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Un intervento violento


Tre divagazioni senza apparente luogo né sinossi su scrittura, lettura e geografia letteraria

di Michelangelo Zizzi

zizzi.jpg

Io desidero un’apocalissi più svelta.”
M. Parente

“Là portami Sofia
in quella terra che pare medicea
o forse ancora del pleistocene.
Là senza i profitti dei dizionari.
Senza quelle volture esatte
per dire o non dire
entrare o non entrare. […]”

L’esatta sintassi della grammatica da scuola elementare di maestra della neve di fuori qui in murge come ossari che fa un ordine di filari di tombe in bianco avanzo o coperte di gelido freezer sugli avanzi dell’inverno mi dispone alla dissequenza, frastagliamento dell’immagine. Ma per contrasto delle forme perse, sepolte, giacché quel che si vede è monotono, monocromo.
Dissequenza, ma quanto poi sono lontano dalla congruità?

Il punto finale di queste brevi, sgretolate riflessioni è infatti un luogo. Ed è esatto. Un fondo nel sacco. In una città ustionata nella pentola d’estate e sbollita nei crepacci di secco barocco bodiniano che ‘si sbuccia come una banana’ che s’incrosta nelle fritture fredde d’inverno, nel passo alternante, ubiquo, perenne di poeti, scrittori che viaggiano vagano vaporano dalla piazza del Duomo al fondo. Fondo Verri. A Lecce. Dove (per natura sono immaginifico) spesso la scrittura si produce. E a volte, mi è parso, con un tono esatto. Non essendo lontano da una riflessione sul ritmo e sulla geografia (ma le due cose si compendiano al Caffè Paisiello) torno alle camere separate, ai cilindri in gemellaggio del motore dialettico. All’apparente distopia.

Della scrittura e dell’anagogia

I miei saggi su ‘I principi di verità e la letteratura’ scritti tra le nuvole, pubblicati nel punto di condensa degli intestini trasparenti delle storte, degli alambicchi sinuosi e curvi (lo spettacolo è come se un bambino appollaiato al vetro vedesse scendere ghiaccioli dall’alto in bufe silenti di nevi o coriandoli che si ammucchiano in salse acquose a marciapiedi), meditati negli intervalli tra un treno e l’altro, tra un’entrata nelle spire di pagine di un romanzo bellissimo (La macinatrice, o Perceber) e l’uscita di servizio, d’emergenza, dalle pagine di un altro (chessò, il loro numero è abominevole, ma faccio uno o due esempi a caso ma accumulativi: l’inutile Fandango di Baricco o gli scrittini di Christian Raimo), i miei saggi dicevo partono da una riflessione (che mi pare unica, isolata e fastosa come l’intento di una guerra silenziosa che un imperatore invisibile abbia un giorno proclamato e alla quale partecipano tutti gli scrittori, tutti gli uomini del mondo, ma senza accorgersene. O quasi) che è contenuta nel Convivio di Dante.
Il senso ‘anagogico’.
Per il quale la letteratura, meglio la scrittura possederebbe (se è scrittura e non eco, inappartenenza, produzione involontaria) un’AZIONE. Produrrebbe insomma un effetto.

Il quale poi non è, o non sarebbe, solo quello sul lettore, ché ad esso rimane nulla di più che una suggestione, un emozione o tuttalpiù un nutrimento, un enzima per la fertilizzazione di altri ‘spazi letterari’. Il senso anagogico è molto di più. La sua direzione è oltrepassare l’effetto sul tempo, il suo effetto è oltrepassare la direzione della scrittura. Sorpassare quello che nel Novecento (un secolo che non possiamo troppo presto archiviare solo per eccesso di risonanza ecolalica) è stato definito ‘rete semiologica’ (formalisti, strutturalisti e infiniti linguisti: il numero di essi è così inenumerabile che ne facciamo un insieme, un insieme infinito), qualcosa che si produce anche solo per ‘Ars combinatoria’, o intreccio ludico (Calvino, ma non solo).
Va da sé che il problema dell’anagogia include quello di genialità (così tanto sgradito alla maggioranza dei critici ectoplasmatici, dei figuranti polemici, dei massmediologi massivi, dei sociologi socievoli, dei postmodernisti all’acqua di rosa, dei blogger che vivono solo nell’immateriale rete per 24 ore su 24, anche quando dormono sonni inquieti) e/o, ‘mutatis mutandis’, quello della scrittura celeste (anche in questo caso, per benigna ventura, il numero è quasi infinito, ma minore che nel caso degli scrittori inutili. Faccio solo qualche esempio: Faraoni, scribi degli dei, Eraclito, Porfirio, Apuleio, Petronio, Arnaldo da Villanova, Bruno, Francesco Colonna, Rabelais, Gogol, Manganelli, Gadda, Proust, Moresco, Borges, Pinchon, Mccarthy, D’Arrigo, Bene, Roberto Calasso).
Va da sé che se è il mondo a trasformarsi la scrittura anagogica oltrepassa anche le ‘discendevoli’ capacità di organizzazione della forma dal ‘di fuori’, oltrepassa l’idea della lingua come di uno strumento, di un fine, di una cosa, oltrepassa la pretesa di fare delle scienze cognitive la base della conoscenza, va da sé che il rapporto soggetto – oggetto si deve situare in uno spazio allotrio rispetto a quello dell’ebreo Galileo, va da sé che la psicanalisi ‘va in culo’, lo storicismo diventa una favola, le immagini di distruzione diventano beneaguranti, la resistenza alla morte (canone dell’Occidente) inutile, e l’essenza o la scienza delle trasformazioni l’unica cosa che rimane.
Sono forse vago?

Sulla lettura o del realismo o del romanzo o del capolavoro.

Nella mia brevità inconcepibile e concitata (avrei bisogno di tremila pagine per spiegare quello che ho appena detto nel modo che il sociologo socievole, il blogger perenne, eccetera, potrebbero definire ‘accettabile’) passo ad altro luogo.
Impostiamo il problema violentemente. Così: il lettore (oltre al ‘lector in fabula’ echiano, ecolalico) deve essere catturato per espiarsi (risolversi).
Non mi riferisco all’accademia dell’espiare, alle pagine di un Aristotele (padre d’ogni tecnocrate) troppo meditante che ci insegna in un codice poi infinitamente copiato cos’è la catarsi, non mi riferisco alla crudeltà di Artaud.
In questo luogo o stato non c’è inferenza della psiche, nessuna teoria del bene e del male, nessuna necessità di violentare lo spettacolo.
Il problema è ancora una volta, se lo si vuol comprendere, quello del capolavoro. Del genio e della sua non traducibilità. Catturare in questo caso significa aver fatto agire la scrittura oltre, prima e dopo il suo tracciato di prevedibilità. La cattura che esiste solo per lo scrittore anagogico e neanche per il lettore, ha il suo corrispettivo nell’esercizio di stile all’interno dell’evidenza materiale dell’opera, e nell’esercizio della facoltà dello stile all’interno della vita dello scrittore.
Vita che si prospetta a questo punto come capolavoro.

Se si è eliminata ogni reticenza a dire o non dire, dichiarare o meno, se si è abolita ogni falsa coscienza dell’appartenere a questa o a quell’altra visione del mondo, se la visione del mondo è uno stato al quale ‘solamente’ si appartiene, dal di dentro e non nel regno delle asserzioni esterne, va da sé che ‘si è quello stato, quella azione’.
Lo spazio di questa scrittura è sterminato e proprio per questo la cattura avviene nel suo luogo impossibile. Nel deserto direbbe Bene.
Siamo oltre il linguaggio. Sociale, familiare, d’appartenenza misera e umana, fuori dalla sociologia della cultura, come fuori da ogni riparo dell’appartenenza codificata dal mondo esterno, dalle sue targhe, semiosi, immagini, indicatori.
Pertanto la questione è: riformulare, riconfigurare l’appartenenza. E anche al costo di diventar oscuro (ma questo discorso non è, esso stesso, lontano da una prassi, da un’anagogia, come neanche dall’essere un ‘intervento violento’) direi che bisogna ricondursi all’essenza e alla trascendenza. Non mi sto riferendo ad alcun ‘fatto’ teologico, pretesco, santagostiniano.
Sono nel deserto e nella sua aporia. In questo luogo esente dalla sinossi, dalla semiosi, dal senso. Infatti non spiego più di tanto.
Essenza e cattura appaiono come concatenate: entrambe prospettano due orizzonti: liberazione, ma anche rivelazione. Come dire che per ‘essere’ dobbiamo riconoscere i ‘nemici’, riconoscendo allo stesso momento noi stessi. In questo senso, solo in questo intendo la cattura del lettore. Non sto dichiarando nulla infatti, non sto dicendo nulla. Inutile aggiungere che ‘i nemici’ sono anche, soprattutto, gli effetti che intervengono prima o dopo, che ci distolgono dall’’essere dentro’, cioè ancora una volta essi sono le facili condiscendenze al dover dire, all’eticità (esterna) del discorso.
Se la scrittura si libera come anagogia, se sta agendo, il lettore verrà trasformato, ma non dal senso della scrittura o dalla sua polisemia, bensì dal suo stesso agire (della scrittura), che lo trasformerà non narratologicamente, non emeneuticamente, ma ‘realmente’.
Si tratta per gli scrittori di non sentirsi nella letteratura, per i lettori di non sentirsi nella lettura. Cioè nel codice, nella ripetizione, nel già detto. Si tratta di far agire. ‘Far’ agire, neanche farsi agire.
Innesto a questo punto una riflessione sul realismo, che è anche una riflessione per quanto rapida sul postmoderno. Luogo, com’è plausibile, non distante da ciò che stiamo dicendo. Se l’anagogia è un’azione tout court, se la scrittura è l’esercizio di una sperimentazione di uno stato neanche più solo umano, peggio biografico o peggio ancora memoriale (intendo questi luoghi così ‘come sono’, nella ‘loro’ perfetta analogia), se è sperimentazione di una forza, di una potenza che è in sé, non in relazione ad un esercizio (ché sarebbe invece leva, e già quasi solo tecnica), allora tutta la discussione sul realismo deve essere riconfigurata.

