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Berlinguer ti voglio bene

di Marco Rovelli

L’Einaudi è di Berlusconi, ma di certo non soggiace alle direttive arcoriane. Se mai, nella casa berlusconiana prendono dimora più comodamente gli uomini dell’avversa parte. Quelli vicini a D’Alema. Come, ad esempio, Andrea Romano, responsabile della saggistica della casa torinese, ed ex direttore scientifico della Fondazione Italianieuropei. Al suo attivo ha una biografia mondadoriana su Blair – a indicare la stella polare dei “destini della sinistra italiana”.
Adesso Romano ha pubblicato un libro – Berlinguer e la fine del comunismo – di Silvio Pons, direttore dell’Istituto Gramsci (autore con il quale Romano aveva pubblicato un saggio negli annali Feltrinelli). Il libro è stato recensito sul Corriere della Sera  di giovedì 16 marzo da Sergio Luzzato, il quale tra le altre cose, oltre a insegnare all’università di Torino, scrive sulla rivista Italianieuropei.

Sia chiaro, non ci vedo nulla di male in questa comunità. E’ normale, e forse, chissà, perfino giusto (sicuramente giusto lo è alla luce della lezione gramsciana delle casematte da conquistare). Ma che quantomeno sia chiaro che il libro di Pons – un libro di storia – è espressione, in qualche modo, di un’area politica, quella del riformismo dalemiano (qualcuno dice: del fondamentalismo riformista). E anche fin qui, nulla di male, forse: non sarebbe che la riproposizione in veste nuova dell’intellettuale organico (certo, organico a che cosa, dato che classe e partito non ci sono più?). Ma il fatto gli è che questa organicità fa venire il sospetto che il lavoro dello storico venga utilizzato ai fini delle necessità politiche del momento presente: le necessità, dunque, della politique più politicienne. Che insomma della storia si faccia un uso pubblico sempre più privato.

Anni fa mi è accaduto di scrivere una tesi di dottorato sull’ideologia dei comunisti negli anni cinquanta. Ci si imbatteva in scritti di persone come Giuseppe Vacca, veri e propri sacerdoti della continuità della tradizione comunista. Vacca è ancora il presidente dell’Istituto Gramsci, di cui Pons è direttore.
Da qualche anno ho dismesso l’interesse per le vicende del comunismo italiano, e adesso m’imbatto nella pubblicazione contestuale di due libri su Berlinguer: uno di Francesco Barbagallo (intitolato semplicemente Enrico Berlinguer, ed. Carocci) e quello, appunto, di Silvio Pons.
Il primo è una biografia politica di impostazione più tradizionale, un po’ come il Togliatti scritto qualche anno fa da Aldo Agosti. Barbagallo tende a sottolineare come la politica di Berlinguer fosse avversata tanto da Unione Sovietica quanto da Stati Uniti, nella misura in cui poneva in questione il bipolarismo. Del resto già nel suo saggio di tre anni fa – l’introduzione a Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984 – Barbagallo rilevava come Berlinguer non tenesse in gran conto le prudenze del suo consigliere (Tatò, appunto) quanto alla centralità del legame con Mosca, fino a proclamare esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. Fino allo strappo. Il tentativo berlingueriano dell’eurocomunismo venne fatto, per Barbagallo, nel segno dell’autonomia, e nel tentativo di superare il bipolarismo. Rotta sulla quale si innescarono convergenze con il “terzaforzismo” di Willy Brandt e Olof Palme.
Nello stesso tempo, la centralità della “questione morale” e della diversità dei comunisti era decisiva per Berlinguer entro la dimensione politica italiana. Di conseguenza, assolutamente centrale fu il conflitto con Craxi. “Tutto li divideva: il carattere, la struttura morale, la prospettiva e la pratica politica”, così ha scritto Barbagallo nella citata introduzione. E su questo la convergenza con Tatò era piena. Si legga questa bella nota:

«Su quale giudizio dare di costui, credo non ci siano disparità di vedute o dissensi del nostro attuale gruppo dirigente di partito. Tutti i compagni della Segreteria convengono – a quattr’occhi – che Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia, ai lavoratori, ai loro profondi e reali interessi, ideali e aspirazioni… Con Craxi appare in Italia – in questa Italia fine anni ’70 che sta nel pieno di una crisi massima – un personaggio quale ancora non si era visto in più di 30 anni di vita democratica, un bandito politico di alto livello. E’ anch’egli un portato della decadenza della nostra vita pubblica, un segno dell’inquinamento esteso del nostro personale politico. Craxi è anzi uno dei più micidiali propagatori dei due morbi che stanno invadendo la sinistra italiana – l’irrazionalismo e l’opportunismo – e che il maggior partito della classe operaia ha il dovere di combattere e di debellare. Ma non è facile, perché il metodo e lo stile di Craxi hanno sorpreso e sorprendono un po’ tutti, almeno fino a ora. Il suo è comportamento sfrontato, provocatorio, temerario, fazioso, violento, ma che proprio per questo può sembrare forte, e quindi può intimidire partners e avversari, può persino suscitare ammirazione, se non approvazione».

Adesso passiamo a Pons. La tesi di Pons è che lo strappo in realtà non ci fu. Che fu solo retorica. Che la preoccupazione principale di Berlinguer era quella di non compromettere le basi identitarie del Pci. Che Berlinguer non seppe riconoscere, in buona sostanza, che il comunismo era morto e sepolto, che di comunismo non se ne doveva più parlare, e che per questo motivo un serio riformista non può appellarsi alla sua memoria. Perché la sua non è che una “figura tragica”.
Ha scritto Pons in un articolo per l’Unità: “La radice principale della difficoltà di Berlinguer di fare i conti fino in fondo con l’eredità del legame sovietico e con le compatibilità del sistema della guerra fredda va probabilmente indicata nella necessità di mettere un argine alla trasformazione dell’identità del Pci e di evitare una sua «socialdemocratizzazione».”
Ecco. E’ questo che Berlinguer ha voluto evitare ostinatamente. Riconoscere i propri errori, rinunciare all’identità comunista e diventare socialista. Mettersi con Craxi. Riconoscerne i meriti, invece di considerarlo un volgare bandito.
E allora anche la questione morale va riconsiderata. Di fronte a chi, secondo Pons, la evoca a sproposito, occorre rammentare che essa poggiava sulla “coscienza anticapitalista”. E dunque, una scelta si impone per i riformisti: via l’anticapitalismo, e via anche la questione morale che di anticapitalismo si nutre. Il faut être absolument moderne.
Essere moderni, e non restare attaccati a giudizi antiquati, come fece Berlinguer quando paragonò la politica craxiana all’”opera dei partiti socialdemocratici europei che con i loro errori hanno aperto la strada alla reazione e al nazismo”. Già. Se poi Craxi abbia aperto la strada a Berlusconi, e se quella di Berlusconi sia reazione, questa è cosa superflua.
Quanto a D’Alema – la figura di Craxi, lui, l’ha già rivalutata. Ma questo è incompossibile con la permanenza di Berlinguer nel pantheon dei post-comunisti. Rimuovere i ricordi, distruggere i rimpianti, tagliarsi i ponti dietro le spalle. En avant, verso il partito democratico.
(Quantomeno, i democristiani restano attaccati a don Sturzo).

(Perché Nazione Indiana, dirà qualcuno. Non è mica un sito di politica. No. Ma se questo qualcuno rilegge l’articolo, capirà che qui si parla di libri, e di scelte editoriali).

Per dirla con Benigni, con il suo antiedipico film, e con il mio amico Carlo Monni: Berlinguer ti voglio bene.

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18 Commenti

  1. anche a De Martino vogliamo bene!
    fosse durato lui e non Mancini alla segreteria del partito, i socialisti non avrebbero mai vissuto la gloria del Midas e la miseria del Raphael.

