione, e non ascoltare i consigli del commentatore. Era venuto al di qua della riga e con un’occhiata gli aveva detto di voler riprovare. Lui annuì e vide Silvietti pulire la boccia e prepararsi, poi posare la boccia e fare qualche passo, chinarsi a togliere una pietruzza dalla sabbia che avrebbe potuto deviare il corso, e tornare a prepararsi.
Stavolta la boccia aveva preso la stessa strada, ma con meno forza e a mezzo metro dal pallino aveva piegato fermandosi davanti al punto.
– Ci misuriamo, – disse il costatore della Dianese.
– È ancora vostro, ci vedo di qui, – disse il commentatore.
Ma l’arbitro prese la bacchetta e ci volle lo stesso misurare. – È ancora della Dianese, – disse, e segnò la boccia di Silvetti.
Silvetti bocce non ne aveva più e ora dunque toccava a lui. Venne a guardare il punto. Era un punto da prendere costando, ma, tornando alla riga, a metà campo, si voltò di scatto e disse: – Marcate!
Ci bocciava. Il commentatore gli diede torto. Lui sorrise alle panchine e prese a camminare all’indietro, come per non perdere di vista la boccia da spazzar via. Giunto all’assicciato, si chinò a raccogliere la sua boccia brillante e incisa di ghirigori concentrici. La sentì nella mano prima di pulirla con lo straccetto.
La tenne ancora nella mano destra, facendola girare su se stessa, si sentí il braccio e appoggiò il tallone destro all’assicciato come per darsi slancio.
– Qual è? – volle ancora una conferma.
Silvetti, prima di ritirarsi a debita distanza assieme agli altri giocatori, gliela indicò col piede.
– Avete segnato anche il pallino? – chiese come un ordine.
– Segnato, – l’assicurarono Silvetti e l’arbitro.
Sulle panchine tacque anche il commentatore.
Lui respirò, fissando il bersaglio, sei passi di corsa e, prima della riga, lanciò. La boccia bucò il terreno sabbioso tra la boccia da togliere e il pallino senza toccar nulla.
– Ormai provaci anche l’altra, – disse Silvetti, – se lo togli secondo cosa tocchi ce ne restano due.
Lui lo sentì come da lontano, felice, l’aveva fallita, ma il braccio aveva risposto anche fin troppo bene. Solo questo ora contava.
Aspettò che l’avversario con piede bonificasse la fossa provocata dalla boccia sul terreno battuto. Poi che l’arbitro con la bacchetta rimarcasse le distanze.
Alla seconda bocciata seguì lo schianto metallico. Ora avevano il punto e agli avversari restavano tre bocce da giocare.
Il bocciatore della Dianese provò a sua volta. Seguì un applauso.
– Troppo corto perché lo fallisse, – disse il commentatore.
Le altre due bocce le costarono, ma timide e oltre a quel punto non andarono.
Ion a pesso e u balin in man a Dianese, – disse il commentatore rivolgendosi al vecchietto sonnolento che marcava i punti su una specie di ruota della fortuna con la marca di un vecchio aperitivo al centro.
Prima che il costatore della Dianese giocasse il pallino, il suo socio gli si avvicinò e gli bisbigliò qualcosa.
Silvetti non ci fece caso, aveva raccolto le sue bocce e le aveva messe in disparte.
Lui invece li tenne d’occhio. Il costatore della Dianese raccolse il pallino e lo giocò lunghissimo, al limite della bruciatura.
– Hanno visto che s’era tenuto corto e così adesso gliel’hanno allungato… – sentenziò il commentatore. Ma era tutto cosí chiaro e non avrebbe detto nulla, non fosse che c’erano al suo fianco i due giovanotti che gli chiedevano di continuo spiegazioni su questa e quella giocata.
La boccia del costatore della Dianese rotolò a lungo sul filo della bruciatura senza mai neanche sfiorarlo (il limite era segnato da un lungo fil di ferro che separava due campi di gioco) e si fermò a poco meno di trenta dal pallino.
La boccia di Silvetti fece meglio, meno forza, piegò prima e si fermò a meno di venti dal pallino. Il costatore avversario chiese al socio di poter giocare la sua, ma il socio disse di no, era sprecata.
Allora segnarono, boccia e pallino, e il bocciatore della Dianese provò. Ne uscì un tiro basso, teso, nervoso e perfetto, e la boccia di Silvetti schizzò via pulita.
– È in giornata, – disse il commentatore.
La seconda boccia di Silvetti riprese il punto, a fianco del pallino, ma era una boccia con poco futuro, tentò di spiegare il commentatore ai giovanotti. E infatti la seconda boccia del costatore avversario, giocata sulla stessa strada e un tantino viva, si appoggiò alla boccia di Silvetti che si mosse e riperse il punto.
– Adesso lui deve bocciare, – disse un altro il commentatore. Uno dei due giovanotti se ne voleva andare, l’altro disse: – Un attimo.
Lui si chinò a raccogliere la sua boccia, la pulì, lasciò lo straccetto sul tavolino in disparte. Appoggiò il piede all’assicciato.
Silvetti gli indicò col piede la boccia che l’arbitro aveva marcato. Era lontanissima e il solo guardare dov’era gli tese l’avambraccio reumatico.
Cercò di aver negli occhi tutto, un mondo lontano da questo odore di mare, come un mondo privato separato dal mondo: il padre e la madre e gli ulivi su cui era salito a bacchiare e a farsi le braccia da ragazzo, le pietre piatte da lanciare oltre torrente, le rincorse del pallone elastico, lei col suo corpo di luna la notte, le rane che l’avevano tenuto sveglio, la casa e i loro piccoli risparmi che sarebbero terminati solo ai parenti o in un ricovero, poi, quando negli occhi non c’era più altro che questo campo da gioco, si ritrovò a correre… La boccia si alzò altissima, senza slancio, e s’infossò sul terreno di gioco un paio di metri prima del bersaglio; rimbalzando, spazzò via un paio di bocce.
L’arbitro le rimise al posto dei segni perché la bocciata era bruciata, aveva battuto ben prima del segno.
– A un metro passa dal segno, – spiegó il commentatore.
Lui non seguiva più nulla, il braccio traffitto da un vetro, il trapano quando trova il nervo del dente e al serrar le labbra il dentista allontana la punta. Avrebbe voluto piegarsi, per serrar le labbra a quel dolore, nascondersi il braccio nell’altro e rannicchiarsi in un angolo. Pensò a lei che ora pensava a lui. Poi finalmente si rannicchiò e disse: – È un attimo.

[pubblicato in Maltese narrazioni, “agonismo”, 1/2006]

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3 Commenti

  1. Da Carlos Paz a una bocciofila di periferia: cambiano i contesti, ma non la sostanza, la qualità della scrittura, la sua radicale, dolente alterità, pur nella misura piana, classicamente controllata, rispetto a tanti modelli artatamente osannati. Ogni rigo nasconde un secondo, un terzo livello di lettura, dove la memoria, legandosi al flusso delle cose, dei volti, delle situazioni evocate, si fa sostanza essa stessa del racconto. Bellissimo.

    Sicuramente mi fermerò in questo luogo ogni volta che vedrò postato un tuo testo. Ora so che difficilmente resterò deluso.

  2. Mea culpa: ho fatto casino quando ho postato e alla fine mi s’è persa l’informazione che qui riporto in calce:

    Alberto Giacometti – “Boccia sospesa”
    (Parigi, Museo Nazionale d’Arte Moderna, 1930-31)

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gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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