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Un piccolo morso

di Giorgio Vasta

caimano-nano.jpgIl caimano, il nuovo film di Nanni Moretti, è un film di Nanni Moretti.

Questa, che apparentemente è una tautologia, vuole invece valere da definizione, vuole precisare una categoria. More...
Ci sono autori – sono in grado di riconoscerne nella scrittura narrativa, nella regia cinematografica, nella recitazione attoriale, ma sicuramente ci sono molti altri esempi – incapaci, nel conferire “morfologia” a un’opera, di prescindere da se stessi, dalla propria faccia, e di produrre opere diverse dalla loro persona (è chiaro che una qualche forma di continuità non può non sussistere tra autore e opera, ma ci sono quote diverse di somiglianza, di riconducibilità). Diverse nella fisionomia, nella tonalità complessiva. Al contrario, ognuno di questi autori impone a ciò che produce un lineamento sovra e predeterminato, una specie di enorme accento con la sua faccia che rende il suo lavoro inseparabile dalla sua persona e dalla sua storia, la dimensione artistica da quella biografica.

Nanni Moretti è uno di questi.

Così come Robert De Niro ha marchiato se stesso nel ghigno che conclude C’era una volta in America, continuando da lì in poi, in moltissimi film, a ribadire, nel nuovo ruolo interpretato di volta in volta, lo stesso “motivo” fisiognomico, e perpetuando così la propria icona ormai svincolata dal ruolo specifico, allo stesso modo Nanni Moretti ha fatto di se stesso il marchio che precede, annuncia e segue ogni sua performance cinematografica, al punto tale che la performance in sé, il film, gioca paradossalmente un ruolo secondario nella discussione che dovrebbe riguardarlo. L’attenzione si concentra subito e quasi esclusivamente, in maniera pregiudiziale o fondata, sul marchio Nanni Moretti. Il marchio innesca cioè un meccanismo centripeto, attrae tutto a sé, ogni parola, ogni giudizio. Nanni Moretti è maschera, identità imprigionata in un ruolo, così come era maschera, proprio malgrado, anche Totò (ogni maschera, poi, decide come gestire il proprio legame con ciò che non è maschera. Antonio De Curtis, si racconta, prendeva orgogliosamente le distanze da Totò, dalla maschera, dal personaggio, e lo relegava in cucina a mangiare da solo. Non ho idea di cosa Nanni Moretti faccia di ciò che in lui non è marchio, dove faccia mangiare, la sera, il suo Michele Apicella).

Il connotato più evidente che permette di proporre come plausibile la frase “Il caimano, il nuovo film di Nanni Moretti, è un film di Nanni Moretti.” credo sia quello della mania.

Fin dall’esordio – Io sono un autarchico, del 1976 – Moretti ha definito un alfabeto espressivo privato, imposto più che proposto, monomaniacale. Obblighi psicologici, costanti della memoria e della sensibilità, monologhi tortuosi rigidissimi, il temperamento labirintico, la frenesia pantoclasta allucinatoria, l’assoluta incapacità di negoziazione, più esattamente l’assoluta mancanza di volontà di negoziazione: tutto questo è stato l’arco di volta del cinema di Nanni Moretti in questi trent’anni, il suo materiale costitutivo. Sembra quasi che ogni singola storia si sia semplicemente avvitata intorno a quest’anima preesistente e indiscutibile, la mania, la coazione a ripetere, la fissazione come metodo e come strategia.

Del resto, già quel primo titolo, Io sono un autarchico, rimanda nettamente a un’autosufficienza per tanti versi brutale, respingente, giocata sulla falsariga della provocazione (per quanto a volte di maniera), dell’imprudenza e della orgogliosa refrattarietà. Come se tutto il suo cinema, dal ’76 a oggi, producesse un enorme sottotesto, una lunga ombra di senso, riassumibile in qualcosa come: “Voi, e non io, avete bisogno di me. Io, di voi, non ho bisogno.”

Io e voi.

(è chiaro che sto continuando a fare inferenze personali – se non addirittura illazioni – a partire sempre dal marchio Nanni Moretti.)

Direttamente connesso alla mania è il disprezzo.

Nei film di Nanni Moretti, il disprezzo, mitigato negli anni da un’ulteriore lettura delle cose, è presente e prepotente. Un disprezzo eiettato a raggiera, cannibale e autolesionista, un groviglio di impulsi fastosamente distruttivi. Ed è proprio questo disprezzo necessario, questo disprezzo naturale, ad aver fatto di Nanni Moretti la sintesi del sadomasochismo di un certo pensiero colto di sinistra – fragilissimo, orribile, struggente.

