Caccia di guardie e ladri in terra padana

di Helena Janeczek

“Ai vecchi farmacisti liberali
E socialisti
Ai loro retrobottega risorgimentali
Antifascisti” (Franco Buffoni, Guerra)
 

Se questo resoconto venisse dedicato a R.S., dovremmo chiarire che non si tratta di una di quelle dediche come, ad esempio “ai miei cari genitori” sulla tesi di dottorato Il ciclo riproduttivo del lavarello nel Lago Maggiore 2002-2004 o “a Carlo e Matteo, i miei uomini” su Neuropsychiatric outlook on personality disorder ecc.: ovvero non di un gesto d’affetto e riconoscenza tanto più grande nel suo rilievo quanto più è svincolato dal suo oggetto, ma di un’altra, ben diversa cosa. Di quest’altra cosa dovremmo poi dire che non sarebbe bene legarla esclusivamente alla persona e nemmeno alla testimonianza di R.S. , perché una simile prospettiva rischierebbe di ridurre tutto a un’idea di realtà e verità scaturita dagli scambi fra due persone, implicando che fuori da tale rapporto potrebbe non esistere affatto. Ma a questo punto occorre ammettere che non si riuscirà in alcun modo sfuggire a un simile rischio: perché chi scrive ha visto quel che ha visto con uno sguardo educato dai racconti di R.S.

La città ha tre piazze. Percorribili in due minuti, crescenti in ordine di grandezza, allineate come i simboli della Opel, ma in verticale: Libertà, Garibaldi, Risorgimento. Questo è il centro del centro della città dei galli. Se ne esistono tre in fila, perché soltanto una, Piazza della Libertà, viene vissuta? E’ vero che contiene le due chiese, quella grande, basilica di Santa Maria Assunta e quella piccola romanica di San Pietro, l’unico monumento storico reso sospetto dalla scritta MONUMENTO NAZIONALE incisa nelle sue pietre. Fra l’una e l’altra si dispongono bar con tavoli all’aperto, il chiosco del giornalaio, negozi di vestiti e alimentari di lusso, panchine. Sui gradini della chiesetta aperta solo per speciali celebrazioni siede qualche madre o babysitter in jeans che lascia i bambini giocare sul sagrato, sulle sedie in ferro battuto i signori in pensione, le sciure e gli abitudinari prendono l’aperitivo. Se hanno dietro figli o nipoti possono far correre anche loro fra chiesa, praticello e tavolini, perché la piazza è diventata zona pedonale, ma questo non va considerata una causa bensì un effetto. Nessuno si spaventa, in ogni modo, se perde di vista per qualche istante bambini grandi a sufficienza da non cadere, anche se può toccargli di scoprire che erano andati a scrutare un piccione morto che pur trovandosi proprio dietro alla  chiesa non è stato rimosso: coperto da una pozzanghera, circondato dalle sue larve affogate.
Sul cerchio di panchine più centrale si impianta invece chi capita, vecchi col giornale, madri con bambini, turisti o uomini immigrati di ogni provenienza, mentre su quelle dietro il giornalaio ci sono fisse una madre, una figlia adulta, un’amica della figlia e un cagnolino di quelli col muso schiacciato e gli occhi sporgenti che riassume le caratteristiche somatiche di chi accompagna, ma leggermente in meglio. Sarebbero dei Goya un tantino degradati dal finto biondo e finto nero con ricrescita e anche dalle occasioni sexy dell’Oviesse Stock House se solo stessero zitte. Ma non si viene a sedersi in piazza per tacere e dunque queste parlano, parlano con voci troppo alte per natura, bercianti o mascoline, facendo uscire fortissimi, ma ormai inqualificabili accenti meridionali (la madre), o un’inflessione lombarda ridotta alla sua essenza bovina (la finta mora), o un bilinguismo tendente al monosillabo, al linguaggio primario preumano (la bionda). Il cane perlopiù sta zitto.
“hh?” (figlia)
“vist’ sti ciabatt colle zepp’ che s’usano, a vent’euro” (madre)
“ch’ss hai detto, ma’?” (figlia)
“ciabatt’alti a venti euro” (madre)
“n’duv’è ch’ le hai viist?”(amica)
“ mmh….s’ po’cari”
“noo, di cuoio vero t’dico, coi coralli, i brillantini, com’si chiamano…”
“stress?”
“Cazz’ beeelli! Ch’ colori ci han?”
“Biango, rrosa, oro e argendo: tutt’colori d’moda”.
“Ueeh, io voglio il rosa. E teeh?
“Boh.”
“Oro: l’va con tutto”
“So’bell’anche argendo, so’molto fine!”
“Eh cazz’, no l’so…”
“Daai!”
 