Siamo abituati a pensare al realismo come un aspetto della letteratura che riguarda i rapporti tra gli uomini e le cose. Eppure inteso così sarebbe solo una delle tante relazioni ‘minori’ come quelle che si fanno tra gli uomini per accordo reciproco. Insomma al pari di una transazione, di una mediazione, di un contratto che leghi negli aspetti ‘esterni’ due o più cose tra loro. Questa visione del realismo (relazione tra elementi) è forse lontana da psicologismo, ideologia, dietrologia, inventario delle cose da museo, ripetizione, calco dichiarativo che si fa attraverso la conversione ad un principio sociale?
La scrittura ama i deserti invece anche quando lo scrittore vive in una capitale affollata.
Il suo principio se davvero si è emancipato da ogni eco ‘esterna’, se si è trovato nella sua parola iniziale, prelogica, preculturale, se si sta facendo azione, anagogia, è forse per questo meno reale di ciò che chiamiamo reale?
O invece persino più reale, perché fondato ‘autenticamente’ e non soggetto all’isteria del caso?
Insomma il problema del realismo è un problema che assomiglia al segreto di pulcinella. Più che vedere, andare a vedere se lo scrittore e politicamente corretto o scorretto, se sta evocando quel luogo comune o quell’altra, se è buddista o cattolico, dovremmo vedere quanto è grande, dovremmo piuttosto dirci, chiederci quanto la scrittura è capolavoro, opera, quanto ha scavato, quanto sta agendo, catturando, infilandosi oltre ogni intrattenimento da spiaggia, oltre ogni inibizione della buona coscienza del fare il bene, oltre ogni idea del bene. E ovviamente oltre ogni idea del male.
Credo poco ai realismi alla Lukacs, alla durezza delle cose, alle cose e basta.
Non nego che le cose esistano, ma mi sembra poco per la scrittura.

Del Salento.

“Incontrare gli amici di un tempo, i caffè”
C. Bene

Ed eccoci infine ad un luogo che il geometra coadiuvato da strumenti umani può computare. Siamo a Lecce e passeggiamo.
Nel Salento che, per un effetto stabilito nei codici di insensate pulegge cosmiche o invece del tutto casuale, possiede oggi come oggi la più alta densità di scrittori rispetto agli abitanti e anche la più alta densità di talento tra gli scrittori rispetto al loro numero. Ed in particolare al Fondo Verri (dedicato al più che grande e quasi sconosciuto Antonio Verri) questo si avvera. Venite in un crepuscolo di maggio ed entrando al Fondo Verri sarà come entrare nella foresta incantata dove gli orologi di resine scesi negli anni pungenti di aghi di pini si sciolgono, nello specchio di Alice, nella catottromanzia delle possibilità d’incontro col sé, nell’effetto di viaggio che danno le tisane alle erbe, nella proctoscopia della scrittura, nell’aleph che è ben nascosto sotto il legno del palchetto dove si incontrano gli scrittori.
A Lecce ci sono le poetesse più belle e brave d’Italia, i talenti che nessuno legge e che invece sono i poeti, i performer migliori d’Italia (uno come L. Voce dovrebbe reggere loro il microfono come un moccolo), gli attori che senza dirsi d’avanguardia sono tre decenni avanti agli sperimentalisti della decagofonia interdisciplinare in mascherata diurna o notturna, i gelatai migliori d’Italia, le raccolte di feromoni nei cavi di ascelle delle femmine più bone d’Italia, i travestiti, i transessuali più sexy d’Italia, i migliori animatori culturali d’Italia (Mauro Marino).
Tralascio invece la menzione del buco nero: l’Università. Ché saremmo condotti all’ano storto, alla fagocitosi culturale, alla ferita senza rimarginazione, alla paesana esaltazione dei contadini culturali, agli occhi di bue, di secchioni che vi passeggiano in pascoli di foglie di libri ruminati senza metabolismo, al buio di cantine del sottosuolo intellettuale, alla corsia d’ospedale, all’infezione psicotica.

Mi limiterò ai poeti. Tralasciando gli altri: a Lecce (come in ogni luogo quasi perfetto per la vocazione simmetrica di ciò che è capolavoro c’è anche il contrario del talento) è possibile trovare, scovare i seguaci di Nanni Balestrini, di Lello Voce, di Paolo Nori, di Aldo Nove, ecc.
Anch’essi sono innumerevoli, sono i bravi copisti letterari, i lecchini della risalita accademica, quelli che inventano o ribollono l’acqua calda, che scoprono l’America dopo oltre cinquecento anni, e se ne meravigliano.
Mi limiterò ai poeti in questa riflessione distopica, questo ‘intevento violento’ che è il non luogo che porta alla discesa fino a scoprire le radici, il muladhara del genio e che ora si configura come apparente esortazione di un consorzio per il turismo, perché ancora vi dico, vi dico ‘venite a Lecce, venite al Fondo Verri’.
Ecco.