Anche Giorgio Gaber mobilitava, nei suoi pezzi, soltanto una pars destruens. I padri delle sue canzoni, i tuoi e i miei, quelli classici e conservatori da una parte e quelli moderni e anticonformisti dall’altra, erano alla fine tutti massacrati, squalificati, inguardabili, liquefatti dalla sua necessità di non lasciare niente in piedi, di azzerare la percezione e il discorso (il degrado qualunquista dell’ultimo Gaber è stato forse uno dei possibili esiti di questa attitudine).

La distruttività di Moretti è stata diversa da quella di Gaber. Non tanto di pancia quanto di testa, meno diretta è più ellittica (“Ve lo meritate Alberto Sordi”), ma ugualmente rissosa e disperata. Fare a pezzi per farsi a pezzi, come nella migliore tradizione del Doppelganger, come nei Duellanti di Conrad, a precipizio nel tempo e nello spazio fino al completo annichilimento, fino al silenzio, alle macerie. Alle proprie macerie e alle macerie di un doppio tragico, l’appartenenza im-possibile (e inevitabile?) alla sinistra italiana contemporanea.

Il caimano, il nuovo film di Nanni Moretti, è un film utile.

Non penso si possa sostenere che sia un bel film. Probabilmente nessun film di Moretti è un bel film. Preferisco quindi metterla in termini di utilità, considerato anche che l’utilità è una forma particolare di bellezza.

Il caimano è un film utile perché è un film di regressione, di abbandono del segno espressivo a una elementarità quasi rozza, sicuramente dimessa. È un dire, come deve essere, ma è un dire normale, elementare, un breve commento che punta non tanto sull’evocazione immediata – robusta e orizzontale – di una condizione, quanto sull’effetto postumo, sulla nausea chimica che perdura tra gola e petto, che trasforma il respiro in schiuma, gorgoglia e non va via.

La nausea che segue una constatazione semplicissima, la consapevolezza di un dato di fatto: non c’è più una soglia che, tramite l’impegno civile e la lotta, porta dalla sconfitta alla vittoria; c’è soltanto una soglia – esilissima, formale – che collega una sconfitta a una sconfitta.

Come sempre la scrittura, intesa come modalità di impostazione drammaturgica, è molto presente e percepibile. Moretti non fa scelte “mimetiche”, non “nasconde” la storia in se stessa, nella trasparenza totale della messinscena, ma fa sempre sentire il “macchinario”, lo scricchiolio, il rumore della realizzazione, cosa che determina nello spettatore un senso di continuo andirivieni da dentro a fuori, dal politico all’autobiografico, dalla messinscena di finzione alla non fiction.

Nel Caimano, si sente la sceneggiatura, il copione, tanto quanto si avverte la presenza delle battute di dialogo nella bocca dei personaggi. La frizione tra l’impegno produttivo e la realizzazione, in un film che racconta la storia di un impegno produttivo frustrato dalla sua realizzazione, è il basso continuo sempre avvertibile.

Tutto questo, questo “appoggiare” le scene sulla pellicola, le battute che denunciano lo script, questo senso esibito di finzione, questa ostensione del lavoro, non penso sia in nessun modo accidentale e non penso costituisca un limite del film.

Moretti sceglie di stilizzare il più possibile situazioni e scene e soluzioni espressive, di togliere loro spessore, la cosiddetta profondità (cosa che non è in contraddizione con la forma esasperata e farsesca di diverse scene). Il caimano gestisce la superficie della narrazione, il cartone scenografico, la scala di finto legno che traballa se ti ci muovi sopra, lo slittamento da un set all’altro. Il caimano-film è fatto come il caimano-Berlusconi, con gli stessi materiali – cartone, balsa, colla, plastilina. Essenzializzazione dei segni, standardizzazione verso il basso. Un mondo sociale che è stato al contempo ridotto ed elevato a “plastico” – Milano elevata-ridotta a esponente ennesimo, al quadrato, al cubo, moltiplicata, riverberata, trasformata nel modellino di città archetipico della scuola guida, con gli equilibri e le armonie, cromaticamente indiscutibile, con il paesaggio estetico, anestetizzato.

