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L’orgia vitale del Waits italiano

capossela.bmp di Armando Trivellini

Nessun musicista possiede, quanto Vinicio Capossela, un immaginario e un’estetica così vicini al mondo surreale, frantumato e anarchico del Medicine Show. Il suo universo è da sempre popolato di figure sfrenate e paradossali, ereditate da sfere d’invenzione che attraversano almeno due secoli.  L’inventiva di questo musicista unisce idealmente le fascinazioni dei romanzi di Jules Verne  alle balere della riviera romagnola, passando senza soluzione di continuità dalla sporcizia dei parcheggi notturni all’odore di legno e polvere dei depositi di pianoforti abbandonati, inondati di luce mitteleuropea. Palombari, alambicchi, rivoli d’alcol, stive di navi, balene, marajà, elisir e donne dalla carne dolce che danzano nelle notti di provincia animano da sempre i testi delle sue canzoni. La sua musica  affonda  le radici in un misto che va dall’amore sconsiderato per Tom Waits (nelle due forme, quella vecchia bluesy e quella più sperimentale, senza distinzione) alla musica tradizionale balcanica, passando dalle canzonette italiane del primo Novecento attraverso il mambo, la rumba, il cha-cha-cha o le ballate più melodiche di piano e voce.
Capossela ha portato all’inizio degli anni ‘90, in un panorama discografico che si avvicinava sempre più all’elettronica e alla rarefazione, un’invasione irrefrenabile di elementi tradizionali rielaborati. E l’impatto è stato così forte da far apparire la sua musica molto più innovativa di qualsiasi altra forma di sedicente sperimentazione. Capossela spesso lavora per mimesi satirica. La rielaborazione dei suoi archetipi sonori avviene più o meno consapevolmente attraverso una messa in scena simbolica, farsesca, vaudevilliana – alla Medicine Show di fine Ottocento – come se lo sciamano italiano nato ad Hannover non credesse fino in fondo alla serietà del messaggio musicale in sé ma si affidasse totalmente alla purezza dell’esecuzione.
Dopo il successo dello strepitoso Canzoni a manovella, uscito 5 anni fa, questo nuovo Ovunque proteggi aveva il problema di eguagliarne il livello tecnico ed artistico. E Vinicio ci ha spiazzati di nuovo, inventandosi un album così stratificato da sembrare cervellotico ma allo stesso tempo così immediato da suonare semplice. Il primo ascolto è stralunante. E’ roba così particolare da far pensare per un attimo che Capossela questa volta ci stia prendendo in giro, esagerando in stranezze per supplire a una qualche mancanza di ispirazione. Ma si cambia subito idea, perché la voglia di risentire subito quello che non si è del tutto capito è irrefrenabile. Di ispirazione, alla fine si intuirà, ce n’è anche troppa. Già dal secondo ascolto è impossibile non farsi rapire dal loop biblico e diabolico di Non trattare, cantilenante e ipnotica, dalla filastrocca tenera ed esilarante di Dalla parte di Spessotto, dall’andamento languido e femminile di Medusa cha cha cha e dal doppio senso ossessivo di Brucia Troia. Per tutto il disco strumenti tradizionali o inventati (con lo zampino di Gak Sato, Marc Ribot, Ares Tavolazzi, Roy Paci, Mario Brunello e Stefano Nanni) si rincorrono producendo poesie, lamenti, marcette, finti inni, ritmiche surreali e il risultato è soprattutto bellezza. Una bellezza strana e nuova, che si nutre delle atmosfere e dei luoghi in cui il disco è stato registrato: con un impianto itinerante Vinicio ha registrato quasi ogni pezzo in un luogo particolare: una grotta in Sardegna (insieme ai tenores sardi), Milano, Roma, Treviso, Rubiera, Scordia, Calitri, Scansiano. E, strano a dirsi, in mezzo a tutte queste recite surreali e alla struggente bellezza di alcune di queste composizioni, quello che emerge alla fine è una strana sensazione di sacralità. Una sacralità nuova, ovviamente, che non ha nulla in comune con quella ufficiale (di cui pure si nutre), ma che assomiglia di più a un rito inventato a tavolino da uno stregone pazzoide per celebrare, sempre e comunque, la forza orgiastica della Vita, di cui vengono esaltati gli elementi più reconditi e meno usuali.
Non sono d’accordo con chi trova le ballate al pianoforte (Pena de l’alma, Lanterne Rosse e Ovunque proteggi) meno riuscite delle altre composizioni dell’album. La funzione di queste tracce è fondamentale, perché danno respiro in mezzo ai colpi di genio e alle astrazioni degli altri pezzi senza interrompere il flusso lirico generale del disco. Ancora una volta si intuisce la grande capacità di Vinicio nel rielaboarre i suoi fantasmi e i suoi miti musicali, creando una dinamica molto saggia all’interno di tutto il lavoro. Dopo due prove di fila così significative, Vinicio Capossela dimostra di essere senza mezzi termini il musicista italiano più importante di questo inizio di secolo. In un momento così non gli si può dire nient’altro che grazie.

[questo ed altro sul nuovo, rutilante, ciarlatanesco numero di Medicine Show, scaricabile qui] 

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24 Commenti

  1. Una bellissima recensione per un bellissimo disco di uno dei pochissimi grandi artisti sulla scena attualmente. Un musicista vero, che teme pochi confronti, in assoluto. E non solo in Italia.

  2. condivido l’entusiasmo del recensore. peccato per il titolo (se è uno è un grande artista, è un grande artista e basta, non la traduzione di un altro)

  3. (Sto ascoltando Capossela proprio in questo momento. E sì, il titolo non piace neppure a me, ma non è mio.)

  4. Il titolo non è neanche mio, ma del Leo, padre-padrone di Medicine Show, che l’ha probabilmente inventato in stato catalettico dopo un involtino alla romana del Caminetto, suo (e, per quanto riguarda Roma, mio) ristorante preferito.
    Ormai ho smesso di arrabbiarmi, per questi piccoli golpe del Nostro…
    Un giorno però ho letto un articolo di Vinicio Capossela che raccontava dell’incontro in ascensore con Tom Waits, e vi assicuro che il grande musico non si arrabbierà per il titolo.

  5. Va bene. Vorrà dire che, come punizione, ci faremo pagare un pranzo da Leo a Roma in quel ristorantino il prima possibile.
    ;-)

  6. Sono stata di recente al concerto tenutosi allo Smeraldo di Milano ed è stata un’esperienza entusiasmante, come tutti i concerti di Capossela cui ho assistito.
    E’ incredibilmente consolante sapere che c’è in giro lui e le attese, piuttosto lunghe, tra un disco e un altro sono comunque deliziose. Peraltro in quest’ultimo caso bisogna considerare l’intermezzo di “Non si muore tutte le mattine”, uno di quei libri che leggi una volta e riaffiora, a tratti, per mesi…tanto che lo tieni sul comodino più a lungo di altri e ogni tanto vai a ricercare una pagina, una frase.

  7. bella recensione davvero. Per non parlare della straordinaria capacità teatrale! Il concerto al teatro italia di Gallipoli, quest’anno lo ha aperto vestito del saio d’asino e dalla maschera cornuta con “Non trattare”, il microfono sotto la maschera dava un effetto cavernoso e pagano, e l’ambaradan di luci lo faceva simile ad una visione classica latina, bucolica e dionisiaca.
    Potente davvero. Pensavo che avesse più capelli però :)

  8. Capossela o della dissipazione: dissipazione esistenziale, quella che avvolge la sua figura di una mitobiografia già molto echeggiata, ad usum dei suoi fans e che probabilmente lo infastidisce, visto che gran parte dell’anedottica su di lui lo relega nel clichè del borrachon, sempre e a prescindere; capossela o della dissipazione musicale-creativa: non mi viene in mente un altro artista che, dentro ogni album, quasi nessuno escluso, concentri una tale mole di suggestioni, reminescenze, contaminazioni, poesia e liricità che svende volentieri all’incanto, come in una fiera da baraccone col ghigno ciarlatanesco che gli conosciamo; capossela o della dissipazione ‘concertistica’: chi ha visto qualche suo concerto sa a che cosa mi riferisco, al fatto che, sistematicamente, egli sappia (s)travolgere le attese di chi ha pagato il biglietto, reinventandosi in ruoli che hanno come comune denominatore quello della follia e della surrealtà, in perenne bilico tra ubu roi e fellini, tra kusturica e fante, jack la motta de’ noantri, che, nelle due ore di concerto, ci fa affrontare un periplo falotico e surreale, che si sposta da un barrio di buenos aires ad un localaccio del pireo dove suonano musica popolare e poi una morna capoverdina e Belgrado, Europa, bombardata dalla Nato…una volta l’ho visto truccato da albero di natale, perfettamente calato nel ruolo, dimostrando l’incredibile mestizia di questa festa…un’altra volta demiurgo di un reading di rara intensità, intimista e bisbigliante…Tutte le volte temo che muoia sulla scena, come Moliere, ma forse questo è ciò che tenta tutte le volte, fallendo, fortunatamente.