Incontrerete probabilmente Simone Giorgino che vi farà fare un giro in una macchina incantata nella quale ascolterete dalla sua voce irripetibile cd che riproducono tutto il canone poetico dell’Occidente (da Dante a Zizzi), ma se leggerete i suoi versi vi incanterà anche di più, perché sarete circuiti da poesia che non da tregua, che si svolge come canovaccio cantilenante ammantato di endecasillabi strepitosi, portati alla luce direttamente dalla fucina dove le immagini si producono. Eppure Giorgino, salvo qualche ciclostile, fotocopia, è pressoché inedito. Sconosciuto.
Vedrete Carla Saracino che possiede le risorse dell’aristofania, del sorgere come ‘signora’ nel suo sentimento del cosmo, lei che connette nel verso colato dall’alto nascite caldee, sirie, egizie e forse anche presemite, direi sumere. La Saracino che quando passeggia taglia in due le strade, le piazze e che quando scrive parla la lingua dei cieli: percezione della morte e respiro della trascendenza. Ben oltre le preoccupazioni femminili del dover fare la spesa. Diventerà grandissima.
Troverete Ilaria Seclì, lussuriosa e mistica, a metà strada tra la popolana e l’aristocratica essendo entrambe le cose, e quindi perfetta, raffinata e graffiante assieme, che vi tesserà una tela dei ragni che esistono solo nei meridioni: con una bava poetica che cantilena, intrama, scortica, con una lingua che affronta, non evita, accende. Lingua ctonia e materica, ma anche salmodiante, cantante, librante, alta.
Nel vicolo, a sera, mimetizzata con la luce lunare, bianca e notturna, smisuratamente dark ma senza moda, dall’intelligenza che si stimola nei nessi psicosessuali ma oltre la biologia, troverete se siete fortunati Laura Sergio, e penserete che siete a metà strada tra l’aver notato una fanciulla stimolante o un demone che svia. A 21 anni è promettentissima. Possiede la lingua che si autofonda, un verso ipermetaforico, ipermusicale, ridondante quanto dura il talento.
Troverete Angelo Petrelli in qualche bar. Vi offrirà da bere. E’ molto giovane, ma cresce con un ritmo costante, con consistenze vieppiù convincenti a volerlo leggere sin dalle prime prove fino ad oggi. Certo si sente qualche rifrazione d’altri, qualche eco, ma tra breve troverà la sua edificazione. Scommetto su di lui, come già feci in occasione del suo esordio.
Ma se verrete fino al Fondo Verri, dove Mauro Marino, un uomo che a causa della sua efficienza, grandezza, umanità, forse non esiste, vi ospiterà, se vi verrete, troverete in alcune sere, crepuscoli, notti tutti costoro insieme. E non vi sembrerà possibile.
Non vi sembrerà possibile quando vedrete apparire Massimiliano Parente, quando appare in una serata memorabile e fonda un canone della letteratura nel sorpasso ultraorgasmico dello sfondamento nel buco del culo di tutte le cazzate che dicono gli scrittori dell’eco, quando sarete macinati dalla macinatrice, che non è una metafora, non è una figura retorica, un modo di dire, ma proprio la scrittura nel suo momento acmeico.
Se lo show si fa serio, se viene Parente ad infilarsi nella dura legge dei giochi d’ombre cinesi del Fondo, la letteratura, la scrittura diventa un’azzardo più ‘vero’, oltre le pipe di Foucault e le pippe di Nesi. Resta qualcosa che nessuno può più tradurre. Siamo nella scrittura pura. Nella genialità.
Non vi sembrerà possibile quando vedrete venire, comparire Leonardo Colombati, quando compare, Colombati che sembra un buontempone e forse lo è, e lo vedrete comparire con quell’allegria così infrequente per i talenti (ma della quale non difettava Dalì, né Rabelais) e proprio per questo ancora più incredibile, più estremo. Insomma entra e presenta un libro di rara bellezza e ne parla come se fosse solo un oggetto messo in televendita. In queste occasioni il Fondo Verri si trasforma di più, agisce come la scrittura, come la cattura, si produce come se fosse Perceber, città, romanzo impossibile che prima aggrega la semiologia e poi la fa scoppiare come nell’opera che agisce come opera, capolavoro.
Ma la via civica dove il Fondo Verri è situato può spiegare molto. Via S. Maria del Paradiso. Antiche leggende leccesi la vogliono frequentata da fate salentine che rinascono ad ogni plenilunio comparendo nei riflessi argentei delle pozzanghere che raddoppiano il cielo, da fanciulle morte e vive allo stesso momento, ragazze di rara bellezza che si manifestano solo per pochi istanti con la giusta atmosfera e richiamano con la voce non dell’addio ma del riconoscimento e che talvolta danno a chi passeggia un viatico per l’eden terrestre o celeste che sia.
Difficile a credersi, eppure il Fondo Verri esiste ed è così.
Come è vero tutto quel che vi ho detto.
Anche se sono immaginifico.
Anche se sono un po’ feroce e questo è stato un intervento violento.

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86 Commenti

  1. mi dispiace inaugurare in questo modo.
    non riesco nemmeno a finire di leggere l’articolo, non trovo motivi validi per sprecare il tempo in questa maniera. ho conosciuto zizzi in un frangente abbastanza imbarazzante (per lui, anche se il suo atteggiamento era tutt’altro che imbarazzato) e da quel giorno, provando a leggere qualcosa di suo mi sorprendo sempre di più per la maleducazione e l’ignoranza.
    anche qui, infatti…

  2. Caro Michelangelo, a dir poco stupenda la tua trattazione. Inoltre siete fortunati a essere tutti così concentrati, ne parlavo proprio l’altra volta con Angelo via email. Qui a Palermo, purtroppo se ne possono beccare due o tre di queste persone, e la maggior parte è tutta fossilizzata in pseudo associazioni che risembrano più circoli geriatrici in cui per assurto fondamentale la cultura è ancorata ad una questione di età, i giovani vengono denigrati e messi al bando solo per soddisfare le pretese egoistiche altresì egotiche di questi rigurgiti geriatrici che di produzione scritturiale effettiva hanno solo la propria tessera d’invalidità o della pensione.

    Ciao ciao carissimo.

  3. Questa è una marchetta del cazzo. Risparmiateci queste stronzate. Colombati ha parlato fin troppo bene di zizzi sul giornale di paolo b. e ora zizzi lo slingua, facendo finta di odiare gli epigoni. Andate a cagare. Se lo becco io questo zizzi, in uno dei straordinari eventi del quale è protagonista, lo sfascio di cazzotti. Non lo faccio nemmeno muovere. Così smetteranno di dire che è anche violento, quando lo vedranno per terra che grida “mamma, mi ha fatto male”. Un buon poeta non può scrivere di queste cagate. Andate affanculo.

  4. Caro Zizzi, se sei fuori dal senso, sei fuori, ovvero fatto, insomma dis-fatto dal tuo ego troppo gonfio di Nulla per dire qualcosa, una cosa soltanto, di interessante. Se poi, come dici, non stai dicendo nulla, allora siamo alla disonestà esibita con piacevolezza, visto che, in tutta evidenza, stai dicendo, cioè sputi parole dalla tua boccuccia senza peli (ma anche senza lingua), e ogni parola, tu d’accordo o meno, ha sempre un significato, anche se tu non lo vuoi. E anche tu, in aggiunta, sei “nel già detto”, sei nella ripetizione, nel dire plausibile, sei nell’azione che si pasce di sé, nell’azione auto-attorta, che non porta da nessuna parte: perché certamente non lo vuole, ma anche per la sua totale incapacità di cercare se stessi e la via – e dunque, stringi-stringi, la vera poesia. Tra te e una macchina poche differenze. Non è che dici cazzate, anzi; alcune delle tue posizioni sono condivisibili, e in particolare l’idea di una letteratura che gode di sé, del suo modo di disporre i segni nella pagina, del suo pensare e ripensare la disposizione e la scelta degli stessi segni; solo che lo dici tronfio, da unico depositario della verità (e qui siamo di nuovo al senso, che è, come Barthes diceva, una direzione della verità; e dunque il tuo stile smentisce te stesso). Lo dici da mascalzone che non cerca amici, ma solo il proprio “tornaconto” (passami il termine; non intendo comunque un tornaconto di potere o di denaro, ma di posizione sì, di maschera da autore maledetto sì). Potrei esserti amico, ma mi sfuggi, come una serpe; anzi no, come una anguilla che poverella cerca di evitare le reti ma finisce nella brace. Non sei un genio. Sei un poeta interessante, ma non grande. Sei piccolo-piccolo: ti manca la responsabilità, ovvero la capacità di non aggredire l’interlocutore con pose pseudo-altere; sei solo un poeta in posa, direi dunque ben poca cosa; e direi che ciò che uccide il poeta che è in te è il kamikatze che vorresti essere. Peccato, basterebbe un po’ di umiltà …

    Volodja

  5. elogio mi faceva sempre molto ridere, questo intervento invece un po’ sotto tono.. du’ palle.. elogio, che ti sei intristito? vogliamo qualche fuoco d’artificio in più, più sfx, più carne, più sesso, più leoni, più cristiani, più frizzi, più lazzi! sangue! sangue! sangue! sangue!
    fatece ride!

  6. Questa è una risposta a Zizzi non a cazzo, ma meditata. Perché è chiaro che, non lo si è ancora capito?, il Nostro gioca come un gatto feromonico e rupestre a stanare i topi (che siamo noi, gli altri: accademici o scrittori che non gli piacciono, che non siano suoi “amici”), con il gusto d’antan per la provocazione. Questi topi, se sono nervosi e esausti, come qualcuno oggi, e legittimamente, si incazzano. Se invece come me sono calmi, visto il cielo salentino di oggi, visto magari il loro grigiore accademico (direbbe lui), cercano un dialogo.

    Lui se la può permettere, entro certi limiti, la poetica della provocazione, della “rissa” (questa sì, anagogica e performativa: ma sterile assai….), perché è bravo come poeta e perché crede davvero e davvero incarna, nel suo modus vivendi (e questo glielo si deve) le sue idee (d’antan) sulla genialità da rilanciare in letteratura per l’oltrepassamento (d’antan)….

    Ma tra le righe, secondo me, c’è dell’altro. Di questo mi occupo, senza risse (e infatti temo che il mio post cadrà nel vuoto…). Mi aspetto infatti “avanguardie” del “Fondo” con elmi e scudi che macineranno chilometri per arrivare ai confini della nazione indiana, invaderla, difendere il loro guerriero, magari tornando a casa con qualche scalpo…….. O, all’opposto, lucidi fustigatori (benemeriti) di altezzose megalomanie letterarie (o solo esistenziali? o entrambe le cose), che gettano sul palco gli ortaggi.