Eppure questo lavoro di ridimensionamento continuo delle possibilità – coerente con la storia raccontata – non ha l’obiettivo di impoverire il portato espressivo del film, ma di perimetrarlo, di temperare l’aculeo, di affilare i canini, per incidere un segno minimo ed efficace. Un piccolo morso.

Il caimano è un film di cortocircuiti (uno dei più evidenti riguarda il casting, ad esempio, autoriverberante e capriccioso, insieme monotono e polimorfico) che trova nel pubblico in sala, come spesso accade, il suo versante peggiore.

Si torna al discorso del disprezzo, dell’“io e voi”. Il pubblico dei film di Moretti parte da una condizione di imbarazzo. In qualche modo presentisce che il motore della storia che ha davanti ha radice da qualche parte nel corpo di Moretti. Nel disprezzo che sta nel corpo di Moretti. Di questo ha paura, teme di finire nella traiettoria critica, di venire implacabilmente impallinato dal regista-attore. Allora, nel buio della sala, comincia a mobilitare una strategia difensiva che si manifesta in una batteria di sorrisi, risate, accenni di risate, ghigni, motteggi di gola, espressioni gutturali di approvazione e complicità. In gran parte, specialmente in questo film, del tutto gratuiti e scollegati dalla vicenda narrata. È piuttosto una specie di nervosissima captatio benevolentiae nei confronti di qualcuno che è stato silenziosamente incaricato di mediare una serie di ragioni e di retoriche tipicamente e cronicamente di sinistra. Si tratta di un tentativo servile, basso e sgradevole, eppure sostenuto da decine di facce e di gole in sala, di “appartenere” a un padre forte ma bisbetico, lucido ma contrastato, tanto abile nel colpire il nemico di destra quanto capace di esplodere all’improvviso in un’azione autolesionista, in un assalto feroce contro il proprio stesso corpo (contro il proprio stesso pubblico). Meglio sorridere e ridere nervosamente a sproposito, chiosando le scene, facendosi ironici e furbi, superiori, tenendo d’occhio le eventuali bizze del padre, augurandosi non diventi cattivo.

Questa idea di intelligenza ironica ha in sé qualcosa di terribile perché sembra coincidere con l’epicentro della cultura di sinistra. Siamo colti, siamo intelligenti, e abbiamo imparato a gestire la passività in modo brillante. Il tragico, ma anche semplicemente il serio, ha lasciato spazio all’ironico, che è più seducente e che reca conforto.

Nella prima scena che lo coinvolge direttamente, quando il produttore Silvio Orlando e la regista Jasmine Trinca gli propongono di interpretare il ruolo di Berlusconi, il personaggio di Moretti, distratto da una canzone alla radio, risponde contestando la sceneggiatura, pur non avendola letta, sostenendo che, la gente, di Berlusconi sa già tutto, che tanto lui sa già cosa c’è scritto sul copione, che c’è l’ironia sul lifting e sul trapianto di capelli, che questo film vuole solo scherzare, ironizzare. “Non c’è niente da ridere”, dice a un tratto, come rivolgendosi al pubblico in sala, bloccandolo e censurandolo nella sua ansiosa ricerca di consenso, spingendogli in gola il sorriso compiaciuto, ripristinando solo per un istante il serio al posto dell’ironico, la paura al posto della complicità (è in questo momento che, per me, il caimano, il caimano-film, morde, come ogni storia cerca di mordere l’animale contro il quale sta combattendo; il mio caimano mi ha morso nella battuta “Non c’è niente da ridere”; in quel momento ho sentito la pressione del morso che deforma il sangue sotto la pelle).

Il padre si è innervosito, ha detto di no, ha respinto i ruffiani che cercavano l’intesa molle, la connivenza furba, il sodalizio protettivo, la maledetta-benedetta appartenenza, il grande mito del consistere, individui, dalla stessa parte, nello stesso posto. Il dolore dell’unanimità, del quale gli sgretolamenti e le esfoliazioni dell’Unione sono perfetta perenne metafora.

Il caimano è il film della politica italiana. È la fotografia di un’ascesa, dell’ascesa di una narrazione (Una storia italiana era il titolo, esplicitamente narrativo, sostanzialmente un’agiografia, della libro-rivista che circolò in Italia nella primavera del 2001), e della sbalorditiva assenza di una narrazione alternativa, oppositiva, quella che il centrosinistra avrebbe dovuto concepire ed esprimere.