  2. Piuttosto che valutare subito questa tesi alla luce del pensiero d’alemiano, forse varrebbe la pena, prima, di provare a verificarne l’attendibilità storica.
    Di D’alema non mi frega nulla, di Berlinguer sì.
    Che il problema della svolta si sia posto prima della Caduta del Muro e non solo per rapporto alla politica di Craxi – anzi semmai in opposizione alla stessa, per svuotarla almeno dei suoi contenuti anti-comunisti – secondo me non può essere messo in dubbio.
    Che ogni svolta avrebbe condotto a lacerazioni tremende, in un movimento operaio già fiaccato dalla controffensiva vincente del padronato nei primi anni Ottanta, è altresì indubbio.
    Le questioni che aveva di fronte Berlinguer non erano di poco conto, ma credo che, se fosse vissuto ancora qualche anno, il problema cruciale dell’uscita dalla prospettiva comunista sarebbe stato ineludibile anche per lui.
    Certo qualche errore lo fece.
    Quale?

  3. Sono d’accordo con te, Tash. La svolta era ineludibile. Il punto era: in quale direzione? E da qui inizierebbe una riflessione complessa.
    Il punto però è che questa rilessione, nel dibattito pubblico, è impedita propria dalla presenza di una comunità politica che si appropria della storia per le sue necessità contingenti (la prospettiva riformista e del partito unico)
    Per questo non possiamo, io credo, non fregarcene di D’Alema. Perché, se è vero che della storia si fa sempre un uso pubblico, in questo caso però lo è troppo. Occorre rimuovere questo ostacolo. A questo semplice, modesto obiettivo era rivolta la mia riflessione.
    Dopo inizia il percorso che tu giustamente imposti. Perché affrontare una svolta non significava necessariamente (come vogliono i Pons) dare ragione a Craxi e diventare socialdemocratici. Allora occorreva porsi il problema di “come” gettare le basi di un’altra possibile alternativa. (Rivisitando tutta la storia degli anni settanta, con una critica del compromesso storico e una riconsiderazione del rapporto con i movimenti). Ma se Berlinguer non fosse morto nell’84, cosa sarebbe successo?

  4. Esistono letture paradigmatiche della traiettoria berligueriana.
    Si dice, per esempio che non fu abbastanza coraggioso nello strappo con l’URSS e che avrebbe dovuto trarre tutte le conseguenze di quella frattura, riposizionandosi nella sinistra occidentale in senso già post-comunista.
    Costruire un grande partito socialista occidentale a partire dalla cultura del PCI sarebbe stato possibile?
    Certo non era mai stato possibile farlo a partire dalla cultura del PSI, che oscillò sempre tra massimalismo e para riformismo corrivo, finché non riuscì a trovarsi del craxismo come esito secondo me logico di quel percorso.
    Oggi sembra facile dire che il baricentro della sinistra italiana non era nel PCI e nemmeno nel PSI, ma in un punto opportuno situato tra queste due forze, ma, ammesso che fosse corretto, percepirlo allora non era facile.
    Un altro paradigma recita che il PCI poteva permettersi di considerarsi moralmente illeso, un “paese nel paese” come diceva Pasolini, perché sempre lontano dal potere e dunque da corpose tentazioni.
    Non so, credo sia vero solo in parte: essere comunisti significava avere un progetto di società totale e questo significava qualcosa, lo distingueva da ogni altra forza.
    Intransigenza morale era nel DNA del movimento operaio internazionale, anche se in Russia se ne fece presto a meno.
    La lettura che Berlinguer faceva di Craxi era corretta, ma forse gli sfuggiva il fatto che non era Craxi a causare la decadenza morale del paese, ma era la decadenza morale del paese a causare Craxi, il quale in fondo era solo una forma più alta, e forse più nobile, di homo socialista alla Tanassi.

  5. @Rovelli: articolo interessante solo non ho capito cosa c’entra l’incipit col resto. Dopo averlo letto pensavo a una disanima socio-economica su Einaudi vs Berlusconi.

    Buona giornata. Trespolo.

  6. Sono molto d’accordo con Marco.
    Direi che Berlinguer ha provato a trovare soluzioni alternative in un mondo diviso in blocchi. Ha guardato agli altri paesi europei cercando di costruire un comunismo europeo. Ha provato a stabilire rapporti con Palme e Brandt nel nord europa. Ha contribuito, come mai nessuno prima di lui nel PCI, ad allargare gli orizzonti provinciali del nostro paese.
    Tashtego hai ragione, la decadenza morale era del paese. La questione morale è stata posto però allora ed ha almeno rappresentato un certo baluardo negli anni Ottanta.
    Un aspetto molto interessante, perlomeno secondo me, è poi tutta l′attenzione ai consumi e all′essenzialità come valore. Difficile da far passare in quegli anni, ma a vederlo adesso, di un valore quasi profetico.
    D′altro canto, come conclude Barbagallo il suo bel volume, non sappiamo come sarebbe andata la storia d′Italia con lui, sappiamo come è andata senza…..

  7. Quando dico di “un’altra alternativa” possibile, chiamo in causa il rapporto con i movimenti e la critica del compromesso storico. Dunque era possibile affrontare criticamente l’esperienza comunista senza passare per la socialdemocratizzazione, ed evitando pure quell’esperienza eurocomunista che in fondo non era che una riarticolazione del paradigma policentrista abbozzato da Togliatti nel ’56.
    A proposito di eurocomunismo, un amico mi dice che cito Palme e Brandt ma non Carrillo e Marchais, con i quali esso effettivamente era costruito. E’ vero, questo. Mi ero limitato però a Palme e Brandt perché mi pare importante, innegabile, e positivo, il tentativo di una presa di distanza dalla logica bipolare. Frustrato, di certo, dal peso di quegli innominati (innominabili?) compagni di viaggio.
    La questione morale: da una parte, è vero (e rispondo sempre al mio amico), era un attendismo, che scaturiva da un’incapacità di trovare davvero un’altra identità. Ma io credo che il suo valore decisivo sia quello che rilevano Tastego e Rigoni: ovvero la salvaguardia di un altrove, per dirla brachilogicamente.
    Quanto a Craxi, nell’Ideologia tedesca si legge, e riporto con qui (con qualche forzatura):Le circostanze fanno l’uomo non meno di quanto l’uomo faccia le circostanze…

  8. Uno dei problemi di Berlinguer fu la lentezza. Che derivava anche dal “cavalcare” un elefante: in cammino riusciva anche a travolgere molti ostacoli; la sua messa in moto in un altra direzione non era però facile -anche considerati certi ceppi sempre molto forti quale certo operaismo da un lato e tendenze socialdemocratiche (ma di stampo italiano) dall’altra. Berlinguer non causò in fondo mai strappi veri e propri: non lo fu nemmeno quello con l’URSS: aprì piuttosto la via nella parte della società italiana che più vi era richiamata, ad una riflessione sul fatto che il “socialismo reale” era il solo esistente e non era granché; che in buona parte la Rivoluzione d’Ottobre era un mito, un’operazione mediatica ante-litteram.
    E tentò di allontanarsi da una visione leninista del partito-guida; cercò di porre piuttosto al centro di un’azione di rinnovamento una società (questo credo fosse quel “sogno di una cosa” che era il compromesso storico) dove i cordoni ombelicali ideologici di stampo marxista o cattolico fossero superati (resi secondari) o tagliati. Da qui anche il ribattere sulla questione morale, il cercare di farne un perno o un faro: doveva essere qualche cosa che investisse l’intero paese come corpo vivo, che abbandonasse l’idea della Presa del potere come (mutatis mutandis) presa del palazzo d’Inverno… Sì, era un tentativo di salvaguardare un altrove -un qualche cosa che ancora non esisteva…
    Pur ancora ancorato nel PCI e nella tradizione comunista più genuina, comincia ad uscirne -ma qui dobbiamo sospendere il giudizio poiché non ci fu più tempo…
    Purtroppo ciò che seguì non fu all’altezza -ed anche per questo il PCI finì forse più per suicidarsi che per trasformarsi. E troppa di quella cultura si polverizzò semplicemente: la figura di Berlinguer fu l’ultima figura di leader nel senso classico a sinistra -e Craxi, uomo-simbolo dell’inizio della decadenza civile e politica italiana, fu abile nel classificarlo come “accademico”: fu proprio lui, non Berlusconi, il primo a tentare la via del partito-azienda. Ed infatti proprio in quegli anni, nell’inizio della decadenza italiana, nasce il populismo e l’antidemocrazia Berlusconiana.
    Difficile dire cosa sarebbe successo -se. Ma oltre le diversità di visioni politiche è difficile non volergli in qualche modo bene.

  9. Qui si è tirato in ballo D’Alema ma si è tralasciato messer Occhetto il quale fu segretario P.C.I dopo Berlinguer, che con il suddetto signor Baffino fu gran traghettatore di comunismi italiani verso lidi ben sciacquati in acque craxiane vuoi lorde di melme tangentizie e personalismi, narcisismi e scarpette da 700.000 lireal paio o barcarizzi volanti.
    Il signor Occhetto, che ora nutre avversione e rivalità per il suo degno compare, ricordo benissimo che già alla Bolognina cominciò a banfare di “moralismi” quando alcuno “sprovveduto” diceva di illeciti guadagni conseguiti con la politica.
    E ricordo pure che mentre conversavo con un funzionario PCI, piuttosto in alto, di sorgenti illecite di soldoni, costui rispose, (l’indegno):
    I compagni socialisti dicono che così si fa per governare!!
    E non è per tutto incentrare sull’onestà che dico, ma anche ricordare l’intelligenza che vien comunque annegata dall’avidità e dal personalismo (se mai intelligenza o lungimiranza vi fu).
    Comunque sono con Tashtego per dire che Craxi emerse perché era il frutto maturo, il virgulto di un’epoca tutta rose e fiori e garofani etc.
    MarioB.

  10. Caro Marco, ma tu sei sicuro dei rapporti che stabilisci tra Andrea Romano e Massimo D’Alema? A me è capitato proprio in questi giorni di chiedere pareri in ambienti, diciamo, dalemiani, e sentirmi rispondere che le distanze tra i due sono abbastanza grandi, e che Romano si è margheritizzato alquanto.

  11. @ Maline
    Condivido. Non condivido però la negazione dello strappo: dici bene, Berlinguer addita il modello come mito. Demitizza il mito. E il legame ideologico con l’URSS era anzitutto un apparato ideologico (Cafagna nel 56 aveva parlato di “mitologia del sovietico”, e di questo sintagma ne feci il titolo della tesi…). Dunque demitizzare significa davvero, a mio giudizio, strappare.

    @ Mario
    Occhetto è sempre stato confuso, come dimostrano i suoi ultimi ondeggiamenti, sono d’accordo. Quando avevo vent’anni ero stato per un istante abbagliato dalla sua confusione, questo è il mio cruccio…

    @ Massimo
    Non so nulla di più di ciò che scrivo, dunque probabilmente è vero che Romano si stia margheritizzando. Ma non direi che questo sposta in maniera decisiva l’asse del ragionamento. In certi ambienti si possono sempre dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte…

  12. Questi due libri su Berlinguer forse aiutano anche a capire qualcosa sulle diverse anime interne ai DS (oggi la dialettica interna è ingessata per la campagna elettorale). Mi sembra che la rivalutazione di Craxi abbia subito una battuta d’arresto con il caso Consorte.
    @ Rovelli
    complimenti per l’articolo

  13. E io che ero convinto che questo post contenesse una recensione dell’omonimo film di Benigni! Che bestia!!

  14. @ Marco Rovelli

    Era solo un OT scherzoso, postato perché credevo ormai concluso il dibattito (che comunque avevo seguito con interesse). Nessun effetto canzonatorio, poi: la mia stima nei suoi confronti è di lunga data, e difficilmente scalfibile, soprattutto ora che so che condividiamo lo stesso amore per un certo film. ;-)

  15. Caro PPP, (avevo compreso che si trattava di un OT scherzoso) poiché amiamo quel film, mi permetto di linkare unavita.splinder.com, dove ho messo gli estremi di uno spettacolo di canti popolari che faccio insieme a Bozzone… Un po’ di pubblicità a uno spettacolo virtuale (visto che non lo “vendo” e dunque non gira) può essere uno stimolo a farlo girare…

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