Ma il chiosco riapre alle quattro e anche loro adesso non ci sono. E’ quasi vuota la piazza sabato a quest’ora, sotto il sole. Cosa ci faccio qui?
Ho comprato le sigarette, comprerei il giornale se qualcuno che lo vende fosse aperto, ma non sono qui per questo. Sono fuggita. Mio figlio non voleva uscire con suo padre e con sua nonna, non voleva lasciarmi a casa a lavorare, voleva la mamma.
Quindi sono scappata: col telefono attaccato all’orecchio per tutto il ridicolo percorso di fuga casa-piazza, con l’amica dall’altra parte a sorbirsi la questione del bambino, ho fatto bene o ho fatto male, grazie mi sento meglio, tu come stai?
Ritrovarsi sui gradini di un edificio comunale abbandonato, col cellulare in mano, col residuo di magone, con la domanda improvvisa: cosa ci faccio qui? Guardo quanto resta di traffico disponibile, guardo l’ora. Forse potrei rientrare ma non oso ancora così come non oso chiamare per sapere se gli altri sono usciti. Prenderò un cafè, aspetterò che apra la libreria, comprerò il giornale e poi tornerò a casa, non importa come sia andata.
 

So tutto con precisione. Sono da poco passate le tre e mezza perché mi trovo alla cassa col giornale in mano quando un’altra cliente dice che lì davanti stanno facendo a botte. Lì davanti significa nel parcheggio. In Piazza Garibaldi. Ma dato che i palazzi edificati dal sei- all’ottocento circondano più il parcheggio che il monumento a Garibaldi, ciascuno, con tutto quello che di storico contiene, sembra starsene per conto suo.
Da Piazza Liberta, procedendo da destra a sinistra, si affacciano:
 – La Farmacia Dahò, intatta con i suoi panelli in legno e vasi medicinali, attuale titolare la cinquantenne Renata Minoli, figlia del dottor Minoli e di una delle tre eredi Clerici. Precedentemente “Farmacia del rinascimento”, ritrovo di patrioti dove secondo tradizione fu ambientato “Romanticismo”, dramma un tempo popolarissimo di Gerolamo Rovetta da cui nel 1951 fu tratto un film, altrettanto dimenticato, con Amedeo Nazzari.
– “L’Opéra” osteria-music-caffé, pretenzioso locale neoclassico, fu “Narcis” bar-ristorante, fu “Bar Moka” gestito dal signor Narciso e moglie, ritrovo di vecchi che giocavano a scopa e del movimento studentesco gallaratese.
– Il Cinema-Teatro Condominio, rifacimento in stile fascista-déco del teatro ottocentesco, funzionante fino agli anni ottanta, dopo lungo periodo di abbandono in via di riedificazione con appalto affidato a uno studio architettonico di Roma.
– Carù dischi di Paolo Carù, negozio noto in tutta Italia, specializzazione nei generi country, folk, blues, folk-rock, blues-rock, country-rock ecc., importazione diretta dagli Stati Uniti con propria website (www.carù.com) e pubblicazione del mensile “Buscadero”.
– Carù libri, famosa per un misterioso magazzino dentro il quale i commessi spariscono per ore alla ricerca di titoli altrove introvabili, al presente gestito dalla signora Anna dopo la ritirata per motivi di infermità e decesso delle sorelle Carù , rispettivamente moglie, madre e zia del monumentale, barbuto Paolo.
 