Moretti sceglie di chiudere il film con il disegno – ancora una volta appena accennato – di un’apocalisse. I soldi per realizzare l’intero film non ci sono, ci si può togliere lo sfizio di girare soltanto una scena, quella che chiude la sceneggiatura. Berlusconi, dopo anni di rinvii e cincischiamenti, viene condannato a sette anni di reclusione e alla sospensione dei diritti. Andando via autorizza i suoi a una reazione, al diritto di opporsi a questo scandalo in qualsiasi modo. La scena è ancora una volta ridotta al minimo. Una bottiglia incendiaria scagliata contro la scalinata del tribunale dalla quale stanno scendendo i magistrati, uno sparuto senso di minaccia, il giudice che scivola sulle scale, le forze dell’ordine spaesate che si chiudono malamente a testuggine. La macchina da presa sta ferma, alle spalle dei nuovi “rivoluzionari” (si tenga conto del fatto che una scena del genere è in sé, sulla carta, molto seducente e indurrebbe a un dispiegamento di mezzi tecnici ed espressivi – carrelli, dolly, movimenti, penetrazioni dello sguardo nello spazio, illustrazione dinamica dello scontro: quindi la staticità, per contrasto, risalta ancora più forte).

Elementare anche l’ultimissima inquadratura. Mentre alle sue spalle comincia la rivolta, Moretti-Berlusconi resta impassibile, seduto sul sedile posteriore dell’auto che lo porta via. Il suo volto passa al nero, diventa ombra. Titoli di coda.

Ovvero un sistema di segni narrativi basici, involuti, persino primitivi, che farebbero imbarazzare, nella loro stilizzata ridondanza, gli stessi maestri del b-movie italiano ai quali Il caimano più volte rimanda. Ma questa è esattamente la misura espressiva utile al discorso di Moretti. Qui, adesso, a questo punto, lo sbalordimento di fronte a questi anni italiani non va espresso in forme elaborate, attraverso una frase articolata e complessa. L’efficacia dello sbalordimento è data dalla regressione alla modalità primaria della comunicazione. Il caimano è un film che dall’inizio alla fine sillaba la propria incapacità e necessità di capire che cosa è successo, perché è successo. Sillaba il proprio e il nostro sconcerto. Perché non c’è proprio niente da ridere, qualcosa è successo.

Sillabazione, lallazione, a un millimetro dalla completa afasia.

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14 Commenti

  1. Grazie per la “vasta” e acutissima analisi caimana.
    Ha sollecitato e solleticato molte sensazioni provate subito dopo la sua visione.

  2. ringrazio giorgio vasta perché mi sembra un commento intelligente il suo, e profondo, però a me “il caimano” è sembrato un film superficiale e basta, incapace di farmi provare un’esperienza (quella della mia stessa superficialità, in questo caso).
    la scena finale l’ho trovata tutto sommato giustificata: è da b-movie (con quell’accompagnamento musicale di archi che ricorda uno sceneggiato rai e sembra un coro: “è cattivo… zan zan zan… com’è cattivo zan zan zan”) ma proprio per questo penso che quagli: il personaggio di silvio orlando produce film di quel genere.
    ce ne sarebbero altre imperdonabili, tipo lo scambio di salutini dal volante tra il protagonista e sua moglie, o semplicemente stanche, come la ricerca del pezzettino di lego: ma forse non rientrano neanche tra le più elementari.
    io ho trovato rozzi i dialoghi, la recitazione, la colonna sonora: e fin qui sono impressioni che vasta mi conferma. però – qui il mio distinguo – non ho trovato niente che facesse da contrappunto stilistico a questa rozzezza. non ho le idee chiare, ma suppongo che se il film avesse fatto coabitare passaggi complessi e profondi con passaggi elementari e superficiali, mi avrebbe trasmesso – come per differenza – quella superficialità con più forza. così sì che mi sarei sentito senza parole! avrei fatto esperienza di quella mancanza di una narrazione alternativa in cui, come elettore di sinistra, dopo berlusconi (ma anche da prima) vivo. avrei sentito lo scarto, la possibilità.
    è vero: non è rozza la soluzione formale di rappresentare il caimano con un vortice di maschere. però non mi è bastato.
    saluti
    luigi

