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MM1, linea rossa (sangue)

camminamilano  di Piero Colaprico 
  

Mi piacerebbe che fosse una specie di gioco. Un gioco semplice, tesoro, e poi si vince qualcosa. Si fa così: io dico il nome di una fermata del metrò e tu e gli altri raccontate quello che vi viene in mente. Per esempio: San Babila. Magari mi parlate delle fontane sbilenche e delle targhette dei prezzi nei negozi alla moda, oppure citate i teatri della borghesia e la chiesetta dove venne battezzato Manzoni, le iper-moto posteggiate sghembe o una modella che rideva. Dai, accontentatemi, che vi costa?
Ognuno, dal nostro tunnel ondeggiante del metrò, prova a farci vedere gli scorci colorati della Milano del piano di sopra. Potete tentare di scopiazzare Stendhal, Buzzati, Testori. Ma per me…
Per me può essere molto diverso, ragazzi.
Volete sapere cosa salta in mente a uno come me?
Allora venitemi dietro, sulla linea 1, da Sesto Marelli sino al capolinea Bisceglie.
Sesto Marelli mi ricorda un filippino. Li conoscete, no, i filippini? Intercambiabili e anonimi, mandano a casa loro la gran parte dei risparmi, non amano aprirsi la partita iva: colf, badanti, baby-sitter, lavoro dipendente. Sono entrati nelle nostre case in punta di piedi. Noi speriamo che continuino ad ubbidire, lavare, accudire. Ma, fuori orario, il mio filippino era diverso dagli altri. Amava con rabbia e una sera s’era appostato dietro l’edicola, nel mezzanino. Il rivale aveva la sua stessa faccia, le scarpe sformate e impolverate, le dita profumate di Sole piatti. Potevano essere due gemelli, ma non lo erano, e di fronte ai pendolari incapaci di immischiarsi in quel balenio di lame…
Va be’, avete capito. Non era stato per niente difficile prenderlo, s’era seduto a piangere, era proprio il classico innamorato pazzo, anche se filippino.
Fermata successiva, Precotto. Non ci credereste che era un paesino agricolo, sulle strade il tappeto delle larghe foglie dei gelsi, ed era talmente buona l’aria di Precotto che i Peck, i famosi salumai, avevano messo su la bottega per la stagionatura dei prosciutti. Nei prati pascolavano pecore a perdita d’occhio. All’improvviso, costruirono le prime e le ultime fabbriche.
Ci misero gli operai. Madri e madri e padri e padri lavoravano. E i figli? Non li controllava nessuno, benedetti ragazzi, era tutto un rumore meccanico, uno sfrigolio elettrico, uno strusciare di tute blu e nella nebbia si udiva il ticchettio delle scarpe con i tacchetti e le punte di ferro, che durassero tanto. Crebbero i palazzoni, dai colorini pallidi come i cottimisti che qui, negli anni del boom economico, avevano visto scorrere le loro esistenze standosene sempre al chiuso, tra i capireparto, i volantini, i sindacati, i sogni di un cambiamento che forse avrebbero visto meglio i loro figli, e non grazie alla rivoluzione o alla politica, ma grazie alla tecnologia, ai computer, ed era come se quei vecchi e stressati operai fossero i detenuti in Lambretta di una città prigione.
I figli, dicevamo. I figli non ci stavano, a partecipare a quella vita regolata dalle sirene e dagli orologi: non era una corsa verso una meta, capirono, ma una giostra dove giri intorno, notti, giorni, tute, torni, pezzi, verniciature facce, sempre la stessa cosa. Ruppero la tradizione. Ruppero lo scenario. Quando abitavo con un collega vicino alla chiesa di San Michele Arcangelo, mi piaceva sentire i vecchi, anche se si lamentavano che era tutto cambiato, ed era sempre per colpa dei figli.
Ci sono ritornato a Precotto per un farmacista ucciso e per giovani rapinatori – i figli dei figli – troppo sconvolti dalla droga, non capivano che basta sfiorare il grilletto per spegnere una vita e rovinarne troppe altre: ma queste sono scene che si ripetono e si ripetono, nella grande città, dove i soldi finiscono e i soldi circolano, e chi li finisce va prenderli dove circolano. Loro avanti, a sparare, e noi dietro, a cercare prove. Un’altra giostra, ed è impossibile arrivare prima del fattaccio, questa è la nostra condanna, questa è la maledizione dello sbirro.
Gorla, anche Gorla era stato un quartiere bellissimo: con il Naviglio della Martesana, case di cooperative operaie e ville patrizie, Gorla dai perenni colori autunnali. Qui, non lontano dalla fermata emmemme, uno dei serial killer più derelitti della storia del crimine, Gaspare Zinnanti, aveva ucciso un vecchio amico, uno che in passato l’aveva ospitato tante volte: un letto e un piatto in cambio di un po’ di sesso, do ut des. Ne aveva fatti fuori tre, Zinnanti, di simili benefattori, e aveva spinto anche una sconosciuta nella metropolitana, una donnina scelta a caso mentre il treno arrivava, e alla fine s’era ammazzato anche lui, in un istituto psichiatrico, povero disgraziato anche Zinnanti.
A Turro, c’era un altro killer, chiamiamolo pure solitudine. Un’intera palazzina distrutta da uno che andava a braccia aperte verso la morte e se n’era fottuto di vicini, di coinquilini, della gente che passava. Estranei come stracci da far volare. Aveva aperto il gas e aveva infilato in bocca l’ultima sigaretta. Quando l’appartamento era stato bello saturo, immagino che deve averci pensato il classico, milanesissimo attimino. Poi però…
Poi ha acceso un fiammifero – sette od otto vittime, e io ho interrogato i parenti, tutta gente che voleva vivere, che era indaffarata, che aveva un progetto, un figlio, un amore e non pensava alla morte.
Rovereto, quanto ridere… Qui si passa dalle lacrime alle risate nello spazio di una fermata, non siamo in provincia, dove si pensa e si ripensa sempre alla stessa storia, siamo nella laboriosa Milano. Mi ricordo la casa di un gran lavoratore, nel suo business: la ricettazione. Anni e anni trascorsi a tirare sul prezzo con i ladri, e non è mica facile. Ma a furia di trafficare, vendere, comprare, stare attento ai tossici e ai derubati, era diventato talmente prudente e talmente avido da nascondere, all’interno di un muro storto, ottanta chili d’oro. Ottanta. Chili. D’oro. Non si riesce a immaginare. Quando entrammo, all’alba, io mi procurai un piccone, in un cantiere vicino, e ragazzi… Dopo due colpi nel cartongesso, erano sgorgati braccialetti e catenine come se fossero acqua di una fontanella, uno zampillo aureo, e così abbiamo avuto in questura una processione di gente che cercava il cammeo che aveva lasciato in eredità la zietta. Due anni di ziette, migliaia di verbali, maledetto piccone.
Fermata Pasteur, là ho sparato. Ero andato a cercare una ragazza in pericolo. Volete che continui?
La ragazza di Valona stava in un residence modello ospedale, stava insieme ad altre due quindicenni che piangevano, mezze nude e con le bocche spaccate. Erano fuggite dai loro aguzzini ed erano state inseguite nella notte. «Un albanese lo riconosci da come cammina», mi avevano detto, ma non sapevano descrivere come mette i passi questo animale. Chissà dov’è andato a camminare, mentre via radio chiedevo i rinforzi. Per lui avevo messo il colpo in canna. Ho sparato a un’ombra. E adesso so che prima o poi lo troverò, e gli converrà alzare le mani, e inginocchiarsi, e non reagire, stai fermo, i tuoi diritti te li puoi scordare, adesso ti portiamo in un campo, e ti facciamo capire cosa capita ai cani che mordono le bambine e chi non si può difendere, pezzo di merda… No, scusate, fate finta di nulla, non è così che funziona. No, dai, che sto ridendo, ma quale risata diabolica, via…
Siamo a Loreto, piazzale Loreto. È una delle stazioni più caotiche di Milano, qui la linea rosso sangue si confonde con la linea verde putrefazione.
Troppe cose sono successe qui, troppe. Un satanista, uno che ho arrestato a Musocco, con uno zaino pieno di cuori di gatto e candele nere, m’ha detto che qui c’è una delle porte dell’inferno. Non ci credo, credo all’inferno degli uomini, non a quello dei diavoli, ma…
Ma a tutti noi viene da pensare a Mussolini e Claretta Petacci, e ai gerarchi, caviglie legate strettamente ai tralicci del distributore di benzina, crani gonfi appesi a testa in giù, bastonate e sputi sui cadaveri, là a Loreto, nel luogo dove erano stati massacrati, otto mesi prima, quindici partigiani italiani.
I quindici non erano assassini, erano persone che chiedevano la libertà, ed erano stati fatti uscire dal carcere di San Vittore, gli avevano dato una tuta nuova e un falso ordine di «trasferimento per Bergamo», invece il camion dei nazisti li aveva scaricati a piazzale Loreto, e là erano stati disposti a semicerchio. La loro corsa era finita. Qualcuno pianse, qualcuno tentò di svignarsela, nessuno scampò. E i loro corpi crivellati rimasero nel piazzale, guardati a vista dai militi della «Muti», e moglie e figli dei morti piangevano, ma non potevano avvicinarsi, ore e ore accanto ai corpi intoccabili, era agosto, faceva caldo, eh sì, la catena dell’odio può essere infinita, non si dimentica.
E oggi ci sono nuovi eccidi, nuovi orrori, un crescente odio neonato, e come si può sperare che finisca presto, l’inferno di oggi?

Lima, a Lima, anche se so che è sbagliato, mi viene di nuovo da ridere: un folto gruppo di estremisti dei centri sociali aveva aggredito alcuni ragazzi. Pensavano che fossero fascisti, e invece erano subacquei. Avevano i capelli corti per via della muta sintetica, raccoglievano firme non contro gli immigrati, ma per far parte di una qualche federazione. I sub si erano atleticamente difesi bene, ma ancora non credevano ai loro occhi, non ci stavano a essere vittime, così lontani dalla piscina e dagli abissi…
Porta Venezia, eh. La gente ci abita volentieri, è un quartiere popolare e insieme aristocratico. C’è una sola controindicazione all’investimento immobiliare per linde famigliole: è anche il preferito da Cosa Nostra al Nord. I tranquilli cittadini ignorano che in un bar c’è il capo di tutti i picciotti palermitani. Non possono sapere che in un altro bar avevano sparato alla schiena a uno e gli avevano buttato sul cadavere il due di picche, come se fosse una scena di «Apocalypse now». O che quando era morto un vecchio boss, con il feretro seguito da tutte le sue famiglie – la moglie ufficiale, la compagna, l’ultima amante – la banda aveva dovuto suonare la musica del «Padrino». Posteggia male, qui, e ti rubano la macchina, facci caso.
Io passo la mia vita a ricostruire le scene del delitto, io ho dato un volto agli assassini, ho spiegato io alle corti e ai tribunali quando, dove, come e perché ci si annienta. Ormai mi credete, lo so. Seguitemi ancora sottoterra, continuiamo sulla linea 1, la nostra bella, comoda linea rosso sangue: è un viaggio nelle tenebre metropolitane.
Però, scusate, vi vedo strani: siete pallidi. Dici che è il neon, tesoro?
Ma no, è che voi non badate più ai messaggi dell’oscurità. Avete le vostre vite da aggiustare, siete giovani e credete che sarà facile superare gli ostacoli. Invece siamo in un tunnel, della linea 1, certo. Certo. Eppure, tesoro mio, rifletti meglio. Siamo arrivati a Palestro, e qui la mafia ha messo un’autobomba, e ha distrutto il Padiglione d’arte contemporanea. Un pezzo del motore è stato trovato a duecento metri di distanza, ha sfondato una finestra al sesto piano, la deflagrazione ha ucciso tre pompieri, un ghisa e un immigrato senza tetto, che dormiva sulla panchina, la notte del 23 luglio 1993. Cinque morti solo a Milano, e bombe a Firenze, a Roma perché Cosa Nostra aveva un «papello», e cioè un appello, un po’ di richieste scritte da rivolgere allo Stato, o a una parte dello Stato, perché – ragazzi, aprite gli occhi – tutti i poteri sono alla fine lo stesso potere.
Si fottano, loro e le loro coppole, le loro Sante Rosalie da bruciare nel palmo dei picciotti, si fottano con le lupare e il tritolo, gli hanno mandato a dire. Prima ci hanno ragionato, per decenni di anticomunismo, e poi li hanno scaricati, e tutti gli interlocutori si sono voltati dall’altra parte, ma ecco… non è così semplice spezzare i patti con gli assassini. Non è finita, quella sporca storia.
Ma siamo a San Babila, adesso e San Babila è sempre pulita a specchio, è il luogo comune di Milano. Ostentazione del lusso, ipocrisia selvaggia. Le auto migliori passano di qua, vediamo i brianzoli danarosi, e uno di questi era uno degli ultimi sanbabilini, e l’ho trovato ammazzato con un’overdose – ammazzato sì, ne sono convinto, anche se la pratica l’abbiamo archiviata come morte accidentale di un neonazista.
Prima di arrivare in Duomo, il treno rallenta. Un ragazzino aspettava e ha buttato sulle rotaie la bellissima fidanzata e l’ha seguita, uccidendosi allo stesso modo, «una tragedia dell’amore», ma come si può per amore fare una cosa simile? Non era amore, erano omicidi di potere, sei una cosa mia e mia devi restare, erano omicidi di follia, gente malata che s’aggrappa a sentimenti che non conosce e non capisce, per non annegare, e a volte finisce per far annegare chi li aiuta, no, l’amore è un’altra cosa, l’amore è anche sofferenza, è anche gelosia, ma nel rispetto dell’altro – senza rispetto non c’è amore, ma le ragazze questo a volte non lo capiscono proprio. Tu lo capisci, tesoro?
La linea rossa è un filo rosso, prendiamone atto. È quarant’anni che l’hanno costruita, ne sa di cose, potessero parlare le viscere della città.  Dopo piazza Cordusio, largo Cairoli. I morti del Castello, troppi per contarli e ricordarli, sulle panchine del parco e persino nella fontana di De Chirico, e poi Cadorna-Triennale, la nuova stazione, con due bar aperti al primo piano, affacciati sui binari delle Nord, con negozi che vendono «finalmente la nuova carabina ad aria compressa», e «solo a maggiorenni» vendono pure coltelli da commandos, da circo, da samurai, e vendono tute mimetiche e giubbotti, e uno guarda là e si sente tutto un fremito guerresco, Cadorna-Triennale dove una guardia giurata ce l’aveva così tanto con un punkabbestia da sparargli, tum-tum, dagli addosso a quel giovane ubriacone carico di birra e gin che campava in una casa occupata piena di latrati e pulciosi a due e quattro zampe.
Ma l’aveva mancato. Aveva centrato un passante: un commercialista, bello rasato e profumato – che mira.
Non era invece mancata la mira alla fermata dopo, Conciliazione: un tabaccaio di settant’anni aveva difeso eccessivamente l’incasso. Due ragazzi avevano tentato la rapina, ma la pistola gli era caduta di mano, avevano tentato di scappare, ma niente, il tabaccaio li aveva eccessivamente inseguiti per quasi 200 metri e uno – a fine corsa – l’aveva eccessivamente ucciso, l’altro ferito. Pessimo segnale, quella storia, la città era eccessivamente armata e sempre più eccessivamente disposta a sparare. Ogni giorno, Clint Eastwood apre un nuovo, eccessivo negozio.
La fermata di via Mario Pagano è nota per i minchioni delle baby gang, deficienti di quindici anni che si fermano per una canna ai giardinetti dopo aver razziato giubbotti, scarpe e telefonini ai ragazzi più ricchi di corso Vercelli – furti non per mangiare, ma per apparire, poveri scemi tarmati dal consumismo, poveri i poveri che scimmiottano i ricchi di denaro. «Mia madre è morta in un incidente d’auto», «I miei lavorano tutto il giorno», «Mi piacevano le Nike Silver», così si giustificano, e ti viene voglia di dire: «Svegliati, non sei in uno spot, non sei in un film, non sei proprio un cazzo di niente, piccolo, e se non ti svegli e cerchi di fare la tua particina nel mondo, finirai dietro le sbarre, e non è un posto figo, per starci, e nemmeno lì avrai i tuoi genitori, morti o assenti o frustrati o stronzi che siano».
Sono così incazzato che Wagner e De Angeli ci sono passate sotto il naso, mentre guardavo le facce di quelli che viaggiano con noi sul vagone, le facce immobili e inespressive degli anziani, le facce concentrate di chi legge, le facce divertite dei ragazzi impegnati nelle loro discussioni senza senso apparente – ma devono averlo, se ridono così tanto. Scusate, posso andare avanti all’infinito, con le mie storie. Confesso che mi piace chiacchierare a venti metri dalla superficie terrestre milanese: quel gran misto di asfalto, fretta e design.
Gambara. Piazzale Veronica Gambara, dunque, qui c’è della gente che fa del bene, sì, c’è un’associazione benefica, la Milano dal coeur in man, il cuore in mano.
«Ma mansuete greggie e lieti armenti
Scherzar si veggon per li campi insieme,
Pieni d’erbe gentili e vaghi fiori,
Spargendo graziosi e cari odori»
.
Così scriveva la Veronica, era una poetessa rinascimentale, si struggeva con le rime in un’epoca in cui le donne erano madonne, ma da tenere strette al guinzaglio, e c’era la peste, si moriva in strada, e io qui mi sono occupato di un senzacasa, che è stato ucciso per i cartoni del suo posto letto, come se non ci fossero abbastanza spazi e cartoni per dormire all’addiaccio, come i barboni se non andassero tutti a vestirsi e sfamarsi agli stessi indirizzi. La peste di oggi è la povertà incazzata in un mondo dove nessun politico ha conosciuto da vicino la fame.
Vanno in barca, loro. Hanno sette ville, come se avessero sette vite, o sette lavori, e non capiscono quanta umiliazione c’è nel non avere nemmeno i soldi per un «dippiù», uno sfizio, una serata decente.
Bande Nere, oh. Oh, anche qui una tragedia della gelosia in amore. Amore, amore, amore mio, dicono che questa sia una città arida, eppure vedi, tesoro, quanta gente muore in nome e per conto dei sentimenti… C’era uno slavo, dico così perché non mi ricordo il nome, ma so da dove veniva, veniva dalla guerra etnica nell’ex Jugoslavia, e aveva ucciso per strada la donna che aveva avuto un figlio da lui, e ora preferiva un altro uomo, e ci voleva fare un altro figlio. E lui non ha voluto, fine della specie. Non riusciva a convincerla, la mente gli diventava sempre più simile a una stanza stretta, con una porta, chiusa, e nella toppa c’era la chiave per uscire, la chiave era una pistola.
Fermata Primaticcio,

Madre del Crocifisso e della strada
che va dal tabaccaio a Primaticcio,
dove alle sei la sera si dirada
al primato di nuvole rossiccio,

Che volete farci se mi sento ancora poetico? Forse vorrei parlarvi dei giardinetti. Quella strofa l’ha scritta uno che conosce la Milano di sopra, e non, come voi, in questo viaggio insieme a me, la Milano di sotto. Un poeta non sa vedere i giardini di via Odazio, la via dove i ragazzi volteggiavano come foglie e morivano come mosche. Ci volevano sbirri e magistrati, e un criminale – beh, gli avevano anche ammazzato il fratello – disposto a raccontare come stavano davvero le cose con il traffico dell’eroina. Studiammo per mesi la trappola. Fatemi celebrare quella retata storica, la prima che venne organizzata a Milano, anzi la prima grande retata antidroga in Italia. Minchia, vent’anni fa.

Nessuno sfuggì, di quei maledetti maiali
eravamo in servizio, tra mille verbali
celati tra incrostazioni di auto e camion
e il luccichio perverso della carta stagnola
catturammo il pugliese, Dentino e Ramon
e  festeggiammo senza alcol, con una pepsi cola

Tutti eccelsi e catafratti poeti ermetici, oggi. Non trovi che ci sia a Milano un’abbondanza di gente che scrive frasi a capocchia, tesoro?

Fermata Inganni, una delle storie gialle più tristi che mi siano capitate. La vittima era un vecchietto gentile che conviveva con una contessa russa decaduta. Non s’erano rassegnati a perdere il sorriso, amavano stare con gli altri, e il vecchio l’aveva ammazzato un ragazzo, uno che andava allo stesso bar a giocare a carte. Una coltellata per arraffare poche decine di euro. La contessa russa piange ogni sera, da allora.
Bisceglie, capolinea: là c’è il Beccaria, e al carcere minorile e ai suoi inquilini non voglio proprio pensare. Se posso giro alla larga da storie in cui sono coinvolti i minori. C’è chi ha ammazzato il padre, o la madre, i fratelli. Mi fanno incazzare di brutto, quei piccoli criminali.
Mi fanno incazzare perché li perdonerei, perché so che anche le loro famiglie e questo mondo bastardo li hanno aiutati a essere così incapaci di distinguere tra il bene e il male. E, poi, li hanno mandati qua: tutti i ragazzi del capolinea della linea rosso sangue. Non saranno più giovani.
Ne ho accompagnato uno, so che sono simili ai morti, ai morti di cui vi ho parlato, questi cadaveri impietosi, inesorabili nel ricordarci che rischiamo ogni giorno, tutti quanti, di crepare semplicemente perché siamo vivi. Moriamo per amore, per soldi, per sbaglio, moriamo, moriamo, moriamo.

Oh, ragazzi, dai, scusatemi. Davvero. Vi ho detto che era un gioco, mi sono lasciato prendere la mano. Ma qualcosa si vince, è la consapevolezza. Meglio se torniamo alla luce, via, via. Basta con questo frugare nelle interiora di Milano, e nelle nostre. Fuori di qui.
E anche se siamo in corsa, e di corsa, anche se siamo a Milano, proviamo per una volta a fermarci dietro le storie degli altri. Le emozioni non possono restare sempre dentro, sempre sotto, nascoste. Per esempio, se potessi, tesoro, io mi abbraccerei un po’ con te. Purtroppo non ho ancora capito se c’è la fermata giusta per noi.

Da CamminaMilano, ed. No Reply, 2006
a cura di Francesco Buscemi e Daniela Reale
con “passeggiate” di Gerry Scotti, Eugenio Finardi, Piero Colaprico, Alessandra Appiano, Nicoletta Rusconi, Nanni Delbecchi, Gianni Biondillo, Alessandro Bertante, Pao, Alessandro Beretta.
Una quota del ricavato del libro (gli autori hanno rinunciato al loro compenso) verrà devoluta a un progetto di
Medici Senza Frontiere: l’assistenza sanitaria a Cité de Soleil, Haiti, nella attuale emergenza precedente alle elezioni.

 

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6 Commenti

  1. complimenti al cronista nel metrò che ha dissepolto dalle viscere della terra tanta e tanta memoria, e tanto presente immediato e recente che spesso passa inosservato o velocemente viene inghiottito dall’oblio. Sarei stata un po’ curiosa di saper qualcosa dell’altra biforcazione, quella che passa per i quartieri ricchi di Fiera, Buonarroti, Bande Nere, per poi gradualmente passare alle zone residenzial-popolari di Bonola, Uruguay, Lampugnano, QT8, Molino-Dorino (magari saranno negli altri racconti).
    poi ci sono, ci sarebbero tanti tanti altri racconti e tanti mondi, di passati recenti e momenti presenti, come quelli degli immigrati di via Padova che son compresi tra le fermate di Loreto e Pasteur, le macellerie islamiche e la moschea un po’ più su, e sulla tratta Pasteur-Gorla i baretti dove gli abitanti di zona si riuniscono ancora a chiacchierare e giocare a carte, e gli arabi sostano e si incontrano lì fuori come da loro tradizione, facendo della strada un luogo relazionale. E Gorla, angolo di poesia dove gli abitanti si riappropriano della Martesana, si spogliano dei loro ruoli settimanali, e passeggiano e chiacchierano e vanno in bici e sostano guardando gli uccelli acquatici.
    Certo, vedendo quel grosso snodo circolatorio e anonimo che è oggi Piazzale Loreto, è difficile con l’immaginazione tornare ai fatti di Mussolini e della Petacci.

  2. grazie Gianni, un motivo in più per leggerlo. Un libro di metro, passeggiate, luoghi e memorie è per me un richiamo irresistibile. lo presentate o lo avete già fatto? e dove lo si trova più facilmente?

  3. abito a Milano, proprio sulla tratta della linea rossa…. cerco di fare un salto allora, l’argomento mi interessa molto per svariati motivi. saluti

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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