    Caro Michelangelo,

    è stimolante, per così dire, risponderti e poter comunicare telematicamente (ma non telepaticamente)… Perché questa mia non vuole certo essere una risposta privata, come spero si vedrà. Ma è sintomatico che, e forse accadrà pure per gli altri commenti, a risponderti sia qualcuno che ti conosce (e si firma infatti con il nome, facilmente identificabile: senza il cognome per evitare eccessive personalizzazioni…), e che per questo è alquanto facilitato nell’addentrarsi tra le tue parole (il senso delle tue parole, le loro ombre e i loro molteplici risvolti). In quanto ha presente, senza mitizzarla, la geografia letteraria che tu illustri e dipingi e difendi e rilanci, da riconosciuto discepolo valliano (quel Valli che, da altre sponde, lamenta come sappiamo l’ignoranza profferta dai canoni cimiteriali italiani – settentrionali – verso la cultura – poetica – salentina, di ieri e, forse, di oggi), o da novello Dionisotti (e questo è ovviamente scherzoso, vista la tua furia -?- anti-accademica…).

    La calpesto, la sfioro soltanto, la tua geografia letteraria e umana, antropologica ed esistenziale. Ne annuso solo l’aria, qualche giorno alla settimana. In bicicletta. Da pendolare, come sai. Da personaggio non del tutto “allegro”, e quindi privo di talento – la mia autocritica, le mie nevrosi, mi fanno convincere che hai ragione (sarò ai tuoi occhi un “bravo copista letterario”, un discreto critico letterario? Oppure un lecchino con occhi di bue a zonzo tra cantine semibuie dell’Ateneo?: ma questo è vero: pochi corridoi sono così grigi come i “nostri”….).
    Da figura a-topica, non iniziatica. Senza radici, per i fatti dell’esistenza. Sperso tra Roma, Bari e, appunto, Lecce. Senza capacità o possibilità di dialogo organico, oggi (non l’altro giorno), con nessuna (o quasi) di queste (diseguali) realtà culturali. Nello sforzo quotidiano di “prestare servizio” non solo al cospetto del tutor (o barone) di turno – questo è, dovunque…. Ma soprattutto in dialogo con i giovani universitari della tua geografia letteraria, quelli che per caso si trovano in facoltà (di lettere), a discutere di tesi (in letteratura italiana contemporanea), a chiedere consigli per gli esami, a corroborare, o meno, la loro più o meno autentica passione per la letteratura. Alcuni non sanno del Fondo. Altri cercano di dialogare, ad esempio, con i blog di Rossano Astremo (senza troppe gratificazioni). Lo farebbero con te se tu ne avessi uno, di blog. Altri, magari proprio tra i poeti e le poetesse di cui tu parli, e che magari si devono laureare, non fanno arrivare neanche l’eco (l’odore, diresti tu), del Fondo… Loro, al Fondo. Noi, all’Università, sempre più a fondo… E qui arrivo al senso della (seconda parte) del tuo post, al suo explicit.

    Perché sulla prima, sulla premessa, ho da dirti solo che io, e forse altri insieme a me, aspettano la cristallizzazione definitiva (o provvisoria) del tuo pensiero sulla valenza anagogica (o performativa) della letteratura (tra Bene, Nietszche e… Gabriele Frasca), perché i tuoi “appunti” hic et nunc sono sufficienti, secondo il mio modesto parere, solo per parlarne con i profluvi – questi sì – ecolalici, le divagazioni dei blogger che aspettano solo un sassolino lanciato nello stagno per commentare come fosse uno tsunami, un’onda del porto……. Sono appunti buoni solo per scatenare risse, come piace a te (peccato che siano solo verbali, e cioè virtuali….). Perché usi categorie da precisare (ecco lo spirito grigio e accademico che incalza….), da distendere (il “genio”, la “autenticità”: al di là del postmodernismo: hai letto le cose che scrive da qualche anno, come d’esempio, Stefano Calabrese?)…

    E invece mi interessa la genealogia, la costellazione che tracci a ridosso dei “luoghi” della città (con gli inclusi e gli esclusi: una breve antologia “plurale”, insomma….). E ancora di più mi interessa chiamarti a riflettere (insieme) sul confine netto, deciso, che tracci: tra il Fondo Verri, per così dire, la città vecchia, e l’obelisco, l’Università. Questo vale, secondo me, per ogni città d’Italia: e quindi per lo stato della nostra cultura, per i suoi centri d’irradiazione (dicono così Dionisotti e poi Asor Rosa, nevvero?).

    Monadi o dialoganti? Ecco il punto. Ognuno di noi (dico: “quelli” del fondo e “quelli” dell’università) ha le sue storie, le sue individualistiche esigenze, le sue idiosincrasie. Ne parlo con te, figura liminare: perché, come forse non tutti sanno, mi pare che spesso fuoriesci dalla cittadella del Fondo, oltrepassi il confine, per stazionare in limine, sulla soglia della cittadella “nemica” (sulle scale, all’ingresso, in attesa….) – condizione simmetricamente opposta a quella del sottoscritto: che, quando può, si aggira tra i vicoli dell’altra cittadella, ma sempre sulla soglia. Insomma, fino a quando ci sarà la visione d’antan (che però, per colpe di entrambi, è anche la realtà effettuale) di due centri opposti e monadici – l’associazionismo, per usare una parola orribile, e l’istituzione.. – niente da fare: il faudra laisser tout ca. A puttane, secondo me, ogni politica culturale “diversa” e aggiornata, degna di questo nome. Nessuna apocalissi, nessuna macinatrice.
    Concludo, frettolosamente: l’apocalissi, o l’esodo, secondo me, può avvenire (io credo, nonostante tutto, alla “promessa di futuro”: data in sorte ad ogni generazione, come vuole il Benjamin riletto ad usum sui da Fortini…), quando le due cittadelle (dovunque, ad iniziare da quel di Lecce), si incontreranno, magari in uno spazio neutro. Senza gli steccati che anche tu crei, e mitizzi, ad usum tuo, come ti (ci) conviene. L’una invaderebbe l’altra, alcuni di qua, altri di là, e poi viceversa, scambiandosi i ruoli. Magari con le loro rispettive “avanguardie”, all’inizio, ma senza violenza, senza nessuna “rissa” (topos dei tuoi autocommenti e della tua autoesegesi critica). Senza nessuna tattica di posizionamento, e senza nessuna strategia di potere (accademico, dell’obelisco: al quale rischia di corrispondere – simmetricamente – il potere semiclandestino, paraeditoriale, belletristico, del Fondo). Senza nessuna bipartizione, come invece emerge tra le tue righe: gli inziati da quella parte, a formare comunità tzigane ai piedi di montmatre (Via S. Maria del Paradiso); le mandrie grigie di buoi, dall’altra. E tu, e altri tuoi sodali, a declamare nel deserto…
    Perchè altrimenti, caro Michelangelo, sono sincero, dovremmo accontentarci, ognuno per sé, di frequentare caffè, da una parte, sempre più dinamici e affascinanti, tra fumi diseguali e promesse emergenti; e, dall’altra, cantine e corridoi semibui nei quali, a fatica, si cerca (per il futuro, sui tempi medio-lunghi), di svecchiare (di portare, senza mirabilie, un po’ di America anche lì…). Ognuno per sè, la letteratura per pochi….

    Dovremmo accontentarci solo di risse (magari non solo verbali), come se Lecce fosse una piccola Parigi d’inizio secolo (ma del nuovo millennio…). Un saluto e (come sai) la mia stima. Fabio M.

  7. Eppure mi piace questo pezzo strabordante di Michelangelo. Come scriverebbero le riviste patinate per impiegate delle poste: “E’ un uomo [Zizzi] il quale nutre un amore carnale per la propria terra”, per le agorà meridiane dove l’hospes è sempre accetto, riverito, blandito. Così, mi pare come un padrone di casa che “pulisce E ospita”, per parafrasare una canzonetta di questi giorni (“Lo scrutatore senza voto, che pulisce ma NON ospita”, Bersani). Nell’Odissea, appena arriva qualcuno da qualche parte, per prima cosa lo spediscono dalle ancille a farlo lavare, improfumare, impomatare. Poi lo sfamano e lo dissetano, e “solo quando non ebbe più fame”, solo allora cominciano a chiedergli: “Chi sei? Da dove vieni? Sei qui con intenzioni bellicose ovvero amicali?”. Così siamo davvero noi quaggiù nel Tacco. Leggo un piacere erotico, primaverile, inclusivo nel raccontare degli ospiti del Fondo Verri ovvero degli abitué. A volte, quaggiù, e in certi giri, si percepisce davvero un’impressione di comunità che si scambia doni (cum muneribus agere), ma attenzione vi prego non mi fraintendete, io detesto aborro la retorica della “pratica del dono” che contraddistinguerebbe il pensiero meridiano, la trovo l’anticamera dell’autoritarismo, la negazione della democrazia, dello stato di diritto (non ci vuol molto ad arrivare, dal dono di un taccuino colorato a quello di un Rolex in cambio di tre mesi alla Provincia per il figlioletto laureato di quarant’anni). Parlo proprio di doni verbali, di doni di notti stellate e tiepide a scambiarsi impressioni fra autoctoni e ospiti. Non conosco altro posto in Italia così.

  8. Non mi spiego come Zizzi possa perdere tempo parlando un linguaggio ed esprimendo una visione del mondo, e quindi della scrittura, che i più sono impossibilitati a capire, per difesa, pregiudizio, ignoranza. Vi invito a leggere i suoi versi. Sebbene in altri tempi sia stato fra i suoi detrattori, non posso non riconoscernene la grandezza, anche umana.

    Falco’68

  9. Io non ho ancora capito se Zizzi è un mediocre travestito da coglione o un coglione travestito da mediocre. Probabilmente un coglione travestito da mediocre travestito da coglione.

  10. “… va da sé che il rapporto soggetto – oggetto si deve situare in uno spazio allotrio rispetto a quello dell’*ebreo* Galileo, va da sé che la psicanalisi ‘va in culo’, lo storicismo diventa una favola, le immagini di distruzione diventano beneaguranti, la resistenza alla morte (canone dell’Occidente) inutile…”

    ”Sono forse vago?”

    Non tanto.

  11. “Tutte quelle spiegazioni che mi ammazzano”
    C.B.

    Qualche spiegazione forse è dovuta, per il resto mi diverto.

    Per il resto vivo in campagna tra abitazioni dirute che sembrano grotte, o viceversa. Allevo cani corso, falchi pellegrini, due nibbi ed un astore.
    Mi piace questa ressa, soprattutto la celerità di raimo (che vedo finanche migliorato).
    Mi spiace invece che non ci siano interventi che ‘discutano’ il testo ed il suo argomento (salvo un pò quello di Fabio M., che saluto).

    Poi….

    @DB: ho una tale stima di te, che sei l’unico che ascolto quando non siamo d’accordo (cioè sempre): ti ascolto sempre. Mi manca qui però la tua aguzza intelligenza cartesiana, l’enumerazione, l’analisi, il ludus, ecc.

    @Aldo Biscardi: oltre alla stima per te, credo che sia giunto il momento di uscire dal cazzeggio (poi ci torniamo, vedrai) e di cominciare a lavorare utilmente.

    @Peccato Volodja, ma io non amo essere amico tanto per fare una cosa (di chi poi? non so manco chi sei?). Peccato, con tutta quella tua psicologia, sociologia, bontà. Peccato. E comunque l’ultima cosa che potrei fare è fuggire o sfuggire. Studiati un pò di astrologia, leggiti le opere degli autori che cito sopra e capirai. Peccato.

    @ Il macinatore. Per me possiamo anche incontrarci ora: ti dò il mio indirizzo ‘ilcarrodieros@libero.it’, così mi dici chi sei. La mia stima rispetto agli autori è sempre molto palese, così come ahimé la mia disistima. Tant’é che posso essere amico di uno scrittore e considerarlo per eccesso di lealtà un mediocre nella letteratura o viceversa. leggit questi due capolavori e capirai.

    @Corselli: un abbraccio affettuoso a te.

    @ Lady stasera ascolta::: Ma????? Sei…proprio tu??? dopo tanti anni…

  12. Ma emma che brava ragazza che sei. Quanto gusto per l’analogia, quanta ossessione veritativa, quanta pulsione psicanalitica, quanto desiderio di denuncia, di dire, dichiarare: oh queste cose, tutte queste cose.

  13. Certo che sono io, Elogio.

    (Non sapevo che tu scrivessi poesia, ho cercato qualcosa di tuo, lo leggerò con calma).

  14. La forma della tua scrittura, o Zizzi, trascina via ogni sensatezza. Ma non la dissolve del tutto, piuttosto da spessore all’atteggiamento del poeta: non al suo polemizzare, anche approssimato, con fenomeni letterari altri e reputati “inferiori”, ma appunto ciò che resta alla lettura è il fastidio; non una differenza, ma la perdita di pazienza; non una alterità, o uno scarto vibrante d’intelligenza, ma una incongrua, e invero monotona, sottolineatura della propria incazzatura. Se la tua scrittura è dissestata (“sgretolata”), mai assume la forza concettuale di un Emilio Villa, lui sì capace di creare smottamenti di parole, senza però mai allontanarsi dalla sapienza (e rileggiti, se lo vorrai, i suoi “attributi per l’arte odierna”, Feltrinelli). Insomma, tutta la tua costruzione verbale rimanda alle risonanze del tuo “ego”: in essa risuona la volontà di emissione, più che il valore della materia espulsa. Siamo al primitivismo dell’espressione, siamo al rinvio di ogni incontro, anche tra sodali; siamo all’isolamento di chi, forte della sua forza, evita ogni contatto con le tribù vicine, se non per saltare alla gola del primo venuto e rubargli il cacciato.
    Vengo ora, permettimi, al vero senso di ciò che scrivi, ai temi che scandisci in apparente stasi del senso, vengo alla tua consistenza primaria. E vengo – senza godere, per altro – al senso anagogico che rivendichi. Posto che potevi risparmiarti le frecciatine, senz’altro “inutili” quanto le scritture che citi; posto che la metafora dell’“imperatore silenzioso” è efficace; ecco: non è che tutta – ma proprio TUTTA – la letteratura, anche la peggiore, produce sempre un effetto? E dico proprio tutta, anche quella di Baricco-Raimo, tanto per stare sugli esempi da te fatti. Andrebbe precisato meglio la natura dell’“effetto”: c’è anche, ad esempio, l’effetto indiretto delle vendite, che comprende la percezione che di quelle scritture hanno i suoi lettori affezionati; e ci sono mille altri effetti … Ma qui non mi inoltro, essendo discorso troppo vago (sociologico?). Vengo alla questione “tempo”. Non tutto ciò che è oltre il tempo, che ne “oltrepassa l’effetto”, è contro il tempo. C’è insomma un modo di dispiegarsi non tenendo conto del tempo, che è, direi che è scandalosamente somigliante allo struzzo infagottato nel suo tentativo di dimenticare il tempo. Non è quindi comunicare ciò che è incomunicabile; è non comunicare tout court; è cedere a chi controlla il tempo, stante il fatto che chi lo controlla preferisce che non se ne parli, piuttosto che si incrini il suo andamento. E dunque non è immediato quanto affermi di seguito: non c’è sequenza logica tra gli effetti del tempo e l’organizzare la forma “dal di fuori”. Ci sono esempi di autori che, pur stando nel tempo (e contro il tempo), cedono l’iniziativa alle parole, non immettono dall’esterno significati, ma li traggono dal loro modo di disporsi sulla pagina: Beckett, ad esempio; l’Emilio Villa già citato, o Edoardo Cacciatore, e molti altri … Ovvio, siamo alla messa al bando della rappresentazione; siamo all’invenzione di realtà per mezzo di parole … Ma la realtà – il “fuori”, l’al-di-là del segno – resta pressante e i timbri e i ritmi della scrittura ne risentono, in qualche modo ne risentono sempre (qui una domanda: perché sottolineare Galileo come “ebreo”? larvato antisemitismo?). E siamo alla questione del “realismo”. Qui ti caratterizzi subito come seguace di una letteratura incolore, che aspira a smuovere il lettore per delega autoritaria: io sono il genio, autore del capolavoro, voi dovete genuflettervi al mio cospetto. E rientra in questa idea la presa di distanza da Artaud. L’“imprevedibilità” – concetto interessante, in passato proposto da Francesco Leonetti (sulla rivista “Campo”) – diventa allora abbastanza prevedibile, è neutralizzata nella relazione del “maestro” con i suoi “seguaci”, pecorelle smarrite da riportare sulla retta via … Su quanto dici in merito allo “stile” e alla “vita”, mah!, mi pare romanticismo d’accatto; e poi: quali sono le “vite capolavoro”? C’è molto cognitivismo, in quel che scrivi; dico un riferimento al pensiero cognitivista (Maturana, Varela, etc.): l’osservatore che è dentro l’osservato; il metodo che influenza la misurazione … Importante, ma limitato. Perché, volente o nolente, nella scelta del punto di osservazione – nella scelta dei materiali linguistici da utilizzare – incappi in ciò da cui vorresti fuggire: in una visione del mondo, o in una “ideologia”; perché, caro Zizzi, ci sei dentro anche se dici di esserne fuori: appartieni, anche tu sei di parte. E lo sei ancora di più nel momento in cui di ci di essere “oltre il linguaggio”, non foss’altro perché, nel momento in cui lo stai dicendo con il linguaggio, il tuo esserne fuori è, appunto un ATTEGGIAMENTO. Il “deserto” è una immagine efficace se stai sul piano della allegoria; Jabés ci ha scritto libri stupendi. Se lo prendi come luogo “bianco” dove non è dato il risuonare del senso, sei nell’afonia; ma non era, la letteratura migliore, la possibilità della risonanza? (E qui, se permetti, dovresti leggere meglio Carmelo Bene, che citi a sproposito). E difatti, come smentendo te stesso, usi due vocaboli gonfi di senso: “liberazione” e “rivelazione”. E addirittura affermi la necessità di “riconoscere i nemici” … Come farlo senza una ipotesi di senso? Di senso “altro” dal costituito, di senso differente, di senso che “brucia” (il bruciare del senso è, per Nancy, la forma costitutiva dell’arte). Fai dei nomi in negativo (Raimo, Voce, etc.), dunque ti apri al presente (agli “effetti del tempo”); lo fai in base ad una tua idea di letteratura. E che cos’è, questa tua idea, se non senso esplicitato in elenchi di inclusi o esclusi? Le tue classifiche (ne hai fatte diverse) hanno alla base ciò che tu stesso vorresti negare: l’insorgenza di una visione del mondo. E siamo punto e a capo. Siamo al reale – alle “cose” – che si impongono con forza … Ora mi fermo. Concludo così: le tue intuizioni svicolano da ogni necessità di approfondirsi, stai sul bordo senza ambire alla profondità; non produci identità, neppure la tua; produci solo “atteggiamento”, o piuttosto un ronzio fastidioso (un “brusio trascendentale”?). Qui non c’è una voce particolare che si vuole esprimere nell’eccedenza; c’è solo un bambino che non ha ancora imparato a parlare. Scusa la franchezza; volevo dire la mia senza insultare. Così, per puro esercizio critico (senza finalità se non quella di accadere come portatore di dialogo ad oltranza).