La scena è fra Carù libri e Carù dischi, in mezzo a due file di macchine che coprono in parte la visuale a chi esce dalla libreria. Nel caso attuale sono io che grido “basta, basta, chiamiamo la polizia, fermatevi subito o chiamo la polizia” ecc., con voce stridula standard di donna che sbraita senza capire bene ciò che accade, senza essere certa di aver pagato il giornale mentre lo sta infilando nella borsa. Urla. Insulti. Tre che si stanno picchiando, sembra  di brutto, sembrano in due contro uno. Giovani ovviamente, maschi. Gente intorno, ferma, muta che guarda. Gente intorno? Perché nessuno fa qualcosa, perché non reagiscono minimamente al mio appello semiisterico reiterato per l’intervento della polizia? Tutti vigliacchi? Guardoni? Non sono più di sei o sette, ma come diavolo è fatta questa gente? Forse è per questo che mi avvicino: una curiosità perversa di vedere non la violenza, ma quelli che la guardano.
Sì, coloro che si stanno pestando in piazza Garibaldi sono due contro uno, due con i cappelli scuri corti  fissati dal gel in acconciature simil-riccio, fisici lievemente palestrati dentro magliette quasi aderenti con scritte americane e blue-jeans. L’altro è rapato quasi a zero, nero fino alle scarpe, ma con un rotolo di cotica bianco-rosa che gli spunta da sopra alla cintura mentre cerca di fuggire dalla morsa al collo di uno e dai cazzotti e calci dell’altro che insieme cercano di metterlo giù. Quando l’avranno a terra, lo massacreranno.
 

Risale a oltre venticinque anni fa, l’unico precedente cui assistetti: due tizi e una ragazza salirono in metropolitana e senza causa apparente si misero a riempire di pugni un ragazzo seduto per conto suo. Avvenne la sera tardi, in un vagone semivuoto, e nessuno degli altri passeggeri fece qualcosa, nessuno si mosse dal suo posto. Fu la ragazza dei picchiatori a gridare “it’s enough”, ottenendo che circa alla terza fermata scendessero tutti dal treno. Neanche allora, se ricordo bene, qualcuno si mosse per assistere il ragazzo malmenato, anche se, bisogna dire, non mostrava segni visibili dell’aggressione. Sembrava uno qualsiasi, vale a dire che non era nero, né paki, né punk, né junkie. Portava soltanto capelli un po’ più lunghi mentre i suoi aggressori li avevo identificati dalle loro teste conciate come quelle del ragazzo preso a pugni in piazza Garibaldi. La parola “skin” non era ancora diffusa globalmente quando tutto questo avvenne, a Londra, quasi trent’anni prima.
 

Quel che sta accadendo qui è molto peggio. Quando cerca di liberarsi, scalciando come un mulo colle ginocchia sollevate, si riesce a vedere la grassa faccia da bambino, il sudore che gli cola dalla fronte e dal collo lordoso, l’interno delle sue labbra mentre grida “basta, mi state ammazzando, non riesco più a respirare”. “Sta zitto, coglione” urlano gli altri due che saranno più anziani di almeno cinque-sei anni, ma quello continua “non respiro, non respiro, mi state ammazzando”, tutto sgolandosi nonostante l’asfissia, tutto da capo, tutto tranne “aiuto!”.
Al pubblico si è aggiunta qualche altra persona, fermi a distanza adeguata, rilassati nella postura, scambiano a bassa voce poche frasi a cominciare dalla domanda “scusi, cos’è successo?”
“Hanno scippato una signora in Piazza Risorgimento”.
“Ah. E la borsa sono riuscita a riprendersela?”
 Non si vedono borse per terra. C’è invece un casco che rotolato in prossimità delle ruote di una macchina ricorda una testa mozzata.
“No, cercavano di strapparle l’orologio, ma non ci sono riusciti.”
“Menomale. Chissà come dev’essersi spaventata, poverina”.
“La stanno accompagnando quaggiù in farmacia.”
“Erano in due: l’altro è riuscito a scappare col motorino, mentre a questo qui gli sono corsi dietro e l’hanno beccato”.
 

