Berlino 1994 / Da “Sistema Elefante” – un fallimento immortale

di Cristiano De Majo

Da quando la Cimice gli aveva parlato del Tossico – un ex-meccanico della DDR, ideatore di sistemi di fuga, che ora viveva nella parte orientale di Kreuzberg, in un palazzo occupato ribattezzato Casa dell’Eroina -, Stephan Meström si era messo in testa che l’incontro con questo Tossico, che la Cimice si era impegnato a organizzare, avrebbe iniettato linfa vitale nel suo immaginario già ampiamente fiaccato dall’infinito saliscendi emotivo di quelle spaventose crisi d’ispirazione che lo investivano con cadenza regolare.
Da quello che gli aveva detto La Cimice, Meström si era convinto che avrebbe ricavato dall’incontro informazioni e stimoli e ispirazioni che gli avrebbero permesso di riprendere la stesura del Grande Romanzo sul Crollo del Muro al momento in fase di pausa, e così si era fatto pieno di speranze, e ora si sentiva quasi come all’inizio, febbricitante come quando aveva deciso d’intraprendere quel viaggio senza ritorno. Come facesse a far dipendere la riuscita del romanzo da una persona che neanche conosceva, questo non lo sapeva. Ma era tipico di Stephan Meström cullarsi in questo genere d’illusioni, fantasticare di realtà inesistenti, deformare il mondo attraverso quella lente speciale che era la sua idea di vita.
Dopo Verso le saliere di Danzica, una silloge composta negli anni dell’università che aveva trovato ospitalità presso un editore di Norimberga, tale Ralph Steiger delle Edizioni Steiger – un uomo di sessant’anni a cui piacevano molto i giovani universitari, un uomo che si portava a letto gli studenti e poi li convinceva a fare i letterati, l’uomo che aveva convinto Meström a confidare nelle sua capacità di scrittore e poeta in cambio di alcune sedute di sesso orale e di alcune scopate selvagge sulla scrivania di mogano nello studio delle Edizioni Steiger in quell’atmosfera sturm und drang così suggestiva per un ragazzo di ventiquattro anni che ancora non sapeva cosa fare della sua vita, ma che aveva già maturato una forma di fascinazione per le situazioni estreme -, dopo quella silloge, insomma, che era stata stampata in trecento copie con scarsissima risonanza, praticamente nulla, ma che lo aveva di colpo piazzato nell’empireo dell’aspirante letterato, Meström aveva deciso di intraprendere la stesura di un Grande Romanzo, una specie di opera totale alla maniera dei giganti della letteratura tedesca che nelle sue intenzioni e nelle sue speranze avrebbe dovuto consacrarlo. Nel 1989 il Muro di Berlino sembrava essere crollato apposta per dare inizio al progetto. Quella netta linea di demarcazione tracciata tra passato e futuro rappresentava per Meström la più grossa occasione che avrebbe potuto presentarsi a uno scrittore intenzionato a immortalare la Storia. E, un mese dopo, si trovava già al lavoro, sommerso da idee ambiziose e impraticabili, eccitato al pensiero di quello che sarebbe uscito fuori dal suo cervello e dalla sua penna.
Nel frattempo erano trascorsi cinque anni e le pagine che Meström era riuscito a salvare dai suoi ripensamenti patologici, che il più delle volte assumevano la forma di atti violenti e deliberati nei confronti della tastiera di un vecchio 486, ammontavano al numero di quindici. Erano sopravvissute in quanto contenevano nient’altro che una sommaria descrizione dei fatti accaduti nei giorni precedenti e immediatamente successivi alla Caduta del Regime Democratico Tedesco, in quanto cioè si trattava di fatti storici acclarati. Tutto il resto, invece – quello che dipendeva da lui, dalla sua inventiva – era stato modificato, ripensato, cancellato e, infine, abbandonato decine se non centinaia di volte.
