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La Restaurazione

ferdinandoI.jpgovvero il sesto capitolo di Prove tecniche di romanzo storico

di Marco Palasciano

1.

Napoli, 9 giugno

Tronfio, gonfio, il Borbone…
…a un asino siciliano bardato a festa…
Due bravi dalle crocchie reticellate, col baffutissimo ceffo che era un’avvisaglia di morte…
…le povere lumachine che avevano invaso il suolo inumidito dalle recenti piogge di lacrime…
Il sangue delle lumache si meschiava – bella variante: meschiava
Non solo a Capua ma pure a Napoli l’Austria aveva…
…su mandato dell’ONU.
I napoletani che non volevano lasciarsi strappare…
…ammansiti, festavano…
…rivoltose solo le gabbane…
…Ferdinando IV, che sull’isola s’era incapricciato di farsi chiamare Ferdinando III, e ora s’incapricciava di farsi chiamare Ferdinando I, per sentirsi più giovane…
…vecchione di sessantaquattr’anni…
…sul suo asino…
…bravi…
Dietro al trio si snodavano dondolando grandiosi elefanti baldacchinati, guitti a testa in giù, coccodrilloni tenuti per le briglie da sorridenti danzatrici…
…altre orribili chimere.
…i giganti Gog e Magog…
…il gigantesco Uccello Rock…
…enorme gabbia trainata da cento cavalli neri.
…drappello di grossi pesci tropicali con le gambe…
…uomini con testa di tacchino…
…piattaforma su ruote dalla quale…
…alti e strazianti i trilli del violino maledetto di un diabolico zingaro dai capelli come una bianca foresta di spettri e gli occhi di rospo, sempre aperti, senza palpebre, gialli come la morte, che non sorrideva mai.
…scoppiavano le risate di dodici meretrici sature di cosmetici che si sventagliavano su un carro tirato da un nudo muscolosissimo schiavo moresco.
Puttini adorni di alucce finte sgattaiolavano fra le gambe degli struzzi e raccoltene le piume facevano il solletico ai testicoli dei tori…
…alle grandi orecchie del Coniglio.
I soldati con le alabarde e i paggi con gli stendardi sollevavano polvere a bella posta per accecare le minuscole farfalle da cui si erano travestite le fate per spiare la cosa.
Tronfio, gonfio, il Borbone conduceva…
…sorrideva.
Nella sua ombra fermentavano come un groviglio di vermi le triste lamie della dissoluzione.

2.

Corridoio oscuro.
Come frustate, come frustate volte a procurare il più rovente dolore, come frustate i colpi dei passi dei piedi del re, del vecchio infagottato rettile maleodorante re Borbone, del vecchio re senz’amore Ferdinando IV, Ferdinando III, Ferdinando I, come frustate i passi di Ferdinando I scavavano silenziose urla di sgomento nella pietra dei pavimenti del palazzo, il palazzo ora senza sole dove si dissipavano gli ultimi echi del solare profumo di Carolina, di Gioacchino, delle rose, e dalle finestre Ferdinando I compiaciuto sbirciava, passando per corridoi dove al suo passaggio le molecole dell’aria si paralizzavano, sbirciava nel giardino i giardinieri che sradicavano le belle aiole e al posto dei fiori francesi piantavano nere oscene dionee, piantavano quello che piaceva al re, al cuore di re Ferdinando I, al nero e osceno cuore insettivoro di re Ferdinando I di Borbone. Restaurato sul trono di Napoli. Andava a restaurarsi là. Sul trono. Il trono nella sala del trono. La sala del trono di Ferdinando I re di Napoli. Re di Napoli e delle Due Sicilie. Due, non più quell’una sola su cui era rimasto per tutto questo tempo isolato. Due. Le Due Sicilie. Ah ah songo nu grande figli’ ‘e ndrocchia! m’arricordo quando schiattò di crepacuore quel povero maronno dell’abate, noialtri pazziavamo c’ ‘o pallone, quello passa davanti lungo lungo nel paltò nero col cappello nero lungo lungo a tubo con quella faccia – dio Cazzo, che faccia! di schiattamorto! schiatta! perfino i capelli bianchi, esso, a vent’anni! tanti quanti n’avevo io! e io ero un marcantonio! – e lo faccio pigliare e i guaglioni lo pigliano e quello bianco bianco sbianca ah ah! pigliatemi una coperta, facite ambressa! pìgliano la coperta la stendiamo mettiamoci l’abate, la solleviamo con otto mani – tenìtela bbuono! tirate! – e ncoppa! ncoppa va l’abate, vulanno! l’abate vola! vola l’abate! e giù, ripiomba dinto alla coperta! e hóh: di nuovo ncoppa! vola! azz e comme vola! pare ‘e carta! e abbascio, patatunf! e di nuovo ncoppa! e mi ci sono addivertito nu bellu poco, me pare na mez’ora, e quello sempre più bianco, e urlava, dio Cazzo se urlava: scendere voleva! e scendeva, ah, però risaliva! vulava! l’aggio fatto volare per mezz’ora e alla fine, buttato là pe terra comme nu millepiedi ciaccato mezzo vivo e mezzo muorto, comme chiagneva! e dopo, il poveriello, come si chiamava, l’abate Mazinga, no, Mazzinghi, fa protestar la corte di Toscana, ma a me che me ne mporta, tanto “dopo alcuni mesi di melanconia si morì”.
Ma ora il re non ha più vent’anni.
Non gode più gli spasmi di quel brio.
Non possiede più quei bicipiti che gli facevano scaraventare i più pesanti libri a cento metri.
I precettori si disperavano, vagando smorti nelle loro toghe per la biblioteca disertata da lui, che su lontani campi da gioco si esercitava a prendere a calci l’etichetta.
Gli piaceva travestirsi da oste o pescivendolo e servire il suo manipolo di cadetti travestiti da clienti, e la sua giovane moglie Maria Carolina doveva pure travestirsi.
Fu il più ignorante re del mondo.
Vietava lo scrivere, nelle riunioni, per raccorciarle al massimo; e riuscendogli penoso firmare, adoperava un timbro.
Chiamava gli scrittori pennaruli.
Conduceva una politica fallimentare, e non ci fosse stata la moglie a raddrizzargliela se la sarebbe vista liquefarsi.
Tra le sue mani, lo Stato era come un bambolotto di pezza tra le mani di un bambino pazzo con un paio di forbici tra le mani.
Poi vennero i francesi e fuggì.
Se ne andarono i francesi e tornò.
Tornarono i francesi e andò di nuovo via.
Ora è di nuovo qui, e fa cancellare tutto ciò che è francese.
Peccato che Murat abbia riorganizzato le leggi così bene, altrimenti potrebbero cancellarsi pure quelle; ma prodigiosamente i ministri hanno saputo farlo ragionare, il Restaurato.
Via la puzza di rose, però.
Ed eccolo, il suo trono.
Ombre…

3.

Lontano, sul gran mare verde e acido di bave, tranciava le onde il vascello della dolente Carolina. Stava a prua, statuaria, le mani nel manicotto di pelo sintetico e i capelli liberi nel freddo vento dell’esilio, come una madonna senza velo, una niobe senza lacrime, una fiera regina quale era stata. E fiero le rimaneva il volto, fiero e venusto: belligeranza e bellezza. Del che era disadorna la figura del marinaio che alle sue spalle s’appressava, impronto.
– Milady, non è meglio se scendete sottocoperta?
E lei, senza voltarsi: – Non curatevi di me.
– Dobbiamo. Foste affidata alle nostre cure.
– Curatevi allora di lasciarmi in pace.
Boh!, si disse quello, e con un dietrofront uscì di scena.
L’ex regina guardava fisso l’orizzonte nebuloso di violacei patemi. Giorni prima, quando ancora si era alla fonda nel porto di Napoli, aveva dovuto assistere mesta ai festeggiamenti pirotecnici per il ritorno del Borbone, che trasformavano la città in una torta di compleanno le cui diecimila candeline volavano impazzite come lemming celesti che vanno a schiattare in cielo con una grandiosità che era un deprofundis spettacolarizzato. Il volto della luna e il volto di Carolina avevano espresso una indifferenza uguale. Barche di manigoldi venivano a sciamare intorno alla nave per dileggiarla, vili!, cantandole canzoni canzonatorie. Mandolin mandolen. Anche allora lei ristava, eretta e imperturbata, mai abbassando gli occhi. E poi, quando ritiràti gli ormeggi e staccatasi dal porto la nave della esule aveva incontrato la veniente nave del Borbone trionfante, il disgustoso ammiraglio Campbell lisciandole viscidamente la serica manica con la flaccida chela di ciccione le aveva gorgogliato mellifluo: mia cara, non atterritevi se ora udrete un fragore micidiale, giacché non è un mio flatulus, ma solo un colpo di cannone a salve sparato per omaggiare il restaurando sovrano la cui rotta qui stiamo ad incrociar. E lei gli replicò, sdegnata da tanto sfottere, che noi Bonaparte siamo ben avvezzi a simili artiglierie. E piantàtela di strusciarvi.
Ora l’orizzonte, nebuloso di violacei patemi, le parlava di Gioacchino e di morte.
Vòltati, Carolina.
Si voltò.
Un solitario petalo di rosa cadeva lentamente, come una fata morta, a vite fra le vele; e il vento, che gonfiava quelle, miracolosamente non disturbava la grazia di quel cadere.

4.

Il culo di Ferdinando I era pieno e lucido, d’un bianco cadaverico, ma – come un’antica porcellana – ricoperto da un intrico di crepe sottili; le più appariscenti s’affoltavano intorno alle dolci curve conclusive. All’ano faceva corona una zona giallognola di grinze che parlavano di deserti e di crocifissioni. Quel foro, semiaperto, aveva l’orlo incrostato di pluriennali fecami; ed era un foro che occorreva baciare, se si desiderava sopravvivere. Il re esponeva; e i generali che erano stati al servizio di Murat, e avevano sporto domanda per tornare al servizio del Borbone, dovevano avvicinarsi a uno a uno e sforzarsi di leccare quella pelle velenosa, fino a sprofondare con l’intera lingua nello sfintere e là agitare la punta papillata a titillare la mucosa del retto finché il re non si dichiarava soddisfatto dell’anilinguo e concedeva al miserabile l’agio di distaccarsi dalla sua persona e correre a sciacquarsi la bocca. Tutti dovettero sottostare all’abominio, trattenendo il vomito fino a che non fossero fuori della sala. Alla fine il re si tirò sù le brache di clown e proclamò con un sorriso infame:
– Credo che gradirò i vostri servizi.
Si avanzò quindi nella sala restata deserta la echeggiante risata della nuova moglie del re, le mani sulle anche, ancheggiante, Lucia Migliaccio vedova Partanna; portava i capelli alla Messalina e aveva trentasei denti di marmo. Quando era finita la moglie vecchia, il re aveva lacricoccodrillato un po’ di lutto e nel giro di un mese e mezzo s’era già infilato in quest’altro matrimonio. Il principe Francesco aveva con dolore protestato, e Ferdinando I aveva risposto: pienze a màmmeta, figlio mio, pienze a màmmeta – alla sua non meno agile empietà. Maria Carolina aveva preso accanto al re il posto di Maria Giuseppa, morta sull’altare, prima ancora che il cadavere uscisse dalla chiesa. Ora l’ultima arrivata, la Lucia, venne a palpargli le parti basse e disse, catarrosa:
– Ferdinandello s’è pisciato sotto.
– Chi, io?
– No, vostro nipote.
(Ferdinando II aveva cinque anni. Nel 1800 c’era stato un altro piccolo Ferdinando, la cui vita può contenersi in un breve aneddoto. Era usanza che per ogni parto regale venissero accordate tre grazie, a scelta della puerpera; la puerpera di turno, Maria Clementina prima moglie del principe Francesco, volle concentrarle tutte e tre in un’unica grazia; scrisse così un nome e spillò la carta su una fascia del neonato, cosicché quando nonno Ferdinando venne a prenderlo in braccio si ritrovò quel nome sotto gli occhi. Che si fecero rossi. Luisa Sanfelice avrebbe già dovuto giustiziarsi svariati mesi prima, ma scopertala gravida – e il re aveva voluto ispezionarle il ventre con le proprie mani – si era dovuto aspettare che si sgravasse, e ora che si sgravava, sui pietroni del suo carcere palermitano, doveva morire. Inutilmente ebbe Maria Clementina a invocare clemenza per la sua infelice collega di sgravio; tutto ciò che ottenne da Ferdinando I fu di farsi da lui buttare in faccia come un fagottino di cenci il piccolo principe, che presto morì, così come lei e – per via più innaturale – la Sanfelice. Al posto di Maria Clementina venne poi, poco più d’un lustro fa, Maria Isabella; madre, appunto, di Ferdinando II.)
– Embè?
– S’è pisciato sotto per la paura.
– Paura di che?
– Di quell’ammazzastreghe del principe di Canosa. Ferdinandello l’ha scambiato per l’omo nero.
– E io che ci devo fare?
– Per esempio, potreste dirgli di non girare per il palazzo con in mano le viscere fumanti strappate alle sue vittime.
– Chi, Fernandello?
– Ma no, il principe di Canosa!
(Antonio Capece Minutolo principe di Canosa era un nerovestito draculesco vecchione di cinquantadue anni, dedito alle più arabescate forme d’inchiesta poliziesca. Presiedeva difatti l’apposito ministero; apice, questo, della sua carriera di borboniano, giacché già al Borbone aveva reso eccellenti servizi durante il dominio francese, origliando di qua, spiattellando di là, e lavorandosi i congressisti di Vienna con grande spagnoleria.)
– Embè?
– Non vi sembra esagerato?
– Che cosa?
– Le viscere fumanti. Per non parlare delle sue lunghe collane di globi oculari estrusi.
– È strunzo, ‘o ssapimmo, però è bravo assai. Grazie a isso mi stongo a libberare di tutti i sovversivi, in terra e in mare.
– Ma non vi sembra, invero, un poco sadico?
– Ué, smettila cu ‘ste parole francese e avàsciati le mutande, ché mi hai fatto rizzare.
– Mmm. Maestà, Maestà, voi sì che siete un uomo!
Già snudava il re con la manona la tetta della moglie; bianca, impreziosita da un nero capezzolo smisurato, e venata di varici pastello, che la facevano simile a un ciclopico bulbo oculare estruso; quando vi fu un’apparizione. Un’ombra velata di alghe, un languido spettro di condottiero naufrago dai lunghi capelli di rockstar, si affacciò per un attimo nel vano d’un finestrone che metteva sul golfo. E il re esclamò, gelandosi:
– Caracciolo!

[tratto da Marco Palasciano, Prove tecniche di romanzo storico, Lavieri, Caserta 2006, pp. 83-94.
*
“Marco Palasciano è nato a Capua nel 1968. È stato finalista, per tre volte consecutive, al Premio Calvino.”
*
Dalla nota di copertina:
“Il libello qui riprodotto, compilato da Marco Palasciano nel lontano 1992, è un tour de farce storico ad uso dei contemporanei. Le 95 tesi affisse intonano un “inno carnascialesco senza pari nel catalogo delle disordinerie”: le vicende del Regno di Napoli, tra amorazzi e tirannide borbonica, sono percorse con l’esattezza di una “catasterizzazione all’incontrario”, fantastica e implausibile (…). Il fugato dei generi – a distanza siderale dalla medietas della lingua presente – attinge agli immensi stoccaggi della tradizione, fonde in melodramma e libro di regia, rotocalco e polpettone cinematografico, piazzata conciliare e “gioco senza frontiere” del Congresso di Vienna. Il contrappunto delle forme e della lingua viene impresso sulla lastra della Napoli borbonica, segno rovesciato della Paperopoli presente. (…)”]

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95 Commenti

  1. Mamma mia, che grande scrittore! e chi ne sapeva niente.
    Colpa esclusivamente mia, ammetto.

    Unico appunto, l’eccesso scatologico. Ma pel nostro Lazzarone questo e altro.

  2. Perché Moresco sente il bisogno di nascondersi dietro un nick quando il suo stile è inconfondibile? (e poi si tradisce già nel titolo!). Piuttosto, noto con piacere un ritorno alle origini, a La pelliccia del ’72, un racconto ingiustamente dimenticato (censurato?) e a mio avviso superiore a La cipolla.

  3. Di là dall’arguzia corrosiva del satyrus etymologicus (ma chissà che non si lanci sul serio in un’incursione sul Giovane Moresco…), bella mi sembra la scelta del passo di Prove, che Raos ha inserito. Pur non facendo il paio con la Restaurazione apparsa in NI, separata inoltre da un ampio stacco cronologico – se il capitolo del romanzo era com’è adesso già nel ’92 -, qualche ingranaggio ancora si incastra nell’attualità, con caratteristico tinnio brechtiano. ;-)

  4. Eh caru Miku, lei la fa fa fa facile, ma io non cadrò nella trappola di NI come quel criticucolo crocoterico di db, e La pelliccia la venderò a caro prezzo: sotto con le offerte dunque, la mezzasta è iniziata! (astenersi borboni e taugennicti).

  5. @db, qp, pb, bp (in sintesi a te, proteico diblista)

    Nulla anticipazione? Non vedo bourboni né tau-gonotti in giro.

  6. La mezzasta langue: lungi da me far annusare La pelliccia, che risalendo al ’72 può logicamente lambire solo il campo semantico della restaurazione, e solo via restauro (come del resto io lambisco solo C. Benedetti, da cui più che il sesso mi divide il passo, provenendo io da esperienze più che altro musicali – sono più noto come dj Nedetti). Tutt’al più, giusto per riscaldar l’ambiente, posso postare una petite prose du séminaire, che risente ancora di un certo eremitico ermetismo (quando il Nostro si firmava ancora Palasciana Moresca):

    LA BICICLETTA

    Giammai, scoccata da una man feroce, dall’arco teso non fuggì saetta come sul suo sentier corre veloce la bicicletta. Volan le rote e mentre sulla via nessun rumor presso di lei si sente, qualche imbecille al corridore invia un accidente. A me che importa se della canaglia m’insegue il riso o il mormorar d’alcuni, se l’iniqua parola altri mi scaglia o il molla Buni? Io corro, io volo sulla bicicletta, questo ideal delle cavalcature: chi soffre d’emorroidi o di bolletta m’insulti pure, ch’io son beata e un fremito m’assale, mi avvolge un’onda di piacer sovrano quando vengo stringendo il trionfale manubrio in mano. Io son beata allor che fra le gambe sento il rigido ordigno e in quegli istanti tendo le coscie e l’agitar d’entrambe lo spinge avanti.

  7. Ragazzi, Marco Palasciano non è Moresco, non ha nulla a che fare con Moresco, Moresco a sua volta non è Palasciano e non ha nulla a che fare con Palasciano.

    Hegelizzando al contrario, si potrebbe dire che:

    tutto ciò che è Palasciano non è Moresco, tutto ciò che è Moresco non è Palasciano

  8. Scusatemi se sono poco incline (questa sera) a tessere con voi alte goliardate; ahimè, sono rèdito da una giornata universitaria tutto scassato!, schiena senildolente; e lasso è il cerebro. Stanotte ho dormito 3 ore sacrificando il resto alla scrittura (d’una inutile lettera), stamattina sono zompato sul treno Capua-Napoli, in facoltà a ffinale pinocchiosamente non ho seguito nessuna lezione (cazzeggiando tra ’l verde e ’l sol del chiostro) perché i miei iuniori amici mi hanno allucignolato; indi mentre la piú parte d’essi è andata a una lezione di Varvaro filologo insigne, una a me cara coppietta, ebbra di baci a seminare il mondo, m’ha scortato a un convegno sull’uranofobia al Maschio Angioino (lui cogliendo per lei in quei prati non so che rosoide e restandone ohibò spinato al dito); e gl’interventi eran fecondi ma stanchezza m’ha tradito e son partito. In treno ero col mio migliore amico, frattanto slezionatosi, che m’ha fatto sfogliare un bel fumoso Codice, non da Vinci bensì di Perelà. E ora eccomi qua. Ma che dire? Voi parlate talora in codice, né danbraunesco né palazzeschesco, e faticar dovrò pazzescamente a bisturar tanto gordiame, ohi lasso. Mumble, intanto perché siete cosí fissati con Moresco? (Io al 1992 m’ero formato su Márquez, Busi e Joyce, tanto per dirne tre.)

  9. Palasciano
    giungesti fin le madri capuane
    o ti fermasti al vincolo di pater?
    Se passi davanti a casa dell’Errico
    dei Malatesta capuaveterando
    porta ‘l saluto mio (du Furlen)
    e Armando (diego)
    effeffe
    ps
    lo vidisti il ferdinando di Annibale Ruccello?

  10. oh Palasciano tu serbi nel nome la disfatta!
    ps: messaggio in codice per un concittadino senza soccorso.

  11. Non so chi sia
    questa Maria:
    a Capua mia
    vive o vivìa?

    Se all’ospedale
    cui tarpan l’ale
    mira il suo strale,
    mi par banale:

    all’antenato
    è intitolato,
    e il crudo fato
    lo vuol smontato;

    ma il nome mio,
    e del prozio,
    a altro – cred’io –
    rimanda, oddio!,

    che un miser pronto
    soccorso in smonto;
    si renda conto,
    spirito impronto!

  12. Per monsieur Forlani: sì, ma lo vidi in televisione qualch’anno or è, non a teatro ahimè.

  13. Dico al Di Benedetti
    basta che ti connetti
    e vedi il Palasciano
    seduto accanto Al fa(u)no
    moro sì, non Moresco
    con fare pedantesco.

    Non è banale il male
    signore mio del vivere
    sibbene dello scrivere
    parva meno regale.

    E’ lutto cittadino
    se uccidono il diritto
    alla salute è scritto
    col sangue, e beva vino
    lei e non se n’abbia a male,
    caro concittadino,
    se noi non c’incontrammo
    forse non fu gran danno.

  14. A parte che sono astemio: la presunta signorina Maria da Capua mi vuol forse colpevolizzare, avanti al mondo, di non aver mosso un digitus per soccorrere il pronto soccorso dell’ospedale? Ci spieghi allora quale peso potevo avere nella politica sanitario-infrastrutturale della regione Campania, io che non sono né un medico né un politico ma un mendíco poliedrico e per sola ricchezza nomina nuda tenemus (e lei?).

    Quanto a movimentazioni m’è bastata quella del 1999-2000 pei reperti archeologici scafacciandi dal Terato-Accelerante Veicolo, s’informi, non sono un ciondolone. E pur sarebbe stato piú intonato a ducerla un archeologo, probabilmente, non io che non distinguo un affisso da un’antefissa. I chi-di-dovere latitavano: me mi mosse la passionalità; ma visto il nullo effetto, meglio avrei fatto ad investirla altrove.

    E lei, invece di sfoderare quella spada moscia che è la dicotomia vivere/scrivere, si limiti a commentare pacificamente la mia opera letteraria, ché dovrebbe essere qui per questo. Azz!

  15. mi scusi, ma sa com’è…anche se ha ricevuto un’impressione fallace, di “spade mosce”io proprio non me ne intendo.

  16. va bene.
    a me queste cose di palasciano piacciono, mentre i commenti prendono invece un andazzo noioso, qui e altrove.
    invece sarei grato a chi mi dicesse che c. è l’uranofobia.
    tipo.

  17. grazie miku.
    l’elenco delle fobie su wikipedia è davvero bello.
    uranofobia è “paura del cielo”.
    li capisco, gli uranofobi.
    ora monto sulla moto, mi aspettano rampe e viadotti.
    e chissà che altro.

  18. No no, aspettate aspettate, non pensavo all’«uranofobia» come paura del cielo!: semplicemente intendevo coniare lì per lì un miteggiante sinonimo di «omofobia», cioè paura dell’omosessualità.

    Difatti un sinonimo di «omosessuale» è «uranista», da Afrodite Urania, dea che Platone nel Simposio associa all’amore omosessuale (visto come più spirituale) in opposizione ad Afrodite Pandèmia, associata all’amore eterosessuale (visto come più materiale).

    Chiariamo, qui ho solo spiegato il termine: non voglio assolutamente dire che l’omosessualità sia più spirituale del’eterosessualità; non sono mica quell’eterofobo di Platone! ;)

    Il convegno di cui sopra, per l’esattezza, si intitolava “Contro l’omofobia una città inclusiva”; e celebrava l’istituzione del 17 maggio come Giornata mondiale contro l’omofobia.

    Quanto al titolo Prove tecniche di romanzo storico, descrive esattamente ciò che il testo è. L’autore (il me stesso del 1992), desiderando scrivere un domani un gran romanzo storico – o forse metastorico – sulla vita di Ferdinando Palasciano (1815-1891), comincia a scaldare i motori con quest’operina, dove descrive gli eventi del Decennio francese nel Regno di Napoli; periodo il quale ha terminus ad quem con la Restaurazione di Ferdinando I di Borbone ma anche, appunto, con la nascita di Ferdinando Palasciano.

    E nel descrivere gli eventi, il giovane autore o meglio autoironizzatore fa un utilizzo affatto strumentale della nota frase di Einstein «L’immaginazione è più importante della conoscenza»: con gli effetti che già avete potuto contemplare nell’assaggio postato da Andrea Raos. Lo statuto esercitativo legittima l’operazione, e il gioco è fatto.

  19. Il signor C. Delenda è un copione! “La bicicletta” è tratto dalle “Rime” della fantomatica Argia Sbolenfi, creazione di Olindo Guerrini (1845-1916), alias Lorenzo Stecchetti, col quale pseudonimo il Guerrini firmava le prefazioni a libri di versi suoi ch’attribuiva ad altri, come il suddetto “Rime”, il quale caverete per intero dall’indirizzo http://www.gutenberg.org/files/17847/17847-8.txt

    Vedasi anche https://www.nazioneindiana.com/2006/05/14/ladri-dinverno/ … dove O. Lindo (alias C. Delenda?) riporta pari pari un sonetto, «E pur mi sento nel cervello anch’io», sempre del Guerrini!

    (Io invece, modestamente, non ho bisogno di copiare… io sono un poeta…)

    ;)

  20. na vota ci dicevano agli omosessuali
    ch’erano uranisti, ecco,
    ma non capii mai che c’entrava Urano
    che i figli suoi se li magnava a bocconi e pezzetti,
    o forse in guazzetto,
    invero

    MarioB.

  21. Veramente: Urano, che aveva il brutto vizio di tenere chiusi i suoi mostruosi e titanici figli nel grembo della Terra, un po’ appesantita dalle millenarie gestazioni, fu castrato da Crono (afflitto dal complesso edipico almeno un migliaio di generazioni mitiche prima della saga edipica dei Labdacidi), con la freudiana complicità della Terra stessa, che se lo acquattò, tutto armato di falce adamantina, nella cavernosa matrice (donde Urano, il cielo, perse connotati e orientamenti virili -dal che omosessualità maschile -solo maschile-=uranismo); il pene di Urano venne scaraventato nel mare dal figliolo, che fece dell’organo generatore paterno l’asse del mondo. Crono stesso era il buongustaio aduso a mangiare i suoi figli -temendo l’oracolo di Urano, che gli preannunciava la detronizzazione da parte del suo più forte rampollo. Li mangiava più che altro al naturale, essendo il mondo preolimpico alquanto disarmonico e sprovvisto di gourmet. L’imbandigione cannibalica paterna avveniva, of course, con grande cruccio di Rea, che, da brava dea madre, chiesto aiuto alla Terra, madre delle madri, nascose il suo ultimo cucciolotto rumoroso, un certo Zeus, nelle profondità del monte Ida (o del monte Ditte, fate vobis) di Creta (dove già in età micenea, come recitano robotiche tavolette in lineare B, si offrivano a Zeus Ditteo, nel mese delle rose, ex voto in termini di sacrifici, forse anche umani). Il summentovato frugoletto, essendo un po’ Tonante, abbisognò di balie casinare (i coribanti o cureti), rappers percussori di bronzo ingaggiati ad hoc a ciò ne coprissero il baccano puerile, perché Crono non si avvedesse di aver ingoiato, al posto di Zeus, un grosso men-hir (che allora in Eurasia era di moda). Zeus poi sconfisse Crono, ma dovette mangiarsi la sua prima mogliettina, Metis, perché non partorisse un figlio capace di spodestarlo. Ma il pranzetto pesantuccio fece venire a Zeus un gran mal di testa. Efesto gli fornì un “moment” sotto forma di accettata di bronzo sul cranio, dalla cui spaccata uscì, già armata e urlante, la dea dagli occhi di civetta, Atena, urlatrice e predatrice.

    In sostanza, divagazioni e mitologemi paleolitici a parte (molto più interessanti, per me): omosessualità, termine generico per indicare l’amore per lo stesso sesso; uranismo: omosessualità maschile; lesbismo: omosessualità femminile. Poi ci sono i gustosi termini dialettali, da omettersi per la connotazione potenzialmente offensiva.

  22. Mi sembrano anche molto offensive: pregherei perciò i moderatori del blog, se un blog possiede moderatori, di cancellare la stronzata delle 10.41 di quel pezzo di merda che si è firmato A. Menadito, e i messaggi successivi (resi inutili dalla cancellazione), fino a questo messaggio incluso.

  23. Le mie scuse a Palasciano, sarei dovuto intervenire prima.

    Censuro il commento di A. Menadito (e lascio traccia della censura). Invito l’autore a smetterla di dire scemenze.

  24. Mi permetta Daniele Ventre di dissentire dalla sua interpretazione del termine «uranismo» come associato alla castrazione di Urano, il quale così, a suo dire, «perse connotati e orientamenti virili – dal che omosessualità maschile = uranismo».

    Finanche la sua amata Wikipedia riporta che, piuttosto, «Uranismo è un prestito dal tedesco Urningtum, creato nel 1864 dal militante omosessuale Karl Heinrich Ulrichs (1825-1895), che lo aveva coniato sul nome di Afrodite Urania», come avevo già spiegato: e non di Urano.

    Non vedo poi come si possano paragonare per es. Achille e Patroclo a due castrati. E per i guerrieri spartani, omosessualità e virilità erano praticamente sinonimi.

    Mi sembrano molto più checcoidi i vari Olindi e Sofronie che inquinano di scherzi puerili e tediosi questa e altre discussioni anziché fare un minimo di critica letteraria, anche di grado zero purché on topic, della qual cosa forse sono incapaci. Non trova?

  25. Dario Borso, alias Menadito: non faccio che stupirmi di come un essere profondamente PICCINO, nonché omofobo, come te possa insegnare all’università, ed insegnare filosofia. Non hai ancora capito che il 90% delle volte faresti cosa buona e giusta stando semplicemente zitto?

  26. p.s. bravo Raos! Quando ho letto quella “cosa” ho avuto un attacco di gastrite (tanto per cambiare) :-)

  27. @Palasciano

    Il GRADIT recita:

    uranismo /ura’nizmo/ (u.ra.ni.smo) s.m. + psic. [1895; der. di Urano, nome di un dio greco che secondo la leggenda avrebbe subito la mutilazione dei genitali, con –ismo, cfr. ted. Uranismus, 1860] omosessualità maschile passiva.

  28. Ma che alias e alias, ma che uranismo omofobo! Io ero e sono, consisto e cado nel vulcanismo ignifugo – nel senso ovvio che lin can descente critica, il critico stiletto va tosto raffreddato in acqua/in bocca. Pecciòa…

    1) vuolsi l’ocalizzare Palasciana Moresca, non puotesi non partire von der Skapigliatur, momento inaugurale (per quanto italiolettico) del Modern (nella sua jam/fusion di Zivilisation+Kultur, talché nel caso nostro a scavillare dovrebbesi parlare di Skultur) – claro, nel suo vivace metamorfomorfometamorfizzarsi dalla diade primigenia Stekketti/Guerrini per vie fatalmente dionisiaco-dionisottiche i.e. (inter)regionali: da Milano a Mantova (dove la linea demostenicastenica fa tappa su una deliziosa La capretta già postapparata in Ubique) fin là a Mason (dove ancor viva è la scriminatura orale di una perfecta kvartina:

    dìn dèn dòn
    e canpane de Mason
    che e sona tanto forte
    che e bate xo e porte

    ) Ma: Pavia, dove grazie a Maria s’è recuperata (Fondo manoscritti) la prima gemma inedita di una forma-racconto: La pelliccia appunto, di cui daremo a tempo suo (stagionale appunto i.e. invernale) la confezione che si merita.
    Che infine, via Sardegna, la corrente lombarda sia approdata a un, più che bombardato, direi cartolinesco port’e Napule… (lì, dove la critica s’ingolfa nella vita)…

  29. Karl Heinrich Ulrichs prese DICHIARATAMENTE spunto dal Simposio di Platone, dove si cita Afrodite Urania come “patrona” dell’amore omosessuale, e NON dal mito di Urano; perciò il Gradit sbaglia.

    “Urning” e il suo femminile “urningin” furono utilizzati da Ulrichs, che li aveva coniati, nei suoi saggi pubblicati tra il 1864 e 1875: quindi ben prima dell’anno 1895 indicato dal Gradit.

    Ulrichs coniò anche altri termini tra cui “dioninga” per eterosessuale, “uranodioninga” per bisessuale, e “uraniastra” per pseudomosessuale.

    Solo “uranismo” ebbe un qualche successo in Italia, come testimonia l’uso fattone da Scipio Scighele in “La coppia criminale” (1892) e da Marc André Raffalovich in “L’uranismo” (1896).

  30. Il parrucchiere di Kierkegaard, aka D.B., si astenga dal femminilizzare e moreschizzare in “Palasciana Moresca” il nome di Marco Palasciano, please.

  31. Devoto-Oli dice:

    uranismo
    s.m.
    La forma passiva dell’omosessualità maschile, caratterizzata da una sessualità psichica orientata in senso femminile.
    Dal nome del dio Urano, che secondo la leggenda sarebbe stato affetto da questo comportamento dopo essere stato mutilato dei genitali | 1905

    Insomma i dizionari sono concordi.

    Il termine Uranismus, in tedesco entra nell’uso con Ulrichs. L’etimologia del Duden è questa:

    U|ra|nis|mus, der; – [da Urania, appellativo della dea greca dell’amore Afrodite (suo padre Urano sembra averla generata senza una donna)] (raro): omosessualità [maschile].

  32. I dizionari italioti sono concordi perché l’errore è stato trasmesso, evidentemente. Il Duden ci azzecca. Però forse avrebbe dovuto citare Ulrichs, da cui tutto è partito.

  33. La carne al fuoco (=vulcanismo) è molta, qualche pezzo suc cul ento cade dal tavolo dell’epulone, come questo di Tina (la rivistina) all’inizio del thread

    http://www.matteobb.com/tina/2003-01-palasciani.html

    dove compare il due/duale/sororale delle zitelle. E poi dicono che non ci sono i contributi! sveglia, che sennò si va dritti in pensione!

    detto da un lombardo-veneto-austro-ungarico (=montenegrino dionisottiaco): ur-anofobia, quell’angst primigenia che confonde l’orifizio d’uscita… e se RAOS fosse da uRAnoS (dove u- x no, ossia meno per meno uguale più), un postautocastratore che castra il padre Manitù? Piano, piano, ci arriviamo. Per intanto il bi-kyklos, la vittoria della geo-grafia sulla hystorìa, o come dicono gli albionici, dell’herstory (zitella) sull’history (zittita). Certo, così fatti gli italiani bisogna fare l’italia, cominciando dall upatrie lettere a nessuno. Perché un Agamben (Levaten) privilegia il Pascoli sul Guerrini, sempre à propos de la cyclette, il Pegaso del XX secolo? Digitate, digitate su google “pascoli bicicletta”, e vedrete la differenza col Guerrini (ah, la sua esattezza manubrio/sella = punta/tacco rispetto all’ondivaghezza beona del fanciullo, per non dire degli sbuffi locomotivi del futurismo, così pacchiani e fasci!).
    La tenda, si diceva, smontata troppo in fretta… La santa, La cipolla, La visione, La invasione… come non vedere la sequenza strutturata: La capretta, La bicicletta, La tenda, La pelliccia, La restaurazione…

  34. dunque qui risulta che il dio urano fu mutilato dei genitali nel 1905.
    mio padre nasceva 10 anni dopo.
    l’avessero per tempo anche lui mutilato, l’avessero.
    devo dire che pur avendoceli, e purtroppo usandoli per riprodursi, era omofobo lo stesso.

  35. Qui c’è gente che sta male: urge un’Urologia, una scienza allargata/pacata che studi/curi le varie patologie, compresa la gastrite di Giardy (certo, con tutti quei sott’aceti…), e che non ultimo spieghi finalmente fenomeni comuni/misteriosi tipo: s-con-pisciarsi. In mancanza/attesa, 2 etti di crassa empiria.
    1- All’inizio dei ’60 a Cartigliano (2000 anime in zona depressa) lo StatoGiano si presentò per la prima volta con la sua doubleface: ridens = asfaltatura strade con comparsa diurna di pachidermi, lagrimans = divieto di pisciare fuori dalle osterie con comparsa notturna di carabinieri. Si salvò una riserva, un non luogo a procedere: una stradina cieca 1m.X100m. irraggiungibile dai macchinari/carabinieri, ma non dai villici per quanto ubriachi (una volta infilata, la stradina anzi “aiutava”). Nel volgere d’una stagione, rientrò nella toponomastica ufficiale, come “stradéa dee merde”. Ora, si dette il caso che la suddetta arteria (o capillare?) delimitasse giusto casa mia (l’ex-filanda), e il medesimo caso dette che il suo cantore (in forma di ode ariostata, in ottave, e parecchie) fosse il mio maestro delle alimentari, nonché sindaco democristo: il cav. Angelo Bresolin. Ma si va troppo per le lunghe. Peccato, perché ero a un passo dall’omolatria. Sarà per un’altra volta. Certo che. Mah

  36. Prima Carla mi ha telefonato (stavo trangugiando una minestrina col dado, e all’inizio stentavo a credere per via del risucchio), e mi ha raccontato cos’è successo. Può darsi che sua sorella abbia trascritto male (strano comunque, perché Daria mi conosce a menadito), ma ci ho sentito puzza di restaurazione. Sempre meglio della minestrina, potreste dire: e invece no! Che Bollati mi accetti e la Nazione mi respinga, questo è qualcosa di inaudito nella storia della specie. Ravvedetevi, e leggetemi dunque:

    *… mi è parso di vedere uno dei due accucciato a quattro zampe, o meglio carponi sui ginocchi e su una guancia per poter allargare al massimo le natiche con le dita delle mani, mentre l’altro, da dietro, lo fiocinava col fucile da subacqueo. Poi mi è parso addirittura che l’altro gli strappasse via la fiocina dal retto e ne succhiasse la punta strappando coi denti i pezzi di carniccio e di feci che vi erano rimasti appiccicati…

    da Lettere a nessuno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 141

    (@ Raos: a scanso di equivoci, i dubitativi del testo non dipendono dalla finzione, ma dalle diottrie)

  37. non è centrale per niente.
    centrale secondo me è il problema dell’immaginazione storica, cioè di quella specie di fantascienza alla rovescia che si innesca nella ricostruzione del passato: chi scrive deve dare un mondo alle sue figure e le figure stesse sono sovente “storiche”, come ferdinando di borbone, quindi portano con sé il “giudizio storico” appiccicato come una maschera sotto la quale è difficile trovare qualche verità umana a meno di inventarsela di sana pianta.
    ma è solo uno dei problemi.
    ferdinando lo DOBBIAMO disprezzare per default, è irrecuperabile e allora non resta che dire di nuovo della sua ignoranza, volgarità, efferatezza, non resta che mettergli in bocca di nuovo il suo amato dialetto napoletano, che trovo peraltro bellissimo e molto ben reso qui.
    un altro è quello di dover raccontare di nuovo la vicenda storica, la cornisce per così dire, oppure il darla per acquisita col pericolo che il lettore non sappia, non ricordi e non capisca una mazza di quello che succede.
    insomma, qui, per esempio nell’ultima parte, non si capisce chi arriva dove con quale nave e quando.
    aggiungo che secondo me la rivoluzione napoletana è stata la cosa più interessante accaduta in italia negli ultimi due secoli.

  38. Negli ultimi “tre” secoli, tash. Così, tanto per aggiungere un altro po’ d’aria fritta alle portate. Grazie per i tuoi complimenti alla “lingua” napoletana.

    (OT: il libro di Palasciano è bello)

  39. L’utlimo che arriva, l’ombra ricoperta di alghe, è l’Ammiraglio Caracciolo, il comandante della Marina Repubblicana. Il Cardinale senza messa, Ruffo di Calabria, sgomina con le sue bande sanfediste le difese approntate dalla Repubblica, e nel tripudio lazzaronesco ne confina i capi nei castelli Nuovo e San Martino. Le trattative portano a un salvacondotto. Caracciolo e i suoi lasceranno la città su un brigantino o altro. Ruffo mantiene i patti. Ma appena la caracca prende il largo interviene Ferdinando, fresco di Sicilia, che ne ordina la cattura. Caracciolo viene considerato il massimo traditore e dunque indegno del patibolo. E’ issato per il collo a un pennone e fatto oscillare fino a morte. Ma Nelson, che ne è invidiosissimo, ordina che il corpo assicurato alla gomena sia gettato in acqua dove per tre volte gli sarà inflitto il periplo dell’ammiraglia inglese.

    Da campionario delle bestie e degli spergiuri. E da abecedario degli orrori la distribuzione al popolo affamato di quarti di chiappe dei martiri giustiziati in Piazza del Mercato.
    Onore ai Martiri del 99.

  40. “Ogni casa, e fondaco, e magazziono, dovrà essere munito di almeno una finestra che guardi il mare.”

    Dalla Costituzione della Repubblica Pertenopea del 99.

  41. scusa, cuoco.
    la rivoluzione napoletana è del 1798, se non sbaglio.
    poi ci sono i 100 anni del secolo XIX e gli altri cento del XX, più gli spiccioli.
    a casa mia sono passati due secoli da allora, per l’esattezza 208 anni, otto generazioni.
    ma ormai non sono più sicuro di niente.

  42. Cara Antonella, Cleobolo mi suggerisce, in profondo disaccordo con Platone (ma non preoccuparti, tanto poi i due trovano sempre il “modo” di chiarirsi), che l’accostamento migliore sarebbe con la Rivoluzione Napoletana. Non disdegnerebbe, comunque, tenere accanto al tavolo, in caldo sul carrello, una porzione di Clinica psichiatrica: non si sa mai, sembra che il vecchio ultimamente cominci a dare i numeri. Mario Pagano, invece, così come Francesco Lomonaco e Vincenzio Russo (se ti interessa, sono d’accordo con loro: dei veri raffinatoni che potresti di tanto in tanto in tanto invitare alle tue trasmissioni), ritiene che l’unica pietanza con cui si accompagna perfettamente e una porzione abbondante di Ruccello, comunque cucinato.

  43. Caro tash, era solo per provare i tuoi riflessi: sei sempre il matematico eccellente che sappiamo. ;)
    Comunque la rivoluzione è del ’99: l’anno precedente non era stato possibile, dal momento che nessuno si era preso la briga di approntare e inviare i fax di convocazione per le Calabrie e il Molise. A quanto sembra, non arrivarono in tempo nemmeno l’anno successivo.

  44. Tascego, secondo me perdi colpi e ai trascinato nell’abaglio anche quel bravo guagliono del cuoco. Ma sapete fare un po di carcoli? Il 1799 appartiene al secolo XVIII, giusto? Ora, a quanto mi dicono dalla regia, siamo nel XXI, giusto? E allora? E’ facile, no? XVIII, XIX, XX, XXI: quattro secoli, sono passati quattro secoli! E poi facete anche gli intellettuali…

  45. Quanto a Caracciolo, la sua fantasmatica apparizione nel cap. 6.4. del mio romanzetto si ispira per la precisione all’inquietante episodio dell’emersione del suo cadavere dalle acque, proprio presso la nave del re (la Foudroyant); nave che, essa andando, il morto parve seguire di volontà propria, postuma e pregna di maledizione. Il re, naturalmente superstizioso, ne ebbe alquanto turbamento; e il mattino dopo, il cappellano della nave, e gli Hamilton, pietosi e lugubri dissero al re – stremato dall’insonnia – che Caracciolo, con quel suo seguitare la nave in stile racconto horror, chiedeva (muto grido) cristiana sepoltura. Ferdinando, atterrito, dispose dunque che si calasse una scialuppa e si raccogliesse il cadavere, acché venisse tumulato e amen (attualmente riposa a S. Lucia, nella chiesa di S. Maria della Catena).

  46. Caro Marco,
    a questo punto avrei una curiosità, e scusa se entro nel tuo laboratorio a farmi gli affari tuoi. Questo episodio, così gotico-horror (e barocco), anche solo dalle tue tre righe qui sopra appare come una scena (potenzialmente) molto fruttifera dal punto di vista narrativo. Quindi, domanda: perché nel romanzo non c’è nulla di tutto ciò, ma solo quel rapidissimo accenno in chiusa di capitolo?
    (ma tutto il tuo romanzo, mi sembra, è costruito “a strappi”, a scosse sismiche – il che non è un difetto ovviamente)

  47. Gentile Raos,
    in realtà quel periodo storico è così denso di episodi e fecondo di spunti, che se mia intenzione fosse stata quella di scrivere davvero un romanzo sul 1799-1815, avrei scritto un romanzone di 800 pagine intricato come le radici di un bosco e il bosco sopra.

    Gli è che Prove tecniche di romanzo storico, invece, è un testo che non avrebbe dovuto esistere proprio, nell’economia del mio percorso creativo: stavo scrivendo il prologo alla biografia del dottor Palasciano (1815-1891), e la scrittura mi ha preso la mano, e prima di arrivare alla nascita del protagonista mi sono ritrovato in tale mano un libro intero.

    La scrittura è proceduta linearmente e ludicamente, basandosi su conoscenze acquisite al momento, né ho voluto poi interpolare aggiunte ampliative anche laddove sarebbero state utilmente chiarificatrici; addirittura gli errori (non intendendo tra essi gli anacronismi voluti) non vengono corretti, se non in nota a piè di pagina.

    Veniamo al caso di Caracciolo: in quel punto l’apparizione del suo spettro serve come chiusa imprevista e guastafeste; in sé sintetizza tutto l’episodio del cadavere emerso dalle acque, ma se anziché ellittizzare mi fossi dilungato a spiegarlo, il ritmo si sarebbe perso: bisognava invece chiudere in fretta il capitolo della Restaurazione, accomiatandoci dal personaggio di Ferdinando I, e passare al finale.

    (Avrei potuto aggiungere una nota, sì, ma ho preferito considerarla superflua: vedasi l’appello, in 7.2, al «rozzo Lettore».)

    Se l’episodio lo avessi narrato precedentemente, d’altro canto, avrebbe guastato la festa prima del tempo: avete sotto gli occhi l’intero capitolo 6: il subcapitolo 6.1. ci offre la visione del corteo à la Munchhausen per il compiaciuto rientro del re, il 6.2. la compiaciuta camminata del re verso la sala del trono, il 6.3. «la veniente nave del Borbone Trionfante», il 6.4. il suo compiaciuto umiliare i generali; l’unica scena in cui il re passa dal compiacimento al dispiacimento è proprio il finalino del capitolo. Perfetto, no?

    Direi un peccato, piuttosto, che siano rimasti fuori dalla narrazione gli episodi di cannibalismo sanfedista (cui accennava Carlo Capone poc’anzi, e sui quali sono corso a documentarmi or ora); gli è che il Colletta, sul cui papiello (più qualche altrui documento di contorno) mi basai nel 1992, non ne citava; né io, di riflesso, n’ho citati, nel subcapitolo -4 dei Prolegomeni, dove citarli avrei potuto; e il quale subcapitolo mi accingo a postare per intero qui di séguito.

  48. Azz… che pasticcio! e che ne sapevo che le parentesi angolari sortivano quest’effetto sul testo postato? Ora uso le virgolette, va’ (cancellate, vi prego, il primo tentativo). Ecco: i paragrafi qui contenuti tra virgolette si trovano in realtà in corpo minore, nella versione edita.

    Da PROVE TECNICHE DI ROMANZO STORICO
    Dal capitolo PROLEGOMENI
    Subcapitolo -4

    Giugno

    La Repubblica Partenopea avviata dai francesi perdurò mezzo anno, poi ecco di nuovo «le piazze e le strade bruttate di cadaveri e di sangue», scrive il Colletta. Erano tornati i Borboni;

    «e dicendo che i repubblicani portavano sul corpo indelebilmente disegnata la donna o l’albero della libertà, facevano spogliar nudi i giovani militari o cittadini, ed era la bellezza e grandezza della persona stimolo maggiore alla crudeltà.»

    «Traendo i prigioni per le vie nudi e legati, li traffiggevano con le armi, li avvilivano per colpi villani e lordure su la faccia; genti di ogni età, di ogni sesso, antichi magistrati, egregie donne, già madri della patria, erano strascinati»

    a tal modo; e qualcuno,

    «sospeso alla forca e creduto morto dal capestro, si scoprí ancora vivente scendendo alla sepoltura; e fu dal boia […] scannato in chiesa di coltello, e gettato nella fossa.»

    Il re intanto si dava

    «a riordinare lo Stato; avendo per consiglieri il generale Acton […], l’ammiraglio Nelson, i suggerimenti della regina, ed il proprio sdegno.»

    Il re si intitolava Ferdinando IV ed era ovviamente un Borbone. Di qui a undici anni avrebbe figliato un Ferdinandello, che…
    No, un momento! che succede? da miei precedenti appunti risulta che nel 1810 nasce sí un nuovo Ferdinando di Borbone, ma II e non V, oltreché figlio di un Francesco I e di Maria Isabella infanta di Spagna; dunque ci sono almeno due linee di Ferdinandi, sembrerebbe, e mi devo sobbarcare il consulto di altra saggistica, uffa. Ecco cosa significa mettere in cantiere un romanzo storico quando non si possiedono conoscenze storiche.
    Ma io penso che qualunque cialtrone sia capace di andare a chiudersi in una civica e cimiteriale biblioteca e là studiarsi per il dritto e per il rovescio tutta la situazione borbonica e post-borbonica quando gli pare, se gli interessa, perciò sarebbe superfluo che io qui gli imbottissi la tractatio con didascalismi iperrealistici. Come dice Einstein, l’immaginazione è piú importante della conoscenza.

  49. “addirittura gli errori (non intendendo tra essi gli anacronismi voluti) non vengono corretti, se non in nota a piè di pagina.”

    Una sorta di “action writing”, dunque. È l’impressione che se ne ha alla lettura, in effetti, e non l’ultimo tratto di originalità del tuo libro.

    Mi aveva in effetti molto colpito, già alla prima lettura, la frizione fra l’apparente classicità (tutta per echi, o riflessi) del dettato, e l’immissione – causa di voluti stridori – di materiali (nel senso di strumenti dello scrivere) “contemporanei”. Ne risulta un “postmoderno” (tra mille virgolette) acidulato, livido, scabro. Che in un certo senso contraddice le proprie premesse postmoderne – almeno nella vulgata italiana del termine. Non mi stupisce che tu NON abbia vinto il Premio Calvino… :-)

    Grazie della risposta,

  50. Prego. ;) Sul perché non abbia vinto il Calvino, disquisì un dì Mario Marchetti (in «I premi letterari come setaccio», intervento al convegno «Il libro nascosto. Tra autore e lettore: i percorsi sommersi del libro», Torino, 8 giugno 2002):

    http://www.lalineascritta.it/rece_momento/dettaglio.php?id=23

    «D’altra parte, autori interessanti e molto innovativi nello stile e nelle tematiche, come Marco Palasciano e Stefano Perricone, hanno partecipato a diverse edizioni del Premio senza mai vincere e senza essere stati pubblicati per altre vie. Va detto che, in genere, le giurie tendono – per loro stessa natura e per l’obbligo di decidere a maggioranza – a premiare prodotti “medi”, sui quali possa convergere l’approvazione di tutti i membri. Raramente vengono scelti i lavori più complessi, più “estremi” e innovativi, i quali, per una ragione o per l’altra, restano isolati, a volte indipendentemente dalla presenza, nella giuria, di autori interessati alla sperimentazione; ad esempio, la giuria della dodicesima edizione, della quale faceva parte Antonio Moresco, che ha una scrittura decisamente d’avanguardia, ha premiato La gallina volante, un libro assai garbato e interessante ma non particolarmente innovativo per stile e impianto. Sulla tendenza alla “mediazione” delle giurie varrebbe forse la pena di riflettere, perché le loro scelte servono anche di indicazione alle case editrici; gli editori, infatti, prendono in considerazione per la pubblicazione il vincitore o il secondo classificato, quasi mai gli altri finalisti, mentre, a mio parere, tra i testi finalisti o segnalati delle varie edizioni ce ne sono molti estremamente validi. Bisogna però riconoscere che, pur con gli inevitabili errori di valutazione, sia il comitato di lettura sia le giurie non hanno mai scelto secondo criteri di mercato e o di mera pubblicabilità».

  51. *Moresco, che ha una scrittura decisamente d’avanguardia, ha premiato La gallina*

    dal frammento postato sopra, parrebbe decisamente di retroguardia, e comunque si capisce il premio, stante l’attrazione fatale per il La… (se non vado errato, il primo tentativo, a prescindere dal semiclandestino La pelliccia, fu La buca – da intendere quale ur-cesso)

  52. @ Daniele Ventre

    Il senso dell’incedere (e del tracimare) borsiano? Semplice, a mio parere.
    Esistere a disperazione del suo stesso oblio.

  53. scusate, ma il calembour è una cosa seria, e io qui sopra sono stato semplice/piano, ossia:
    1- “scrittura d’avanguardia” detto di Moresco è un non-sense, se le parole (“avanguardia”) hanno un senso minimamente/storicamente condiviso
    2- La buca è un racconto che Moresco afferma di aver scritto in gioventù, spiegando al contempo trattarsi della buca del cesso (lo ha ribadito anche in Lo zio Demostene, presunto comunista con tessera che però non viene esibita a differenza di tanti altri cimeli – zio di Mason vicentino, di cui ho dato in un commento precedente l’inno)
    3- La pelliccia è un racconto el 1972 caduto chissaperché nel dimenticatoio
    4-Il calembour, dov’è?

    NB un testo, se è acefalo viene decapitato (sic), se invece ha l’etichetta dell’autore viene lasciato: effetto ipse dixit? Io sono fermo a Cristo, che non faceva distinzioni di persona (mentre uRAnOS…)

    M’interessa il nesso tra i 4 mesi del 1799 e i 4 giorni del 1943. Marx diceva che la storia si presenta una volta come tragedia, la seconda come farsa, mentre qui io vedrei una ripetizione alla rovescia – prima intellettuali senza popolo (ho contato tra i giustiziati a Napoli una maggioranza assoluta di avvocati), poi popolo senza intellettuali (che io sappia, presenti solo il nipote di Bakunin e l’azionista Omodeo – e Napolitano, dov’era?)

  54. Io la Storia la vedo così: i 4 giorni rinculano e s’incistano nei 4 mesi. A fare la staffetta (la piccola staffetta campana) è il Palasciano, scugnizzo malcresciuto del ’43 che vaga per la Napoli del ’99: ritorno al fu turo, coi gattò (44) di flash accavallati che ne conseguono.

  55. Se v’interessa, il 1943 è citato en passant al cap. 3.1. di Prove tecniche:

    «[…] Casilinum. Di esso oltre il nome, trasfuso alla riviera su cui lunghe al tramonto si evolvono le passeggiate dei tranquilli capuani, a’ dí del 1815 non restano che un muscoso frammento di molo e, accanto, un bellissimo ponte in muratura, che però di qui a centoventott’anni sarà distrutto dal cielo.»

  56. Ma prof. Ventre, cosa ci fa quell’apostrofo dopo “Fa” III pers. sing. pres. ind.??? :-O mi sento svenire… (La mia pedanteria iperestetica [nel senso di iperestesia, term. med.] mi sarà fatale…)

  57. ho cercato invano il parrucchiere di Severino, finché ho scoperto che era il parrucchiere di se stesso, un autonbarbieroùmenos. La cosa sta in questi termini: i napoleonici erano giunti anche in Danimarca, come mostra Il pranzo di Babette (di cui una femminista fece poi il riassunto) e tra varie cose avevano lasciato il taglio, l’acconciatura, alla francese appunto, equivalente a un nostro attuale rockabilly con superriporto e scopettoni. Bene, 30 anni dopo Kierk era l’unico a tener duro. così ac/conciato, incontrò per strada Andersen, promettendogli una bella recensione (non aveva scritto ancora nulla, il fuoricorso patentato!). Dopo un po’ uscì Dalle carte di uno ancora in vita – una stroncatura. Anatrok se l’ebbe a male, e imbastì una commedia in cui un parrucchiere sciorinava brani interi della recensione, per esplodere infine in una tarantella (sic!): “Nell’essere negativo / fu il mio cominciamento come giovin parrucchiere; / Hegel less’io, / e l’indottrinamento mi aggravò l’umore”. Mah…

  58. Napolitano /giugno ’24/ figlio di un noto avvocato d’anima liberale+tessera fascista/w aristotele/ sfollò a Padova alla fine del ’41 e tornò a Napoli alla fine del ’42/gufò nei guf/fucina fascista di antifascisti/w aristotele/e dopo le bombe dell’estate ’43 risfollò a capri dove divenne il confidente di Malaparte+coinquilino nella villa fino all’estate ’44/s’iscrisse al PCI nel novembre ’45 diventando segretario personale di più dirigenti/al referendum la stragrandiosa maggioranza dei napoletani votò per la monarchia/w aristotele w la resistenza w l’italia

  59. db
    dal GUf provenivano anche tutti (credo proprio tutti) i protagonisti di quella straordinaria stagione inaugurata da Pasquale Prunas con Sud(1945/1947)
    Solo per citare alcuni nomi: Compagnone, Anna maria Ortese, Antonio Ghirelli, La Capria, Francesco Rosi…
    e allora?
    effeffe
    ps
    riporto quanto scritto da Antonio Ghirelli per il numero zero del nuovo Sud di cui mi occupo.

    “Avevo seguito, come giornalista, la
    Quinta Armata americana da Napoli a
    Milano, e pochi giorni dopo la fuga degli
    ultimi tedeschi e l’amarissima tragedia
    di piazzale Loreto, avevo bussato alla
    porta di Elio, dietro Porta Venezia. Per
    noi ragazzi del Guf di Napoli, che, nel
    ’38 insieme con il “Manifesto dei comunisti”
    ci eravamo innamorati di Americana,
    l’antologia che lo scrittore siciliano
    aveva dedicato ai più grandi scrittori
    degli Stati Uniti, Vittorini era un idolo. E
    per me poter partecipare, sia pure in un
    ruolo marginalissimo, anche alla battaglia
    del “Politecnico” fu un premio inaspettato,
    una emozione sconvolgente.
    Dopo “Sud” si spalancava un’altra finestra
    sul mondo contemporaneo, così
    come esso era arrivato alla mortale battaglia
    contro il fascismo e a quell’altra
    battaglia, meno sanguinosa ma forse
    ancor più ardua, contro l’emarginazione
    dei ceti e dei paesi poveri.
    Come nel famoso racconto di Hemingway,
    breve fu la vita felice tanto
    di “Sud” quanto del “Politecnico”, funestata
    quest’ultima dall’ostilità miope
    e supponente del partito a cui pure noi
    ed Elio guardavamo allora con assoluta
    fiducia.”

  60. Vico alleria
    ecco dove avrei voluto abitare
    effeffe
    Ohi Palasciane
    facite ammuine et puis cum ciate et voce
    facite festa et puis facce feroce

  61. ;) Merci, monsier Fefè. Voulez-vous due intermezzi?

    IV

    PRINCIPE:
    Un’alba un fresco odor di paradiso,
    n’ata nu muorto acciso
    pe nu prurito ’e naso. Ahi, che paese!
    E chi questo consente? Un Viceré
    di ritagli e di pezze, un Re di niente?

    FILOSOFO:
    Di ritagli e di pezze mise nzieme
    da spilli che si involvono a spirale,
    baroccamente, come le cicloidi
    dei pianeti: un ricamo nello spazio
    dell’illusione. Spingole ’e Cartesio,
    razionali fino all’irrazionale,
    della stessa sostanza
    dei sogni.

    PRINCIPE:
    Ah, come unire
    davvero in un sol io
    tant’alme janche e nire?

    FILOSOFO:
    Ah, lo sa Dio.

    [Si esegue ’E spingole frangese (1888) di Salvatore Di Giacomo & Enrico De Leva.]

    V

    FILOSOFO:
    Spillar nell’insectarium della mente
    morte falene, schegge d’immanente,
    è il piú che si può fare. La ragione
    dell’uomo catturare può del mondo
    la rappresentazione. Non il volo
    dei noumeni.

    PRINCIPE:
    Dio,
    quanti immensi concetti han fonte e foce,
    impastati di stelle e fango ctonio,
    entro un guscio di noce – il nostro cranio,
    come Napoli culla e cella atroce –
    reticolandosi in disegno arcano!
    Ahi, quant’è vago, e quanto mi par vano!

    FILOSOFO:
    Come dice il Nolano, in noi l’Amore
    – per cui tant’alto il Vero si discerne –
    entra per gli occhi e vive del vedere.
    Se vuoi guarir tue ansie saturnine,
    ai genii ed agli sciocchi
    lascia i concetti, e va’ alle Concettine,
    non ragionando piú se non con gli occhi.

    [Si esegue Uocchie c’arraggiunate (1904) di Alfredo Falconi Fieni & Rodolfo Falvo.]

  62. e sarrà chi sa? di mio zio renato? interprete fausto Cigliani?
    effeffe
    ps
    com’è andata?

  63. Oserei dir ch’è andata molto bene: chiesa piena e applausi a scroscio, sia per noi attorucoli che per il soprano (ella inoltre bissante, trissante e quadrissante); e grandi complimenti dal direttivo della Fondazione Vico.

    Abbiam poi replicato il “Dialoghetto” al buffet a Palazzo Viscardi (senza però soprano, impegnata al San Carlo); d’estate si dovrebbe replicar tutto, in una o più occasioni, nel castello di non ricordo dove; intanto ho avuto in dono, fra l’altro, un pregevole volumetto di Maria Grazia De Ruggero, “Nella Napoli vichiana: siti, storie, suggestioni”.

    Scordavo di dire che l’evento di iersera è stato il primo da che si è aperta la sede napoletana della Fondazione, il che è avvenuto recentissimamente, col recupero della chiesa di S. Biagio Maggiore – finora chiusa per restauri – e altri locali.

    Faro della Campania la filosofia di Vico!, al pari ovviamente di quella di Bruno – per non indietreggiar fino a Parmenide (devo citare anche Croce? ma mi sta antipatico)…

  64. Mondieu… leggo solo ora di suo zio, che vinse il Festival di Napoli: «1959. Fausto Cigliano e Teddy Reno [il brano era stato scritto per Sergio Bruni, ma fu dirottato a loro per un disguido postale] portarono al successo “Sarrà chi sà”, di Roberto Murolo e Renato Forlani, un musicista che non conosceva una sola nota. Ci furono contestazioni, il pubblico invase il palcoscenico, intervenne la polizia e la manifestazione fu interrotta»… wow!!!

  65. Con piacere leggo stamattina (vedi, qui sopra, il link consustanziato al nome) che sul Mattino, in un articolo di G. Caserza, sono stato accostato al Gigliozzi di “Neuropa” (che per combinazione giusto ieri ho finito di leggere!).

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andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010), lettere nere (milano, effigie, 2013), le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017) e o!h (pavia, blonk, 2020). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.
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