    Volodja

  15. Se improvvisamente le opinioni sulla scrittura di Zizzi mutassero direzione e confluissero in un unico grande elogio, anche costoro, i detrattori, s’incamminerebbero su strade benevole e accondiscendenti, tanto basso e poco fondato è il loro occhio critico. ” A voce più ch’al ver drizzan li volti “, scriveva, scrive, Dante.

    Ma, nel frattempo, Fabio M, anche tu…dimmi: preferisci la lealtà, un po’ aggressiva forse, di Zizzi, o la tenue, docilissima edulcorata finzione di tanti, tantissimi di cui saprai senz’altro ? Le cose bisogna approfondirle a fondo, al Fondo.
    C.

  16. Oh ma quanto impegno critico volodja! e quanta psicanalisi: proprio per me (non me) tutte queste cose a cui non credo, che non sperimento. Infatti non solo ritengo inutile la funzione della psicanalisi, ma persino inesistente la psiche. o almeno inesistente fino a quando si manifesta (e purtroppo si manifesta) come stato ‘inferiore’ del percepire, fino a quando insomma non finisce con l’ “esistere”.
    Ma questo è il problema: il mio ‘io’ è un problema tuo, perché io lo risolsi sin dai primordi, annullandolo, ai primordi quando le lettere inchiostro rosso di mio padre in carcere me lo annullavano, mentre il tuo papino che poi ti avrebbe raccomandato, insegnava all’università.
    Per la verità non so neanche cosa significhi ‘io’, non so neanche cosa significhi ‘pensare’ e sorrido a non pensare che tu possa pensare il contrario. Per quanto riguarda l’antisemitismo ti ricordo che vengo da una famiglia ebraica da parte di mia madre e di mio nonno, ergo, si legga come si vuole, ma mi sembra che ‘ebreo’ galileo’ (oltre al fatto che è incontestabile, come dicessi latino Cicerone) sia messo per effetto fonico, più che altro.

    Per il resto, tanto se mi conosci lo sai, mi diverto.

  17. @ C, ci vedremo al fondo, in fondo chiunque tu sia.

    @falco68, ma chi minchia sei?? hai usato il mio nick…

  18. due precisazioni poi chiudo, stanco di questo rincorrere chi non può che stare nella sua corsa verso il nulla-merda …

    la frase “mentre il tuo papino che poi ti avrebbe raccomandato, insegnava all’università” svela l’asino borioso che è in te. Non conoscendomi, ricorri a frasi fatte e false: mio padre era operaio fiat e raccomandazioni proprio non poteva darne. Dunque hai toppato, alla grande. Ma d’altra parte, il tuo “io” traboccante di se stesso non poteva certo mettersi alo stesso livello di un altro qualsiasi.

    Arristudiati un po’ di semiotica … Ne scopriresti che di questi tempi sottolineare l’essere “ebreo” di qualcuno è perlomeno sospetto, essendo questa prassi di certuni senza dubbio, come te, privi di “io” (lo usano spesso allo stadio o in certe conventicole dell’estrema destra).

    Con ciò chiudo davvero, così, con un psicologico e sociologico “vaffanculo”

    v.

  19. L’ascessorato non mi dà pace, e non sono materialmente in grado di scrivere io, come dovrei, il coccodrillo per Moresco. Ma ho fiducia in Zizzy.

    (ringrazio NI per aver dato in tempo reale la trista notizia)

  20. Ma perché date a questo grandissimo stronzo la possibilità di divertirsi e ridere alle spalle degli altri? Ma lasciatelo bollire nel suo livore da mentecatto represso: leggendolo, e commentandolo, vi prestate esattamente al suo gioco, e a quello della sua claquette che lo segue ovunque plaudendo al nuovo unto dal signore delle lettere: fargli pubblicità, e creare un caso letterario (sic!) intorno a un men che mediocre poetastro della domenica. Un sonoro vaffanculo, appena compare un suo scritto, è l’unico commento adatto per tanta iperparanoica smodata presunzione rivestita di nulla.

  21. L’intervento di Zizzi, dal punto di vista teorico, non è smodata presunzione rivestita di nulla, ma nulla rivestito di smodata presunzione. Come i suoi versi, addormenta. E se quanto ci dovrebbe rivelare la poesia è questo, io preferisco farne a meno, non usufruire di alcuna magica ed egizia Rivelazione.
    Raimo ha scritto versi e racconti che valgono mille Zizzi. E così tutti gli altri che Zizzi OSA stigmatizzare, a partire da Balestrini.

  22. Insomma: ‘sto Zizzi è fasullo pure nell’epigrafe al post. Pensa di citare Parente ma cita Busi (“Per un’apocalisse più svelta” è il titolo di un libro di Busi). Insomma, cadere anche sulla propria unica ragion d’essere (l’epigonismo) è il massimo. (Lo stesso Parente ha passato anni a leccale il culo a Busi ricevendone in premio, giustamente, una serie di calci nel culo che quando ci pensa ancora si commuove).
    Ad avere tempo e voglia si potrebbe smontare anche il resto. Ma non se lo merita.

  23. Nel caso dubbyo che Zyzzy abbya voluto alludere a me, tengo a precysare che sono dysperso, but not estynto.

    *Eraclito, Porfirio, Apuleio, Petronio, Arnaldo da Villanova, Bruno, Francesco Colonna, Rabelais, Gogol, Manganelli, Gadda, Proust, Moresco, Borges, Pinchon, Mccarthy, D’Arrigo, Bene, Roberto Calasso*

  24. Coglione tieniti la tua mail. idiota. e stai attento quando vai agli eventi pubblici perchè io ti sfascio il culo. Coglione. Pure l’epigrafe hai scazzato, testa di minchia. E lascia stare i 21enni, pedofilo!! appena ti becco in giro ti faccio il culo quadrato. Idem per Parente, e a colombati gli ficco una copia del giornale di paolo b. in culo. L’unico giornale nel quale è possibile scrivere una stronzata così colossale come l’articolo che riguardava te, il nostro zizzi de sticazzi.

    Il macinatore

  25. Un pò mi dispiace che non si discuta il testo tutto qua. Anzi che non lo si legga per nulla. L’attacco personale mi va anche bene, ma mi pare inutile quando i nomi sono mimetizzati dai nick (fantasmi troppo fragili e svanenti), quando si scantona nella disfemia usata senza stile. Ah lo stile, lo stile.
    Nel mio testo non parlavo di me, come qualcuno ha supposto, bensì della scrittura e dei suoi stati. Accennavo ad un’azione non solo da trovare, ma da ‘produrre’, fabbricare’: le cose sono quasi opposte (ma vi prego non leggete questo ‘fabbricare’ alla maniera della Francia settecentesca).

    Riconosco la difficoltà ad accettare qeste condizioni. Ma io che in genere ho molto giocato sono serio su questo punto, questo ‘fatto’ che è la scrittura.