Lo scippatore ormai è a terra, in ginocchio, spinto in giù colle braccia immobilizzate. Non lo prenderanno a pedate in faccia, questo ormai è chiaro, lo terranno solo così, in questa posizione da sedia a sdraio massimamente abbassata. Compaiono una serie di telefonini, persino uno degli inseguitori riesce ad estrarre il suo. Viene chiamata la polizia, si comincia ad aspettarla. Le voci salgono di tono, si fanno più indaffarate. Ci si trasmette la notizia, si fa il punto della situazione, il riassunto. Tentato scippo di orologio in piazza Risorgimento, due col motorino, uno preso, l’altro scappato, più una Audi nera targata Napoli. Rimbalzano le voci sull’automobile  – un’Audi nera, un’Audi nera- senza diventare comprensibili. Certo è napoletano il ladro che da quando è stato privato dalla facoltà di muoversi è anche muto. Ma prima, quando urlava, appellandosi non si capisce se ai suoi persecutori o agli astanti e alla loro pietà, quando inutilmente, forse istintivamente aveva fatto la sua sceneggiata napoletana l’accento era inconfondibile.
Non è fra i primi arrivati, veste un tailleur pantalone avorio adatto sia alla prima giornata primaverile, sia al suo classico biondo con le méches, grida, ma non troppo, con una vocina neanche tanto sgradevole, abbassando la testa verso l’oggetto dei suoi insulti. Gli altri la lasciano gridare, tranquilli, senza darle manforte né distoglierla, non commentano nemmeno. Parlano tanto solo quelli al cellulare come il signore ondulato col vestito grigio e la cravatta gialla a pois, questo che si vede spesso in giro e potrebbe essere un politico della giunta guidata da Forza Italia.
 

“Coglione dicci dove sono gli altri, sarà meglio che ci dici dove sono gli altri, chi sono i tuoi compagni o saranno guai per te, hai capito coglione!”
“Ho un bambino, signora”..
“Non me ne frega niente, capito!”
“Ho un bambino, signora”.
“Lascia perdere, cretino!”
 

L’ha detto, l’ha ripetuto senza enfasi, come un ultimo tentativo quasi formale. Poteva risparmiarselo. Chi gli crede se appena lo guarda in faccia, quel suo viso rosso cicciotto da ragazzino. Sì, è un coglione. Se fosse vero che ha un figlio, coglione doppiamente, magari zingaro. Che cosa ci è venuto a fare a Gallarate, voler scippare addirittura orologi con tutta la trippa che si ritrova addosso? Sembra che mandino su i più scarsi, gli apprendisti scemi.
 