  9. Stasera a grande richiesta c’è una nuova data per chi non vuole perderselo.
    Se in passato ha riecheggiato musicalità ochieggianti a Paolo Conte, Tom Waits, e sonorità dalla malinconia Boudleriana, in questo album, davvero assurge ad una perfezione stilistica insuperabile.
    La perfezione perchè raggiunge quello che negli ultimi dici anni ha inseguito pulsionalmente, ha ricercato sperimentalmente, ha ottenuto superando i suoi registri estetici: il suo stile piu’ autentico.
    E’ un album glo.cal che riassume tradizione regionalistica con esperienza esotica e d’oltreconfine, il tutto legato dal nodo focale del minimalismo romatico e vagamente decadente.
    Ma cio’ che piu’ conta è il suo sfiorare con leggerezza e candore gli abissi piu’ profondi della nostra cultura musicale, del miti culturali, delle ancestrali origini archetipiche estetiche.
    Jung sarebbe felice di ascoltarlo.
    Molto attuale e profetico “al colosseo” e “brucia troia” quasi evotivi di stragi barbare liberatorie e catartiche.
    Si vocifera del suo perenne stato delirante direi ampiamente confutato dalla qualità e dalla grandezza della sua anima musicale.
    Grazie Vinicio

  10. io invece dico che la deriva mistica dell’ultimo capossela è a tratti francamente insopportabile – oltre a rappresentare una comoda via d’uscita

  11. “Deriva mistica”?? Nell’ultimo Capossela?? Francamente non me ne sono proprio accorto. E poi, “comoda via d’uscita” da cosa?

  12. dire che caposella è mistico è come dire che David Hume e John Locke sono due paltonici.
    Vinicio fà esattamente il contrario del mistico, trovaquello che noi definiremmo spirituale nella merda di tutti i giorni.
    Sempre sottotono, sottotraccia e spartanamente.
    Di mistico nei naufragati non ci trovo assolutamente nulla, piuttosto la disperazione della vita che volge in morte.

  13. dire che caposella è mistico è come dire che David Hume e John Locke sono due platonici.
    Vinicio fà esattamente il contrario del mistico, trova quello che noi definiremmo spirituale nella merda di tutti i giorni.
    Sempre sottotono, sottotraccia e spartanamente.
    Di mistico nei naufragati non ci trovo assolutamente nulla, piuttosto la disperazione della vita che volge in morte.

  14. Dimenticavo di sottolineare le grandi e grezze doti teatrali, già in fieri nei testi cosi densi di dinamicità da esplodere sul palcoscenico in metamorfosi e mimesi gestuali ed espressive degne del giullare tragicomico della moderna corte dei miracoli, quale è la nostra cultura.
    In questo senso Vinicio è un “miracolato” nella sua doplice accezione che riassume nella contraddizione del senso doppiamente inteso, la camaleonticità dell’inquietudine esistenziale e musicale.

    stendere una recensione migliore se la casa discografica mi pagasse.

  15. La mistica, mi pare, c’è eccome, ma non è la mistica trascendente a cui siamo avezzi. E’ una mistica immanente; il divino, se c’è, è nel reale materiale, dalla parte di Spessotto.

  16. è nato il 14 dicembre quindi è saggitario.
    Nella simbologia astrologica è noto essere metà uomo e metà animale, cosa che connota il nativo di particolari doti di istintualità e capacità d’adattamento.
    Inoltre i sagittari sono nomadi, amanti dell’avventura ed eterni viaggiatori sia fisicamente che metaforicamente. Infedeli e senza radici.
    spesso sono uomini-camper ovvero mai stanziali ma sempre in movimento.
    Difficile che abbiano una reperibilità certa, molto spesso la residenza e il domicilio non coincidono quasi mai.
    zingari zoomorfi sentono e fiutano l’odore degli eventi.
    Che coincidenza che abbia rappresentato se’ stesso come animale! asino, caprone e chissà cos’altro.
    Bene anche oggi una piccola conferma tra leggenda e realtà.

  17. E comunque “Ovunque proteggi”, se proprio deve ricordarmi un artista straniero, mi ricorda i Mr. Bungle.

  18. Una volta certificata l’indubbia qualità dell’artista, rarissima nei tempi che viviamo, non si può però tacere la dipendenza estensiva e vocale del nostro da voci e tempre già emerse. Non fosse che, in questo ultimo disco, disco del bum, spesso la complessità rimanga larvata ed appesantita da toni biblici, che francamente tolgono aria, Capossela arriverebbe a toccare il cielo, abbandonando il passo dissipato e tenero, concentrandosi, invece, sull’ aria euforica.
    Ci si chiede: a cosa la necessità di sporcare la cifra stilistica è dovuta? e se fosse incappato in un abbaglio retorico luminescente?

  19. Puo’ darsi, puo’ darsi…..
    pero’ c’è continuità nella sua cifra stilistica; mi auguro che una volta portata a maturazione, il bruco Waits italiano diventi farfalla Vinicio, emancipandosi dall’iniziale mimetismo.

  20. Capossela è vertiginoso solo per la sopravvalutazione in cui è incorso: là si trova il foraggio in cui bisogna reperire tutta la sua operazione, non nella sua musica che è una furbata alla vaccinara. E poi dico io! Magari fosse realmente contaminato ( da bataille per sua disgrazia no di sicuro ), in realtà è cont-aninimato, nel senso che computa da scaltro publisher quale egli è le anime disperate per in-festarle della sua mortifera vena di tutto.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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