Meström si era trasferito a Berlino nel 1990, sei mesi dopo aver dato inizio al Grande Romanzo. Suo padre, un pezzo grosso della BMW, uno che aveva fatto fortuna come dirigente varando l’Era delle Station Wagon, aveva acconsentito a corrispondergli una rendita mensile in seguito alle richieste ripetute e ossessive di Stephan. Stephan, in effetti, aveva insistito molto. Aveva cercato di far capire al padre che per scrivere quello che aveva intenzione di scrivere doveva essere sul Luogo: stando a Monaco avrebbe potuto solo mentire; a Berlino, invece, cioè in quello che era al momento il centro della storia, avrebbe potuto vivere nel suo stesso romanzo, praticando l’onestà più di ogni altra cosa. A Stephan era sembrato un ragionamento lineare, eppure suo padre aveva fatto una certa fatica a capirlo. L’uomo delle alte responsabilità dirigenziali non aveva mai riposto grande fiducia nelle capacità di Stephan, e, più in generale, considerava certe sue “idee artistiche” niente di più che un modo per tenersi lontano dalla vita adulta, praticamente un alibi. Ma alla fine aveva acconsentito. Anche se lo aveva fatto più che altro per levarsi di torno questo figlio capriccioso così sicuro di essere potenzialmente un grande scrittore che non faceva altro che uscire di notte e svegliarsi all’ora di pranzo e passare i pomeriggi in vestaglia a ciondolare per casa declamando poesie e bevendo vino rosso, lo aveva fatto. Ed era grazie a lui, cioè ai soldi che gli passava, che Stephan aveva assistito al Grande Cambiamento coi suoi occhi.
In quei quattro anni la trasformazione aveva viaggiato a ritmi forsennati. Nuovi palazzi erano spuntati come funghi. Nuovi cieli ultra-moderni si erano distesi sul Brandeburgo. Nuovi abitanti erano stati accolti nello Zoo. Sembrava quasi che tutta la Germania e l’Europa intera si fossero trasferite in città o lo stessero per fare. Berlino era diventata il luogo del Qui e dell’Ora. Neanche fosse un’Arca di Noè che avrebbe portato l’umanità in salvo, si era eretta come un’oasi nel deserto dei disastri.
Tutto questo nelle intenzioni di Meström avrebbe dovuto essere raccontato nel Grande Romanzo, sarebbe stato descritto minuziosamente attraverso una galleria di personaggi, attraverso un dedalo di storie intrecciate tra loro come condotti sotterranei da cui avrebbe preso forma quell’imponente scultura narrativa. Sarebbe successo, se non fosse che l’influenza del Cambiamento aveva agito sulla sua stessa esistenza.
Meström aveva perso tempo e, in certi periodi, il motivo della permanenza in città aveva assunto contorni assai vaghi e sfumati. Il giovane scrittore era rimasto invischiato nel jet-set sperimentale del dopo-muro e la sua vena creativa era di frequente naufragata in un oceano di spensieratezza. Più di tutto lo aveva distolto quel continuo vagabondare per i locali gay della Berlino notturna. Il ricambio ininterrotto di uomini nella camera da letto del suo appartamento a Mitte si era riflesso in una disperata mancanza di continuità narrativa. E, in effetti, era proprio questo che gli era mancato. L’ostinazione. La forza di volontà. La capacità di credere sempre nella stessa idea.
Ora, però – Meström ne era convinto -, doveva mettere una pietra sopra a tutto questo. Al ricambio di uomini e al ricambio di idee e convinzioni doveva metterci una pietra sopra.
Quell’anno aveva trascorso il Natale a Monaco, costretto come ogni anno al cospetto di suo padre, sua madre e sua sorella – una specie di diabolico contrappasso familiare che frequentava con ottimi risultati la Facoltà di Legge – a rendere conto dei suoi progressi, del suo stato di penetrazione nella società culturale berlinese, mentendo, millantando successi che in realtà erano solo vaghe speranze. Poi il giorno di Santo Stefano era risalito a Berlino con l’idea d’incontrare La Cimice e quindi il Tossico per riprendere la stesura del Grande Romanzo con questo nuovo spirito. Chiamò La Cimice il giorno successivo. Si organizzarono per incontrarsi alle 17:00 davanti al Check Point Charlie. Era il 27 dicembre e il termometro segnava meno 2 gradi.
All’appuntamento La Cimice arrivò puntuale, anche se Meström non lo riconobbe subito perché il suo aspetto era molto diverso dall’ultima volta che l’aveva visto. Ora aveva i capelli rasati a zero e le unghie delle mani dipinte di nero e indossava una tuta Adidas rossa a strisce bianche e un paio di occhiali a specchio che ricordavano le maschere aerodinamiche degli sciatori nordici. Lo osservò per almeno un paio di minuti che si aggirava nei dintorni della ricostruzione in stile luna park della Cortina di Ferro prima di avvicinarlo.
Aveva conosciuto il minuscolo individuo mutante due anni prima, al 90, la celebre discoteca gay di Dennewitzstrasse. Era stato il suo amico dj e, per un certo periodo, amante, nonché impasticcato perso ed MDMA consumato, Uwe Heinzstraub, meglio conosciuto come DJ Heinz il re della gabber-house, a presentargli La Cimice, descrivendo La Cimice come la vera anima di Berlino, come uno che conosceva i segreti e le storie nascoste della città e che non chiedeva niente in cambio delle sue rivelazioni, ma aveva solo un disperato bisogno di essere coinvolto in qualcosa. Da allora, per soddisfare la sua fame di storie sotterranee, per attingere sempre nuovo materiale narrativo, Meström era ricorso più di una volta ai consigli della Cimice, ma con esiti abbastanza impalpabili; a naso, questa del Tossico gli sembrava la storia migliore che gli avesse mai messo a disposizione. Per questa ragione, in cambio della rivelazione, Meström si era spinto a promettergli un posto di rilievo tra i personaggi principali del Grande Romanzo, un posto, aveva dichiarato lo scrittore con convinzione e senza nessuna ironia, che gli avrebbe permesso di essere immortalato nella leggenda.
Una volta ritrovati, si allontanarono dal Check Point Charlie, lungo Friedrichstrasse, a passo svelto, causa il freddo che aveva trasformato la strada in una cella frigorifera. Camminando verso Kreuzberg, La Cimice raccontò a Meström che aveva saputo del Tossico da una vecchia conoscenza del giro dei rave clandestini, un tipo affidabile, disse, anche se si guadagnava da vivere spacciando anestetici. La Conoscenza gli aveva detto che Il Tossico non si fidava di nessuno, ma che aveva smania di pubblicare le sue memorie. Con una certa perfidia, La Cimice aveva sfruttato la soffiata per circuirlo. Aveva chiamato Il Tossico e l’aveva convinto a organizzare l’incontro dichiarando che si sarebbe presentato col direttore di una grande casa editrice interessata a pubblicare opere di nuovi scrittori berlinesi. A quel punto, disse La Cimice a Meström, Il Tossico, in evidente stato di eccitazione, gli aveva confessato che le sue memorie erano state già trascritte da lui stesso, che se la casa editrice era interessata, avrebbe potuto pubblicare il suo manoscritto.
Nonostante il Piano presentasse parecchie crepe, Meström abbozzò. Si trovava costretto a fidarsi della Cimice e quindi si sarebbe fidato e lo avrebbe assecondato; lo avrebbe lasciato fare.
Sfilarono sull’asfalto come iceberg alla deriva nel Circolo Polare Artico. Costeggiarono bancarelle di oggettistica socialista e negozi per amanti del latex. Furono avvolti da odori di spezie mediorientali. Attraversarono una parata di estimatori dello scrittore Isaac Asimov. E alla fine approdarono alla Casa dell’Eroina, una palazzina di quattro piani colorata di grigio, triste e squallida, che emanava puzza di carne marcia. Intorno alla palazzina, erano radunati almeno una ventina di zombie che barcollavano davanti a una specie di falò improvvisato. Il luogo sembrava l’immagine di una civiltà estinta, un anacronistico ologramma dei tempi di Bowie e di Christiane F. che resisteva ostinatamente a quelle futuristiche trasformazioni urbane.
Meström e La Cimice, uno affianco all’altro, sorpassarono il gruppo di zombie e si intrufolarono nel portone mimetizzandosi come tossici in giro per shopping. All’interno li accolse una musica spaccatimpani. Un concerto per chitarre elettriche e martelli pneumatici che ricordava le sperimentazioni più estreme degli Einstürzende Neubauten. I corridoi erano pieni di rifiuti, ma deserti. Sul pavimento di linoleum c’erano fango e cartacce e tubi spaccati e cavi elettrici che penzolavano nel vuoto.