  3. Caro Luigi,

    potresti indicarmi quali sono i passaggi rozzi? Secondo me il film si tiene in modo perfetto: è coeso e coerente, sensibile e profetico.
    Il tema non è Berlusconi, è l’eterno fascismo italiano, il conformismo della classe dirigente e la sparizione della borghesia. Non mi pare che siano temi da poco e non mi pare che altri registi o intellettuali del nostro paese li abbiano toccati ultimamente, perlomeno con la stessa forza.
    Per fare un esempio, citerei gli ultimi interventi di Mozzi e di molti altri nei post sugli immigrati di destra qui su NI, dove un sottofondo qualunquistico si fonde perfettamente con le allusioni demagogiche. La ricerca della battuta ad effetto televisivo si lega alla mancanza di responsabilità e di senso del proprio ruolo.
    Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensi.
    cordiali saluti

  4. non ho ancora visto il film.
    questo pezzo mi pare in sé magnifico, anche solo per l’analisi della figura di moretti, così come si è venuta auto-sedimentando negli anni.
    la cosa migliore che ho letto sinora su di lui.

  5. Ramenghi come hai ragione! Quello scambio di salutini non li avrebbe fatti manco Vanzina…

  6. complimenti per il pezzo. non ho visto ancora il film, ma tutti gli altri sì, e mi sembra davvero un profilo dell’uomo-artista indovinato.
    moretti mi sta sulle balle, anche se l’ho apprezzato e lo trovo quasi indispenzabile, almeno qui in italia, per capirne qualcosa.

  7. A distanza di giorni non riesco ad esprimere un giudizio sul linguaggio filmico de Il Caimano. Moretti però riesce a parlare della connessione, per le nostre generazioni, tra scelte e azione privata, individuale ed aspetti sociali e politici, come non accadeva da anni. E in questo, ha una scrittura emotiva e cerebrale nello stesso tempo, ed è osservatore oggettivo e spietato. Non sconta il pubblico di nulla, ma in questo è lui specchio della platea. E finalmente non ha una risposta, ma molte domande. E’ davvero utile.

  8. Carissimo Giorgio,

    leggere questo post mi ha messo invece di buon umore.

    E’ raro poter condividere un’analisi così puntuale e lucida e ben argomentata ma non sull’ultimo film di Nanni ma in generale su tutta la sua opera.

    Le recensioni sul film si assomigliano un po’ tutte.

    In questa, invece, mi hai molto aiutato a vedere, con ancora più chiarezza, anche la motivazione di una certa carenza formale, di cui tu con grande lucidità argomenti le ragioni.

    Qualcuno sul mio blog mi ha consigliato questo post e sono grato davvero a chi mi ha indirizzato qui.

    Complimenti inoltre per il modo in cui scrivi, la raffinata ricerca semantica di alcuni termini suonano per me come musica.

    E’ vero non c’è molto da ridere.

    Le macerie che si lascia alle spalle l’esistente protagonista del film sono macerie istituzionali, costituzionali, politiche, etiche, psicologiche se è vero che, da troppi anni, questo è un paese diviso in due.

    Ma sapere che ci sono persone in gamba come te in giro, è come intravedere nelle tenebre una luce anche se la primavera, intanto, tarderà ad arrivare, comunque andranno queste elezioni.

    Un saluto.

    Rob.

  9. Fuori del cinema un uomo anziano con indosso un gilet bianco di plastica vendeva l’ultimo numero di Micromega, pensa tu, che portava stampato sulla copertina un FORZA NANNI del tutto imbarazzante. La sala conteneva solo ceto medio riflessivo un po’ in là con gli anni, cioè era piena di miei simili in tutto e per tutto.
    Pensavo che se un uomo di cinema dotato e intelligente come Moretti si fa fregare così da Berlusconi, consentendogli di entrare a piè pari nella propria opera devastandola, allora è vero che ha vinto, ed è vero che “Berlusconi siamo noi” come lui stesso dice nel film.

  10. Sono d’accordo sull’apparente tautologia, ossia sulla impossibilità di distinguere l’opera (il film) dal suo autore (Moretti). Questo tuttavia non mi disturba. Mi sembra quasi una caratteristica del nostro cinema quella di identificare il film con il suo regista o con il suo attore (e Moretti è sia regista che attore). Non si andava a vedere il film tal dei tali, ma piuttosto Totò, la Magnani, Fellini, Sordi ecc.. Una volta ho letto a questo proposito un’intervista – credo, ma non sono sicura – a Risi. Affermava che quando vedeva un film di Moretti aveva voglia di dirgli: “Sì, va bene, sei bravo. Però spostati un po’ e fammi vedere il film”.
    In ogni caso a me il film è piaciuto.

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