Dopo circa cinque minuti arriva la polizia. Scendono con tutta tranquillità, parlano con i catturatori che rovesciano su un fianco la loro preda ormai rassegnata in modo che la si possa ammanettare. Escoriazione dal gomito al polso. Maglietta nera che scende da una spalla quando lo si tira in piedi: un Murillo sfatto dal fast-food autoctono giù a casa, in trasferta quello globalizzato. Resta così, accanto alla volante per tutto il tempo che i poliziotti stanno a raccogliere ogni pezzo utile o inutile di testimonianza. Poi si ricordano che è lì. Lo spingono nel retro della macchina, chiudono le porte e continuano a parlare. Sembra il momento più bello, sembra che nessuno abbia fretta di andare via. Arrivano pure i carabinieri, mentre una macchina dei vigili passa, si ferma a chiedere e riparte. Troppa grazia.
Polizia, Carabinieri, i nostri bravi ragazzi che l’hanno inseguito e fermato, la cittadinanza disposta a collaborare. Per una sola chiavica di ladruncolo chiattone che suda in testa come un porco, minorenne quasi di sicuro. Sarebbe inconcepibile altrimenti un tale ammasso di fesseria, verrebbe da riferire a R.S. Magari poi, quando questo se ne torna giù, capace pure che si vanti che sono venuti a prenderlo gli sbirri e pure le guardie come se fosse un pezzo grosso, ‘sti deficienti su al Nord. Vorrei chiedere a R.S. se mi conferma questa ipotesi e intanto mi accorgo, in ritardo forse persino sui guardoni più distratti, di una cosa che dovevo capire subito. Anche i ragazzi coi capelli da istrice appartengono alle forze dell’ordine, probabilmente all’arma dei carabinieri perché uno ripete “vabbe’, allora lo portiamo direttamente da noi a Busto”, facendo la spola fra le due vetture. Infine noto un fatto che pare incredibile non abbia colto prima: anche i carabinieri in libera uscita hanno inflessioni meridionali, uno dei due quasi al cento per cento campana.
Importazione di guardie e ladri in terra padana, direi a R.S.  Va ancora di lusso se le rotte d’immigrazione li portano soltanto fino a qui. Possono tornare giù anche le guardie durante i permessi e nelle feste raccomandate, vantarsi anche loro che quando acchiappano uno scippatore da queste parti le ragazze bionde del luogo si fermano a guardare. Invece non ce n’è neanche una mora.
 

Da queste parti negli ultimi anni hanno sgominato una cellula terroristica legata a Bin Laden, bruciato vivo un operaio rumeno, scoperto nei boschi le vittime rituali delle Bestie di Satana, arrestato un padre che ha ammazzato la ex-moglie e due figli, fermato in ritardo una battaglia fra albanesi e pugliesi per una ragazza il cui fidanzato è rimasto ucciso. Dal terrazzo di casa mia ho sentito litigi notturni e principi di risse davanti al “Buddha Bar”, ma tutto questo, dico a R.S. quando lo chiamo prima di rientrare, non me lo sarei immaginato. E’ troppo assurdo, anzi no: troppo banale. Un incidente idiota, non si può fare altro che gonfiarlo con un minimo di menzogna, trovarci un qualche modo per metterlo in scena, altrimenti non è neanche una storia, epica men che meno.
 

R.S. mi ha spiegato al telefono che giù una cosa del genere difficilmente sarebbe potuta accadere e non per le ragioni che penso io, ma perché in molte zone lo scippo è strettamente vietato, pena anche la morte.
“La morte?”
“Se il capozona ha l’ordine di assicurare che non accadano scippi e robe simili, chi trasgredisce, lo tolgono di mezzo”.
“Vuoi dire che l’ammazzano? E un ragazzino, che ne so, che sfila il portafoglio dalla borsa, ammazzano pure quello?
“Può capitare.”
“Ah…”
“…”
“Ma, scusami, giù da voi dov’è che questi vanno a rubare?”
“Beh insomma, da qualche parte è consentito.”
“Tipo?”
“Tipo, ma non ovunque, in centro. No assolutamente nei quartieri più fetenti, quelli più militarizzati.”
“Se non ti uccidono per sbaglio, vivi sicuro come in Svizzera?
“Esatto”.
 

“Cosa è successo”, vuole sapere una mamma che conosco con la macchina appena parcheggiata in piazza Garibaldi. Glielo dico.
“Gli sta bene”, ripete, “gli sta bene: non mi fa neanche un po’di pena, no?”
Le rispondo con un cenno vago e proseguo.
 

Solo ora mi accorgo, rievocando il forte accento spagnolo della madre parcheggiata in piazza che trascrivendo le sue parole va perduto, che tutta la scena, ogni commento, urlo, insulto da parte di ciascuno dei presenti, si era svolto in lingua.
 