Dopo infinite ricerche trovarono la stanza del Tossico al secondo piano. Sulla porta era affissa una striscia di cartone con su scritto Schwabing a pennarello. La Cimice rintoccò sulla porta le nocche arrossate e spellate dal freddo. Poco dopo, comparve sulla soglia una specie di scheletro, che, incurante del clima rigido, indossava solo una canottiera bianca chiazzata da macchie marroni e un boxer grigio di tessuto elasticizzato. Era bianchissimo, con lunghi capelli neri untuosi e le braccia piene di buchi. Aveva tutta l’aria di essere un tossico.
“Piacere Ulrich Schwabing”, disse e sorrise con una smorfia macabra.
“Questa è la mia casa, prego”, disse ancora e si spostò per farli passare.
L’interno era anche più lurido dell’esterno. C’erano vestiti appallottolati sul pavimento, mucchi di polvere sui mobili, stoviglie sporche impilate in un catino. Il letto era sfatto. L’aria puzzava di acido urico e latte scaduto. Sulla scrivania – un’asse sberciato sorretto da un paio di cavalletti – c’erano siringhe incrostate di sangue sparpagliate come bastoncini di uno Shangai immaginario. Il manoscritto era vicino alle siringhe. La carta sembrava zuppa di liquidi organici. Il titolo in caratteri piccoli sul frontespizio diceva Elefant System.
La Cimice provò a rompere quella specie di silenzio imbarazzato, imperniato con tutta probabilità sulle pietose condizioni estetiche e igieniche dell’ambiente e disse al Tossico che, come gli aveva già anticipato al telefono, il direttore – e indicò Meström – conosceva la sua storia a grandi linee e poteva essere interessato a pubblicarla. Allora Il Tossico si guardò intorno inebetito fino a quando non focalizzò il manoscritto. Disse che lui aveva questo manoscritto e nel manoscritto c’era tutta la sua storia.
“Una vita passata a imbrogliare il Regime Democratico in tutti i sensi”, disse.
Disse che aveva ideato molti sistemi per nascondere la gente e trasportarla all’Ovest. Per esempio, aveva utilizzato il vano motore di molti tipi di auto. A partire dal 1960 aveva trascorso circa un decennio a scavare gallerie sotto la città. Poi aveva ideato una catapulta umana, ma purtroppo non era mai riuscito a utilizzarla perché alla fine il maledetto muro era crollato e lui non aveva fatto in tempo a realizzare l’invenzione.
“Comunque”, disse il Tossico, “nel manoscritto c’è scritto tutto, ci sono anche i disegni e i progetti”.
A quel punto, Meström, cercando di interpretare la sua parte a dovere, chiese al Tossico se il titolo fosse il nome che aveva dato a uno dei suoi sistemi di fuga, se avesse qualche attinenza con gli elefanti.
“Gli elefanti non c’entrano niente”, disse Il Tossico e sembrò voler continuare, ma poi s’interruppe come un robottino meccanico a cui è finita la corda.
Meström e La Cimice si scambiarono un cenno che stava a significare che entrambi concordavano sul fatto che quello fosse il momento giusto per intervenire. E allora, indicando il blocco di fogli, la Cimice disse sottovoce “lo portiamo con noi, poi ti facciamo sapere” e si diresse verso la scrivania. Ma in quel momento il Tossico riprese vita, si rianimò. Bloccò La Cimice alzando le mani, sorrise con la sua smorfia macabra e disse che forse lo avevano preso per uno stupido, ma lui stupido non lo era, se avessero voluto leggere il manoscritto, avrebbero dovuto farlo lì nella sua stanza, alla Casa dell’Eroina.
“Questa è una procedura insolita, non si abituati a cose del genere”, disse La Cimice alla ricerca una scappatoia, “come puoi costringere il direttore a venire qui ogni volta?”.
Il Tossico non si preoccupò di trovare una giustificazione. Disse per un’ultima volta “non sono uno stupido”, poi si afflosciò sul letto come un pallone bucato.
I piani iniziali furono mandati a monte da quella flebile presa di posizione. Uscendo dalla stanza di Schwabing, La Cimice si disse dispiaciuto e chiese a Meström che cosa avesse intenzione di fare dal momento che la documentazione non poteva essere messa nella sua immediata disponibilità. Meström gli rispose che ci avrebbe pensato, ma in cuor suo già accarezzava l’idea di ritornare dal Tossico. Ciò che aveva visto in quella stanza, in un senso tutto suo e piuttosto equivocabile, gli piaceva, gli trasmetteva una forma di energia mentale, fisica e sessuale che aveva tutte le intenzioni di approfondire. E fu così che il giovane scrittore bavarese diventò uno dei più assidui avventori della grigia palazzina di Kreuzberg.
I primi tempi continuò a credere nella sacralità della sua missione letteraria, continuò a illudersi che quello che stava facendo lo stesse facendo per l’Arte in generale e per il suo Grande Romanzo in particolare. Ma presto l’equivoco si dimostrò per quello che era e cioè un equivoco.
Meström aveva provato l’eroina una sola volta. Qualche anno prima, a una festa di compleanno di un regista teatrale ucraino, Uwe Heinzstraub gli aveva passato una canna che Meström aveva creduto essere semplicemente una canna e che, invece, conteneva eroina. Era stato piacevole. Ma poco influente rispetto alle iniezioni. L’endovena si manifestò come una rinascita, come l’approdo di una nuova incarnazione.
Il Tossico preparava le dosi e le elargiva con sapienza. Il manoscritto veniva letto sotto la persistenza dei fumi oppiacei e con vecchi dischi di Elvis Costello in sottofondo. La sporcizia di quella stanza diventò uno sfondo fisso. La puzza di acido urico e latte scaduto si trasformò nell’unico odore possibile. La realtà esterna acquistò un’irrilevanza assoluta. La vita accadeva nei gangli celebrali, nel sistema nervoso, nell’apparato cardiocircolatorio. Del resto, fu proprio in quel periodo che Meström diede vita a un progetto di straordinaria importanza: il progetto consisteva nel trasformare la sua vita in un fermo-immagine in cui lui, Stephan Meström, si trovava steso a occhi chiusi sul pavimento nella stanza del Tossico. Era, allo stesso tempo, semplice e grandioso.
Dapprima, quando tornava a casa, provava a mettersi al lavoro sul Grande Romanzo, ma ogni volta gli sembrava impossibile trasferire sulle pagine le sfaccettature emotive, le sensazioni, la chimica, tutto ciò che stava vivendo. Poi coi giorni si persuase che la vita valesse la pena di essere vissuta piuttosto che imitata. Per esempio, il Tossico. Non era forse una forma d’arte la sua stessa condizione umana?, pensava Meström, non era forse meglio e più artistico passare le giornate col Tossico piuttosto che davanti a un monitor a cercare di fare capire agli altri cosa avessero provato in certi momenti lui e il Tossico?
Così il progetto del Grande Romanzo sul Crollo del Muro venne di nuovo accantonato e le quindici pagine di sommaria descrizione dei fatti accaduti nei giorni precedenti e immediatamente successivi alla Caduta del Regime Democratico Tedesco rimasero senza seguito. Persino Elefant System, il manoscritto, smise di essere un pretesto. Solo Il Tossico di tanto in tanto rimetteva il discorso in mezzo. Con la sua voce flebile chiedeva quando sarebbe stato pubblicato. Ma era come un’eco lontana, un suono smarrito nel cosmo da migliaia di anni luce. In questo modo almeno lo percepiva Meström.
Poi in primavera sbocciò l’amore. Dopo mesi di frequentazione e di dissoluzione, Meström si convinse che questo bisogno comune, suo e del Tossico, di rifugiarsi in quel pianeta ammantato da strati e strati di oblio-sfera, fosse da collegare a una specie di unione spirituale delle loro anime. Gli sembrava che a quel punto si potesse parlare di amore. Il suo – solo ora ne era consapevole – lo era certamente. Su quello che provava il Tossico non poteva giurarci, ma se non era amore, ci si avvicinava molto.
Così, approfittando del magico effetto che aveva la polvere marrone, iniziò a spingersi oltre. E ora, quando si bucavano, quando il Tossico stramazzava sul letto sfatto in stato d’incoscienza con gli occhi socchiusi e il corpo tremolante, si avvicinava a lui, lo spogliava di quei vestiti che sapevano di piscio e iniziava a leccarlo da tutte le parti. Inumidiva con la lingua la sua pelle semi-trasparente. Massaggiava con dolcezza quel mucchio di ossa che riteneva potesse considerare di suo esclusivo dominio. Certe volte, quando non era troppo fatto, si masturbava stringendogli una mano, o una qualsiasi altra parte del suo corpo e raggiungeva l’orgasmo al pensiero di schizzare lo sperma sulle lenzuola in cui il Tossico più tardi si sarebbe avvolto.
Meström era convinto che il Tossico fosse consapevole di quello che stava succedendo anche se non c’era nessun cambiamento evidente nel suo modo di comportarsi. Era convinto che il Tossico provasse piacere nel corso delle sue manovre. Era convinto che il Tossico si considerasse ormai come una specie di fidanzato: cioè un oggetto tutto suo. E a un certo punto pensò che fosse venuto il momento di dichiararsi e trasportare l’amore fuori, alla luce del giorno.
Successe un pomeriggio di maggio. Meström si presentò alla Casa dell’Eroina con un mazzo di girasoli. Gli era sembrato che quei fiori fossero i più appropriati in quanto considerava Il Tossico il suo Sole personale e romanticamente aveva pensato che i girasoli si sarebbero girati dalla sua parte. Ma Il Tossico non vide i fiori e probabilmente i fiori non videro nessun Sole. Piuttosto uno scheletro steso sul letto, che ondeggiava al rallentatore nella zona d’influenza della polvere.
Allora Meström si avventò sul suo corpo, lo spogliò nudo, iniziò a leccarlo, sussurrò dolci paroline da innamorato nell’aria fetida. Poi lo scosse, gli disse di svegliarsi perché doveva ascoltare quello che aveva da dirgli.
Il Tossico aprì gli occhi molto lentamente e si ritrovò nudo con il corpo di Meström che gli premeva sulla cassa toracica. Sembrò non afferrare cosa ci facesse quell’uomo sul suo corpo nudo e fece uno sguardo storto.
Meström cercò di tranquillizzarlo, disse “Ulrich, io ti amo…, e penso sia venuto il momento di dirtelo”.
A quel punto Il Tossico cercò di tirarsi su dal letto, di districarsi, ma Meström continuò a spingere in direzione opposta, lo abbracciò e affondò le labbra sul suo sterno.
“Cosa cazzo stai facendo?”, gli chiese.
“Semplicemente ti amo”, disse Meström.
Come se qualcuno gli avesse soffiato negli occhi, Il Tossico chiuse le palpebre di colpo. Le riaprì con un certo sforzo. Poi mosse le labbra e ed emise suoni incerti. Disse che non capiva. Disse che lui gli aveva promesso di pubblicargli il manoscritto non di amarlo e ora non capiva come mai il manoscritto non fosse ancora stato pubblicato: quanto tempo era passato, non era trascorsa almeno una settimana?
“Perché? Perché?”, domandò e aggiunse che era terribile.
Meström rimase interdetto. Si era convinto che la storia del manoscritto fosse ormai morta e sepolta e non si aspettava che Il Tossico la tirasse fuori di nuovo. Ma ebbe uno scrupolo di coscienza, pensò che in ogni caso doveva dirgli la verità perché l’amore comportava sincerità assoluta.
“Non sono il direttore di nessuna casa editrice”, disse, “sono uno scrittore, proprio come te”.
Al suono di quelle parole, il corpo del Tossico scattò come sotto l’effetto di una scossa elettrica e le sue unghie, sporche e lunghe, affondarono nella carne di Meström, nelle sue braccia, nei suoi muscoli.
“Traditori!”, urlò, “siete tutti traditori!”.
Meström si ritirò intimorito. Scartò di lato, si rintanò in un angolo del letto e iniziò a piangere con le braccia che gli bruciavano sotto l’effetto delle unghiate profonde e la consapevolezza – che bruciava più delle unghiate – di essersi illuso, di aver costruito un castello convinto che ci fosse qualcuno con cui abitarlo, ma che, invece, sarebbe rimasto vuoto.
Il Tossico intanto si era alzato dal letto e stava camminando avanti e indietro per la stanza con un incedere ossessivo. Continuò a urlare “traditori!” e lo disse dieci, venti, trenta volte. Poi cacciò una bottiglia di alcol denaturato da una scatola di cartone sotto la scrivania e si mise a spargere il liquido nella stanza. Ovunque. Disse che tutti i traditori dovevano essere mandati al rogo. Parlò di streghe e malefici. Si armò di un accendino rosso e lo utilizzò. La fiammata iniziale fu debole, ma nel giro di poco arrivò da una parte all’altra.
Meström, che intanto si era appiattito su un muro della stanza, vide, atterrito, le fiamme che si trascinavano in tutte le direzioni. Vide la scrivania prendere fuoco e i vestiti e i fogli di carta, le siringhe, i girasoli, tutto lo sfondo che si illuminava a giorno. Poi il fuoco lambì il corpo nudo del Tossico, le sue mani, le sue braccia ossute; lo avvolse.
Meström urlò “no!” e, a occhi chiusi si proiettò fuori, oltre la porta di legno. Senza più pensare all’amore, scese a precipizio la rampa di scale, corse lungo il corridoio, attraversò il tragitto a ritroso, tutto all’indietro, in riavvolgimento rapido, mentre alle sue spalle una colonna di fumo nero si innalzava parallela all’antenna di piazza Alexander.
I quotidiani del giorno successivo parlarono di un incendio appiccato da un gruppo di naziskin. Ipotizzarono un’azione punitiva di stampo reazionario nei confronti di un luogo considerato da molti l’epicentro del degrado. Chiunque fosse stato, il risultato era un grande vuoto ricoperto di cenere. La Casa dell’Eroina era svanita nel nulla.
Meström rimase chiuso in casa per giorni. Era sconvolto e non voleva parlare con nessuno. Aveva paura e l’astinenza aumentava la paura. Voleva solo togliersi dalla testa quelle immagini terrificanti. Voleva non pensare più a quella storia. Ma era impossibile. Aveva degli incubi. Mostri che si materializzavano nel suo appartamento. Dicevano cose cattive. Lo invitavano a unirsi a loro. Stephan vomitava quattro volte al giorno e praticamente non riusciva più a prendere sonno. Alla fine si persuase che l’unica soluzione fosse allontanarsi da Berlino. E questa convinzione decretò il fallimento della sua grande utopia personale e artistica.
Dopo una settimana ritornò a Monaco dalla sua famiglia che lo accolse con espressioni di ribrezzo appena contenuto. Stephan versava in condizioni disgustose. Era dimagrito almeno dieci chili, sudava inspiegabilmente e puzzava della stessa puzza che ammantava la stanza del Tossico come se il suo corpo fosse stato contaminato da quella puzza. Ritornò, ma, mentre suo padre gli urlava contro, mentre sua madre lo osservava con un’espressione raggelata, mentre sua sorella faceva finta di essere preoccupata per lui, avvertì il bisogno urgente di ripiombare nel fermo-immagine in cui era steso con gli chiusi sul pavimento nella stanza del Tossico, di materializzare Il Tossico al suo fianco, di ritornare a vivere nel tempo delle illusioni, delle idee e delle utopie. Lo pensò perché si rese conto che non sarebbe più accaduto. Che il tempo delle illusioni era evaporato nelle fiamme e ora, da quel momento, sarebbe cominciato un altro tempo. Suo padre avrebbe deciso per lui, gli avrebbe trovato un lavoro normale. E lui non si sarebbe potuto sottrarre. E così, quel giorno, mentre suo padre gli urlava contro e sua madre lo osservava con quell’espressione raggelata e sua sorella faceva finta di essere preoccupata per lui, mentre si aggirava per le stanze della casa come un fantasma coltivando l’illusione di essere vivo, Stephan Meström capì che non avrebbe più saputo chi era.

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4 Commenti

  1. Davvero bellissimo questo racconto di de Majo.
    Ancora più bello del già postato ‘Fanfani nel cosmo’.
    Spero che Raimo continui a proporre cose così tanto interessanti.

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