    E così mi chiedo dove siano invece gli altri, coloro che mi paiono la colonna vertebrale di NI, i vecchi, quelli che non si scrivono parati sotto nomi di fortuna male assortiti. Perché non vorrei che siano improvvisamente diventati accademici francesi troppo lustri.
    Insomma dove sono gli inglese, raos, sparzani, biondillo, eccetera?

    Per il resto anche questo post con sequela di ressa mercantile, portuale (ma sono luogi a me cari) mi pare un capolavoro.

  26. Robe da pazzi.

    Vuol dire che mi adeguerò a reggere il microfono ai seguaci di Zizzi. Nulla è più uguale, nè in poesia nè nel reale dopo l’apparizione di Zizzi.

    PS: Zizzi te lo ricordi la famosa pernacchia di cui parla Eduardo De Filippo?

    lv

  27. Ma ch’io sia per voler portar la toga,
    Come s’io fussi qualche Fariseo,
    O qualche scriba o archisinagoga,
    Non lo pensar; ch’io non son mica Ebreo,
    Se bene e’ pare al nome e al casato
    Ch’io sia disceso da qualche Giudeo.

  28. I’ sto a veder se ‘l mondo è spiritato,
    Se egli è uscito del cervello affatto,
    E s’egli è desto, o pure addormentato;
    E s’egli è vero ch’un che non sia matto
    Non arrossisca che gli sia veduto
    Un abito sì sconcio e contraffatto.

  29. Mi fan patir costoro il grande stento,
    Che vanno il sommo pene investigando,
    E per ancor non l’hanno aùto drento.
    E mi vo col cervello immaginando,
    Che questa cosa solamente avviene
    Perchè non è dove lo van cercando.
    Queste colleghe non l’han mai intesa bene,
    Mai son entrate per la buona via,
    Che le possa condurre al sommo pene.
    Perchè , secondo l’opinion mia,
    A chi vuol una cosa ritrovare,
    Bisogna adoperar la fantasia,
    E giocar d’invenzione, e ‘ndovinare;
    E se tu non puoi ire a dirittura,
    Mill’altre vie ti posson aiutare.
    Questo par che c’insegni sor natura,
    Che quand’un non può ir per l’ordinario,
    Va dret’a una strada più sicura.
    Lo stil dell’invenzione è molto vario;
    Ma per trovar il pene io ho provato
    Che bisogna proceder pel contrario:
    Cerca le palle, e l’hai bell’e trovato;
    Però che sommo pene e somme palle
    S’appaion com’i polli di mercato.
    Quest’è una ricetta generale:
    Chi vuol saper che cosa è l’astinenza;
    Trovi prima che cosa è ‘l carnovale,
    E ponga tra di lor la differenza;
    E volendo conoscer i peccati,
    Guardi se ‘l prete le dà penitenza;
    E se tu vuo’ conoscer gli sciaurati,
    Omacci tristi e senza discrizione,
    Basta che tu conosca i preti e’ frati,
    Che son tutti bontà e divozione:
    E questa via ci fa toccar il fondo,
    E sciogl’il nodo alla nostra questione.

  30. Rifaccio:

    hysteron gesta terön, quid credas?: allerdings!
    o mord’ a iss, ragà? quo spettas, anagonia?

  31. Si resta una volta di più sbalorditi, dinanzi all’inesausta, plurivoca, sfingocinta (e balanofona) molteplicità zizzanica del dicibile.

    (Un non nikkonimato)

    L’ignoble me plait, c’èst le sublime d’en bas…

  32. Or tu vedrai disperati sembianti
    di quei c’han perso il pen e l’intelletto,
    per plaghe oscure e perse vagolanti;

    mal dire e mal tacer di stilo abbietto,
    sì che mal se n’intenda la ragione,
    fa sì che n’abbia ognun giusto dispetto;

    né a fine vien la rabida concione
    de le lor lingue felle, irte e scomposte,
    fino a che l’uditor non ha il fiatone:

    che per veder le lor forme mal poste,
    in mille rivi di caleidoscopio,
    è d’uopo divinar nebbie interposte

    a li occhi per arcano d’elitropio.

    (Un nikkominato)

    …Gnentissimo da fa’…

  33. Ma che non lo sapete che durante la Rivelazione la parola scalpita, scappa, scandaglia, scava, scatarra, scalfisce, scalpella, scansa, scatta, scarta, scaccia, scaglia, scandaglia?
    Che sarà mai l’omissione dell’elisione di fronte alla Visione?
    Piuttosto. Un panno. E che sia caldo. Per il Vate.

  34. E’ vero che fin da ragazzetto, il mio naturale mi tirava a guardare in alto, e avevo gran piacere scorgendo Venere…

  35. Noi ce lo sapemo perché nun capite aa grandezza de Zizzi, perché nun cojete aa risonanza ecolalica der tutto lavico che lui è, a voi ve piacciono li critici ectoplasmatici, mentre Lui invece sta appollaiato in bufe silenti a cerca’ er senso anagoggico dee cose, cerca de riconfiguravve l’appartenenza delle pulegge cosmiche, ma che volete capi’ de uno che c’ha le risorse de aa aristofania pe’ nun parla’ delle sue nascite caldee, egizie e forse puro presemite; va da sé che nun potete capi’ una lingua ctonia e materica come aa sua, ner sorpasso urtraorgasmico che c’ha ner momento acmeico. Ve ce vorrebbero davero tremila paggine pe’ capi’ quello che Lui ha scritto, a’ poracci!
    Zizzi nun te la pija’ pell’ignorantità de ‘sti buzziconi, va da sé che je dà fastidio che tu sei er C.T. de aa Nazionale Dei Scrittori e nun l’hai convocati. La tua formazione der 4-4-2 (Parente in porta, Borges e Moresco terzini de fascia, Manganelli stopper, Omero mediano de spinta, Eraclito e Porfirio e Aquileio a centrocampo, Colombati centravanti de sfonnamento, Calasso daje de tacco-daje de punta) semplicemente è, va da sé, AA MEJO!

  36. Ecco finalmente siamo in tutti i luoghi del capolavoro. Il post si compone come capolavoro. Ed è solo grazie a me/non me, voi/non voi, noi/non noi.
    La formazione è giusta, ma manca un centrocampista che è naturalmente Bruno. E per eccesso di spettacolo, farei un 4-3-3, anzi un 4-3-1-2 portando Apuleio a ridosso delle punte.

  37. sono a roma da qualche giorno e leggo solo ora questo inquietante post, e – senza esagerare – mi sto vergognando: avrei preferito non essere citato. personalmente stimo molto “lo scrittore” michelangelo zizzi, ma non mi fanno piacere questo tipo di pezzi. non ci tengo a essere AMICO o “discepolo” di qualcuno come si evince da questo post.
    da oggi in poi non offro più caffé a nessuno.

    peraltro non sono nemmeno d’accordo con i nomi che vengono fatti da michelangelo, o con l’improponibile mitologia che sottende questo pezzo.
    io questi grandi letterati non li conosco, sono giovani interessanti(parlo dei leccesi citati in grassetto), come michelangelo è un ottimo poeta, chi più chi meno ci può arrivare a capire come stanno le cose.
    non voglio essere provinciale, e spero che gli altri “pugliesi” evitino queste cose in futuro.
    E COMUNQUE MI REPUTO – IMMODESTAMENTE – MOLTO PIU’ BRAVO E CAPACE DI QUELLO CHE DA QUESTO PEZZO SI EVINCE.

  38. petrelli, petrelli, sei a Roma a caccia di ‘leccati’ ( da te presumibilmente… ).Ah! Che bello, giovinetti come te, col futuro da costruire…

  39. eccolo apparire, il Petrello, con cappello cardinalizio per bambini, in cerca di glorie spiccie e putride. datti alla politica. oppure: il trono di Provenzano è, forse, ancora vacante…

  40. ho capito solo una cosa, come del resto in altri posti. Le situazioni superano di gran lunga la questione prettamente letteraria; il più delle volte si risolve in un attacco alla persona o in una sperticata forma di antipatia conclamata. E il testo che è l’oggetto di discussione passa inosservato…

    Ciao carisimo Angelo.

  41. Ma cosa dite, non si capisce niente di quello che scrivete, spero almeno vi capiate tre voi tre. Leggo da qualche mese NI, mentre racconti ed altri inserti sono godibilissimi quando dovete fra recensioni di libri o emettere giudizi su scrittori usate un linguaggio assolutamente incomprensibile

  42. se solo chi attacca gratuitamente sapesse anche firmarsi!!!
    ridicolo essere accusato proprio nel topos naturale dei markettari impenitenti…
    l’invidia cari, l’invidia…

  43. Non toccateci Petrelli, guai a chi lo tocca!!!

    E in particolare tu Zizza-zizzetto lascia perdere Petrelli:
    tu evidentemente brutto e vecchio, lui bello e giovane.

    Zizza, ma non è che sei pure pederasta oltre che attempato mafioso da strapazzo?!

    Tu fallito e flaccido. Lui promettente, posato e di buon gusto.
    Lascia perdere Zizza questo gioco non fa per te, cambia aria:
    provaci con le ragazzine!!!

  44. “ Finché non apparve Omero, in testa alla cavalleria, in sella ad un cavallo furioso che lo stesso equite con difficoltà controllava ed al quale nessun mortale avrebbe osato avvicinarsi” J. Swift, La battaglia dei libri.

    “Io mi chiedo cosa fa un giocatore durante una partita di calcio. Dove deve stare, come muoversi. Un giocatore in media tocca la palla per soli tre minuti, e per tutto il resto del tempo che fa?” A. Sacchi, in un’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport nel novembre del 1989.

    Faccio presente che questa squadra così come è stata allestita dai miei fan non ha paragoni. Il suo limite è che non potrebbe giocare contro nessun avversario, non c’è gioco. ‘Mutatis mutandis’ e sempre ‘sub specie interioritatis’ questa squadra è nettamente più forte dell’Honved degli anni ’50, del Real Madrid di Di Stefano e Gento, dell’Inter di Herrera, dell’Ajax degli anni ’70, della Giuventus di Platinì, del Milan di Capello, del Genoa degli inizi del Novecento, ecc. E tuttavia è straordinario immaginare una così inviolabile perfezione nel meraviglioso giuoco del calcio letterario. Sorpasso anche della condizione eroica: pura affermazione dell’idea.
    Ma do delle indicazioni tecniche dei miei giocatori, affinché qualcuno possa immaginare quale altra squadra si possa paragonare ad essa. Parente gioca in porta, ma la sua tecnica è tale che l’avrei potuto schierare in qualsiasi altra zona del campo con gli stessi risultati: è un jolly sia a volerlo considerare nella capacità d’invenzione, che nella precisione del tiro, la sua capacità di sfondare le porte è proverbiale, per cui è anche un rigorista. Moresco è terzino, essendo un mancino gioca a sinistra. Dotato di una ‘castagna’ notevole spesso si sposta a destra per inquadrare meglio la porta: non ha molti tifosi, neanche quelli che si mettono sulle tribune sinistre lo seguono più di tanto, ma solo perché è più veloce, più infaticabile, dell’auspicio di soluzione, e dell’idea di resistenza di quelli che stanno alla tribuna sinistra. Manganelli che è un superbo palleggiatore sta ovviamente sulla corsia destra. E meno fluidificante di Moresco, ma ben più elegante. E’ l’inventore di una controfilosofia del calcio, una sorta di alleggerimento del gioco (se così si può dire) per cui vince chi ha meno forza d’impatto e più levità: una sorta di allegria levitata sullo stile. Borges. il mio stopper è in grado di fermare qualunque incursione d’attacco, anche se venissero i mostri sacri della letteratura delle cose o dell’etos o delle minuzie. Anche se venisse Zola sarebbe anticipato sistematicamente. Omero è il giocatore con più esperienza e può far quel che vuole, perché lui e gli scribi hanno inventato il gioco. E’ regista della retroguardia solo perché non può affaticarsi, ma correla tutta la squadra in un’armonia di gioco divina. Porfirio è uno degli inventori di una metafisica del gioco, dotato di un tiro sublime, è in grado di far muovere la sfera ora in alto ora in basso, come se fosse teleguidata da una volontà d’ascesi illimitata. Ma se è il caso di centrare la rete, insacca. Bruno è il giocatore che preferisco. A torto ritenuto da alcune eresie (Geymonat e sottoscientisti) un giocatore moderno. In realtà lui è un re-voluzionario. Colui che riporta allo spazio dell’origine il giuoco e che nega le assurde regole arbitrarie che Aristotele e la teologia del medioevo avevano voluto impiantare per consentire a loro stessi, brocchi, di poter giocare qualche allenamento. Vede la porta da qualunque distanza, si diverte sia durante il gioco che dopo le partite. Apuleio messo alla tre quarti garantisce la giusta dose di creatività, fa viaggiare la palla nei misteri dell’area da rigore avversaria, reinventa una dottrina del calciare e serve assist a ripetizione per qualunque invenzione letterario – calcistica. I due attaccanti sono formidabili: ma ho sostituito Roberto Calasso che si occuperà del mercato calciatori con Carlo Emilio Gadda, per dare peso all’attacco. Colombati è il tipico attaccante di sfondamento ed è l’unico nella squadra capace di giocare come sa, sia nel calcio letterario che in quello con pallone reale. Incantatore di aree, segna da tutte le direzioni. Gadda ha la peculiarità di far entrare dentro calci apparentemente sporchi, palloni meticci, funambolici tiri. E’ considerato da molti giocatori del novecento e anche del postmoderno (bleà) un maestro.

    Detto ciò volevo organizzare una partitella di calcio poetico a cinque con la squadra salentina che è fortissima contro una rappresentativa nazionale under 30. Devo fare a meno di Petrelli, a quanto pare. Può sempre fare il raccattapalle, ma non credo che accetterà. Trovo il modo di sostituirlo e vi faccio sapere.

  45. Petrelli dovrebbe ALMENO, ALMENO, imparare un po’ di divina Leggerezza da Zizzi. Sarà pure carino, stando a quanto emerge dal post dei fans, -non c’è bellezza che regga l’assenza di ironia e levità- ma è pesante e indigesto quanto un’incudine.

  46. lasciate fare cari,
    sono un mezzo rospo e non così giovane come dicono; mi dissocio anche da “quelli che…” che non ho la fortuna di conoscere, o almeno credo di non sapere chi sia il simpaticone.
    fate voi.
    non credo di essere il “pesante” del gruppo, non mi va bene essere tirato in ballo nel modo e nella maniera del post di michelngelo.
    tutto il resto è folclorismo. amen.

  47. Ma… in tutto questo… che si è voluto dire? Minacce, insulti e veleni da una parte, citazioni e accademismi dall’altra (soprattutto da parte di chi deride l’università).
    La concretezza e la semplicità, l’ascolto e il dialogo intelligente, la passione scorpionica, quella che brucia e palpita nelle vene, ma che risparmia chi non ne è all’altezza e si lascia appena intravedere da chi merita…, l’educazione (non le buone maniere, ma quell’istinto a farsi valere facendo valere il “nemico”), la lingua italiana corretta e comprensibile, lineare, non pomposa, le scelte lessicali che non dicano “io sono colto e scrivo solo così”, la superiorità acquistata e dimostrata senza violenza o, d’altra parte, senza arroganza: quante cose, oltre a queste, non ho ritrovato qui. In nessuno. Peccato… la cultura è tanto altro…

  48. Cari, ogni epoca ha il suo giullare.
    W Krusty il clown de no’antri.
    O Telespalla Bob?
    Minaccioso (a parole), brutto (nei fatti), comico.
    Grande ZZtop.
    Ciao Bisio, ciao, ciao…
    Ma vaaaaaffanculooo!

  49. L’ultima intercettazione pubblicata dal Comando Carabinieri di Roma riguarda un breve dialogo telefonico tra Zizzi e Moggi sul futuro dei poeti salentini. Ecco un estratto fulminante:
    Z: Ahò, Lucià, che se po’ (pò) fa’ pe’ il Lecce?
    M: Uè, Mikè…noo, il Lecce proprio no, sai? Dopo quello, insomma, sai, che c’ha fatto Zema’, ‘on sai…nu’ se po’ (pò) proprio, no.
    Z: Insomma, Lucià, la Torres si e il Lecce no? Ma dai…guarda che scuderia de’ poeti che c’abbiamo, eh!
    M: Oh Zizzo, guarda, t’ho detto no, dopo quello, che fo fatica pure a pronunciallo, Ze..zema..dopo quello no, cazzo. Chiedimi tutto ma il Lecce no.
    Z: Lucià, da’, fallo pe’ Platone…!
    M: Oh Zizzo, ma vedi di andartene a fa’nculo, eh?

  50. [URL]http://www.amici.mezzogiorno.info [/URL] [URL]http://www.calcio.mezzogiorno.info [/URL] [URL]http://www.tinto-brass.prosesso.org [/URL] [URL]http://www.culo.prosesso.org [/URL] [URL]http://www.ferrari.forze.info [/URL] [URL]http://www.formula-1.forze.info [/URL] [URL]http://www.casa.forze.info[/URL] [URL]http://www.campioni.forze.info [/URL] [URL]http://www.erotismo.prosesso.org [/URL] [URL]http://www.bianchi.mezzogiorno.info [/URL] [URL]http://www.anne-geddes.prosesso.org [/URL] [URL]http://www.amalfi.mezzogiorno.info [/URL]

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