Viva l’Italia, Viva Garibaldi provarono a gridare i congiurati riuniti dal dottor Giuseppe Castelli nell’attuale Farmacia Dahò.
Il fratello del farmacista, l’avvocato Pompeo Castelli, il 20 marzo 1848 prese il comando di un gruppo di patrioti e, giungendo da Cardano, mise in fuga un contingente croato di stanza a Gallarate. Alla sera di quella stessa giornata raggiunse Milano dove si sarebbe distinto sulle barricate. Quando stavano per concludersi le Cinque Giornate, il curato Frippo riunì cinquanta volontari che partirono per difendere Milano, mentre i restanti patrioti gallaratesi si costituirono in Guardia Civile.
Caduta Milano, Pompeo Castelli fu costretto ad emigrare, ma il figlio diciassettenne di suo fratello, Guglielmo, nel giugno del 1859 partì come volontario garibaldino e nella battaglia di Monte Suello riportò ferite consistenti.
Fra quelli che dal 1847 al 1859 si ritrovarono nel retro della farmacia, c’erano i dottori Gaspare Rigoli, Enrico Mazzucchelli, Ercole Ferrario, gli avvocati Giuseppe Trombini, Achille Mazzucchelli, Francesco Piceni e suo figlio Cesare, l’ing. Giovanni Borgomaneri, l’insegnante Angelo Curioni, il pretore Gerolamo Cordoni, l’abate Francesco Bonomi, il curato Giovanni Frippo, don Giovanni Tenconi, fondatore dell’omonimo collegio, e più tardi don Achille Cadolini e don Andrea Trombini.
 
Oggi sono nomi dello stradario, titolari di circonvallazioni semiperiferiche e stradine centrali di second’ordine come quella Via Trombini intestata a un prete o a un avvocato in cui stavo tornando io.  
 

Non c’era nessuno in casa.
pubblicato sul numero 33, gennaio-marzo 2006 di “Nuovi Argomenti”

Print Friendly, PDF & Email

6 Commenti

  1. Bello. Questo testo mi coinvolge anche a livello personale perché mi evoca ricordi: nei primi anni Settanta, credo proprio nel 1970, eravamo un gruppetto di ragazzini totalmente fusi per la musica anglo-americana che venivano a Gallarate, da un paesino vicino a Ravenna, nel negozio di Carù, che importava direttamente dischi particolari, introvabili nei negozi di Bologna. Carù era sempre ultrainformato, e ci proponeva queste rarità che noi compravamo a scatola chiusa (spendendo le paghette di settimane e mesi). Poi Carù, prima del Buscadero, ha sponsorizzato credo la prima “fanzine” italiana ciclostilata, che si chiamava “Freak”, ed era scritta da un torrenziale Riccardo Bertoncelli. E’ forte quindi per me leggere questo racconto, dove c’è l’atmosfera tranquilla di Gallarate, anche se probabilmente “mutata”, su cui incombe l’evento violento, descritto con ottima vivacità anche visiva e acustica.

  2. deciderà Helena se quanto segue è OT o mmerita un Post:

    UN INTELLETTUALE

    *Noi oggi non sappiamo ancora se e come avverrà un processo reale contro Mussolini; la guerra di liberazione è forse avviata verso la sua fase conclusiva e si avvicina inevitabile l’ora della resa dei conti. Il giudizio del popolo contro Mussolini è già stato pronunciato e non importerà molto se la sua esecuzione avverrà in forme legali o non legali. Ma Mussolini non è un individuo isolato nella storia dell’ultimo ventennio; intorno a lui si sono mossi molti uomini rivestiti di alte responsabilità e che hanno in mille maniere aiutato la sua opera astuta e tenace. Sicché il fascismo si può ben definire il prodotto della collaborazione di tutti costoro, la coalizione di tutte le forze conservatrici e reazionarie. Ecco perché non si tratta di restaurare la situazione precedente il fascismo, da cui esso sorse per necessità storica, ma di piantare più solidamente la democrazia in Italia, di fare davvero una rivoluzione non a parole, ma a fatti. Altrimenti potremmo anche giungere a uccidere Mussolini, ma non avremo ucciso il fascismo. E se non svolgeremo questo processo ora, a fondo, inevitabilmente dovremo svolgerlo di qui a pochi anni, quando il fascismo sarà sotto altre forme rinato.*
    Cassius, “Il processo Mussolini”, La Fiaccola ed., Milano, febbraio 1945, introd.

    Gigi Speroni, decano dei giornalisti milanesi, possiede una copia del pamphlet, ed è giunto alle seguenti conclusioni:
    1- La fiaccola era una microcasa ed. legata/emanata da Giustizia e Libertà (che a simbolo ha una fiaccola appunto), il movimento da cui si originò il Partito d’Azione.
    2- La tipografia clandestina milanese, situata in via Piero della Francesca, era gestita di notte da Procopio, nome di battaglia di Mario Dal Pra, sul quale pendeva una condanna a 18 anni di reclusione per attività clandestina (e che per tale motivo era fuggito dalla sua Vicenza).
    3- Procopio è il Cassius autore del pamphlet.
    Come si può notare, la 3- è azzardata, per quanto plausibile. Stamane ci siamo accordati per procedere a una verifica, che si articolerà su due momenti:
    1- domattina al Fondo Dal Pra vedrò se c’è una copia de “Il processo Mussolini”, a conferma della paternità
    2- in caso negativo, o comunque, procederò a un’analisi interna del testo, sui riscontri eventuali con la produzione contemporanea del presunto autore (il quale di giorno in quel periodo curava le Sententiae di Abelardo).

    Dario Borso

  3. Sconsiglio a Silvio di aggirarsi oggi nei paraggi di piazzale Loreto, anche perchè a testa in giu’ gli si staccarebbe la ricrescita.
    Colgo l’occasione, che non è un fiore reciso, per augurarvi di cuore una buona liberazione, accompagnata come si conviene da dilatazione miocardica.
    Lasciamoci avvolgere dall’abbraccio intenso della folla in Partecipazione.
    Ciao

    Magda

  4. antropologie complesse di un paese troppo allungato, dove la testa e la coda finiscono ciclicamente per diventare estranee e lo spazio conta troppo, per differenza.

  5. Antropologie complesse di un paese troppo allungato, dove la testa e la coda finiscono ciclicamente per diventare estranee e lo spazio conta troppo, per differenza.
    Il racconto è vivido.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Di quale “cancel culture” si parla in Italia?

di Bruno Montesano e Jacopo Pallagrosi
Negli Stati Uniti, a un anno da Capitol Hill, si continua a parlare di guerra civile. Questa è la dimensione materiale della cosiddetta...

L’orso di Calarsi

di Claudio Conti
«Da una parte l’Impero ottomano, dall’altra la Valacchia. In mezzo il Danubio, nero e immenso». Lara è sul fianco e ruota la testa all’indietro, verso Adrian. Rimane così per un po’, con la reminiscenza del suo profilo a sfumare sul cuscino.

Amicizia, ricerca, trauma: leggere Elena Ferrante nel contesto globale

L'opera dell'autrice che ha messo al centro l'amicizia femminile è stata anche veicolo di amicizia tra le studiose. Tiziana de Rogatis, Stiliana Milkova e Kathrin Wehling-Giorgi, le curatrici del volume speciale Elena Ferrante in A Global Context ...

Dentro o fuori

di Daniele Muriano
Un uomo faticava a sollevarsi dal letto. Un amico gli suggerì di dimenticarsi la stanza, la finestra, anche il letto – tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno.

Un selvaggio che sa diventare uomo

di Domenico Talia Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia...

Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini

di Antonella Bragagna La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata (Voltaire) Isabella Salerno è una mia vicina di...
helena janeczek
helena janeczek
Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: