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Avanziamo sempre più nel passato

Kenzaburo Oe
risponde a Massimo Rizzante

Massimo Rizzante
Signor Oe, vorrei ripercorrere con lei il suo itinerario romanzesco, anche se come lettore occidentale credo che mi manchino diversi codici per entrare nella sua opera. Malgrado abbia vinto il Premio Nobel nel 1994, molti romanzi (senza contare le novelle, i racconti e le raccolte di saggi letterari e politici) attendono ancora di essere tradotti. Non me lo spiego. Si deve forse al fatto che “l’ambiguo Giappone” di cui ha parlato nel discorso pronunciato a Stoccolma fa a pugni con l’immagine kitsch che l’Occidente ha della sua nazione?

Kenzaburo Oe
Oggi la letteratura giapponese contemporanea è ampiamente tradotta nelle più importanti lingue occidentali. Accanto alle opere di Haruki Murakami, che riscuotono un successo mondiale, i lettori possono accedere non solo agli scrittori della generazione precedente alla mia – Junichiro Tanizaki, Yasunari Kawabata, Yukio Mishima –, ma anche a molti autori della generazione successiva, come ad esempio a Yoko Ogawa. Se i miei libri degli ultimi vent’anni non sono stati tradotti si deve probabilmente alla complessità strutturale della mia prosa (complessità che viene dalle molteplici elaborazioni che i testi subiscono dopo la prima stesura) che è spesso di ostacolo alla traduzione. Tale difficoltà, tuttavia, non si è rivelata del tutto insormontabile, tanto che in Germania Fischer ha pubblicato la trilogia intitolata “Moeagaru midori no ki” (“Il verde albero in fiamme”), così come il primo volume dell’ultima, “Changeling”, mentre Grove ha edito in inglese “Chugaeri” (“Salto mortale”).

Massimo Rizzante
“Warera no jidai” (“Il nostro tempo”), il suo secondo romanzo, pubblicato nel 1959, non esiste né in inglese, né in spagnolo, né in francese, né in tedesco, né in italiano, né in portoghese; “Pinchi rann chosho” (“Verbale di un pinch runner”), pubblicato nel 1976, è stato tradotto soltanto in inglese (1994); “Dojidai gemu” (“Il gioco della contemporaneità”), uscito nel 1979, non si trova, che io sappia, in nessuna parte d’Europa. Lo stesso destino hanno subito il dittico “Chiryoto” (“La torre della guarigione”) del 1990 e “Chiryotowakusei” (“Il pianeta della torre della guarigione”) del 1991. Manca anche la traduzione in inglese, francese e italiano della trilogia intitolata “Il verde albero in fiamme”, composta dai romanzi “Sukuinushi ga nagurareru” (“E il Salvatore sarà percosso”) del 1993, “Yureugoku/Bashireshon” (“Vacillation”) del 1994, “Oi naru hi ni” (“Verso il grande giorno”) del 1995. “Atarashii hito yo mezane yo” (“Alzatevi, giovani della nuova era”) del 1983 esiste, se non sbaglio, solo in inglese. Prima di entrare nel suo atelier, una curiosità. Dopo il 1999 ha abbandonato per sempre l’idea, pubblicamente proclamata nell’autunno del 1994, di rinunciare alla letteratura? E perché, all’epoca prese quella decisione?

Kenzaburo Oe
Fra tutti i titoli che ha enumerato, quello che mi piacerebbe veder tradotto almeno in una lingua occidentale è “Dojidai gemu” (“Il gioco della contemporaneità”). Quanto ad “Atarashii hito yo mezane yo” (“Alzatevi, giovani della nuova era”), è effettivamente stato tradotto in inglese con il titolo “Rouse up, O, young men of new age”, che riprende il verso di William Blake che avevo utilizzato. La ragione principale per la quale nel 1994 ho dichiarato di rinunciare al romanzo nasceva dall’intenzione, una volta superata la soglia dei sessant’anni, di dedicarmi interamente allo studio dell’opera di Spinoza, filosofo che mi aveva profondamente colpito ma di cui fino a quel momento avevo solo una conoscenza approssimativa. Dal 1993, e per circa quattro anni, ho consacrato tutto il mio tempo alla filosofia. Solo dopo sono ritornato al romanzo. Pensavo che se avessi letto Spinoza a fondo non avrei avuto più bisogno della letteratura e avrei trascorso una vecchiaia non troppo infelice sostenendo in tutti i modi in cui mi era possibile l’attività di compositore di mio figlio Hikari. Dopo due anni di intense letture spinoziane mi sono reso conto che il mio non era altro che un sogno.

Massimo Rizzante
Nei primi racconti e romanzi – penso soprattutto a “Shiiku” (“Animale d’allevamento”, 1958) e a “Memushiri kouchi” (“Strappate i germogli, sparate sui bambini”, 1958) – ci sono elementi del suo universo artistico che si ritrovano, in parte o totalmente, anche più tardi. Lo spazio, ad esempio, è quello del villaggio della vallata nel mezzo della foresta le cui regole di vita sono lontanissime da quelle adottate dagli abitanti della città. Il punto di vista privilegiato è quello dell’infanzia: i personaggi protagonisti sono bambini. Il tempo del racconto si fa carico del pesante fardello della Storia che, nei due casi specifici, è quello della seconda guerra mondiale. Il tema della scoperta – proprio di chi è venuto al mondo da poco – esplode in scene violente e ricche di dettagli sordidi, come se l’innocenza perduta non cessasse di lordare le dita di chi ha osato sfidarla. Può essere la scoperta della solitudine e di un’esclusione, come in “Strappate i germogli, sparate sui bambini”, o la scoperta della realtà della guerra e della banalità della morte, come in “Animale d’allevamento”, o ancora la scoperta, più universale, della gabbia che è il mondo, dove non si capisce chi è l’animale e chi è l’uomo, chi è l’ostaggio e chi è il carceriere, e soprattutto, chi è il liberatore di noi tutti, uomini e animali, bambini e adulti. Direi che ciò che le sta a cuore fin dall’inizio è l’esplorazione delle situazioni umane insolite? È possibile?

Kenzaburo Oe
Le novelle e i romanzi del mio primo periodo – soprattutto le storie che si svolgono nell’atmosfera mitica del villaggio dello Shikoku dove sono nato – possiedono certamente le caratteristiche che lei ha messo in luce. Agli inizi della carriera, tuttavia, non ero in grado di enunciarle in modo così netto. Seguivo liberamente le mie sensazioni. Ero attratto irresistibilmente da quel genere di storie, di personaggi, di avvenimenti. Volevo descrivere un mondo con quelle tonalità. Lo trovavo particolarmente appassionante. Devo confessare che in tutto ciò la letteratura francese contemporanea ha avuto il suo peso. Ma è altrettanto vero che essendo allora un ragazzo completamente immerso nel mio tempo, disponevo esattamente di quello che avevo bisogno: un temperamento e una mentalità. Il suo approccio, perciò, mi procura oggi un sentimento insieme di sorpresa e scoperta. Nel corso della mia formazione di scrittore (benché, infatti, sempre e dovunque un ragazzo che ami la letteratura possa scrivere un romanzo, egli, una volta “scoperto” dal mondo letterario ed editoriale, sarà costretto a forgiarsi come scrittore una nuova personalità, metamorfosi questa che avviene solo attraverso un’infinita e dolorosa catena di sforzi) ho continuato a comporre romanzi inventando scene, personaggi e avvenimenti senza essere completamente consapevole di ciò che facevo, assecondando il mio temperamento e la mia mentalità. Non ho mai saputo veramente in quale direzione andasse la nave che io stesso ero. Molti altri elementi inconsci sono certamente intervenuti nel mio processo di crescita, dandomi forza ed energia. Quando ripenso a quell’epoca resta per me ancora misterioso il modo in cui un ragazzo di appena ventitré anni abbia potuto trasformarsi in uno scrittore. Avevo doti o un talento particolare per esserlo? Se dovessi a tutti i costi dare una risposta direi che questa andrebbe trovata nel semplice fatto di essere riuscito – senza troppo rendermene conto – a compiere quella misteriosa metamorfosi.

Massimo Rizzante
Nelle prime opere lei ama concentrarsi su quella tappa dell’esistenza che possiamo chiamare «iniziazione all’età adulta». La strada che porta all’età adulta, tuttavia, non è descritta come una graduale conquista della Ragione. Gli adulti, del resto, sono violenti, o presi dalla follia della guerra. È forse un caso che la voce narrante sia quella di un bambino o di un adolescente, mentre spesso gli eroi adulti considerano i bambini come degli animali (penso, ad esempio, al fabbro del villaggio di “Strappate i germogli, sparate sui bambini”)?

Kenzaburo Oe
Ha perfettamente ragione. I miei primi romanzi sono scritti dal punto di vista dei bambini, e i bambini che vi sono rappresentati non manifestano alcuna volontà di «iniziazione» al mondo degli adulti. Ed è vero, inoltre, che avevo l’impressione che gli adulti del villaggio trattassero noi bambini come animali. Quanto al «fabbro», il personaggio non è mai esistito nella realtà, ma corrisponde piuttosto al modo in cui il mio temperamento e la mia mentalità di allora mi spingevano a rappresentare la tipologia dell’adulto. Quanto alla parola «ragione», ecco cosa mi ricorda. Quando lessi per la prima volta, all’età di ventidue o ventitré anni, il romanzo di J.P. Sartre “L’Âge de raison”, rimasi completamente affascinato dal libro, ma allo stesso tempo mi resi conto che non avrei mai raggiunto l’età che quel libro indicava.

Massimo Rizzante
All’inizio di “Animale d’allevamento” – storia di un soldato di colore che, catturato dopo la caduta del suo aereo dai contadini di un villaggio, diventa “l’animale domestico” di alcuni bambini – il giovanissimo protagonista e suo fratello stanno rovistando in una fossa, usata abitualmente per cremare i morti, alla ricerca di alcune ossa da attaccarsi al petto come medaglie. Si imbattono nei resti dei cadaveri, ma continuano a giocare. Solo alla fine del racconto il protagonista ha la sensazione di non essere più un bambino. Il legame naturale con la morte è cambiato: una morte adulta, violenta è entrata nella sua vita. Preso in ostaggio dal soldato, deve assistere alla sua uccisione attraverso un colpo d’ascia inferto dal padre. La coscienza della morte è la sola frontiera tra l’infanzia e l’età adulta, destinate altrimenti a essere due regni nemici, pronti in ogni circostanza a battersi?

Kenzaburo Oe
Immergendomi di nuovo grazie alle sue riflessioni in “Animale d’allevamento”, penso anch’io esattamente la stessa cosa. Oggi mi rendo conto che allora percepivo l’infanzia e l’adolescenza come quel paradiso mitico di cui parla Mircea Eliade. Così come mi è chiaro che è la morte che offre l’occasione al bambino-adolescente di prendere coscienza del superamento del limite, della frontiera e della fine del suo paradiso. Il giovane protagonista della storia, tuttavia, non percepisce quel passaggio come «un’iniziazione», capace di trasformarlo in una persona adulta. Egli sbatte contro quel muro che è la morte. Si ferma davanti a quel muro e se ne resta lì, immobile. Credo che i miei personaggi (come del resto io stesso) non riescano mai a compiere una vera iniziazione all’età adulta, ma restino per sempre degli esseri «dell’al di qua», incapaci di superare quella soglia. Questa è senza dubbio la ragione per cui, come autore, non ho mai probabilmente smesso di scrivere la «Saga delle iniziazioni incompiute alle diverse età della vita». Oggi, a settant’anni, ho in programma di rileggere l’opera completa di Mircea Eliade, compresi i romanzi. Non è improbabile che questa decisione sia strettamente legata a quello che ho appena cercato di spiegare. Oggi la morte è davanti a me, più reale che mai: segno dell’“iniziazione”.

Massimo Rizzante
La sensazione di essersi lasciato alle spalle l’infanzia non è per il protagonista di “Animale d’allevamento” sufficiente ad avere una buona relazione con gli “adulti”. Allo stesso modo, l’esperienza della morte non basta al protagonista di “Strappate i germogli, sparate sui bambini” per sottostare alle menzogne del sindaco del villaggio, il quale vorrebbe fargli credere che non è successo nulla: non la paura della peste, non la fuga dei contadini dal villaggio, non l’abbandono dei bambini, non il massacro del disertore. Alla fine del romanzo il protagonista, un bambino affamato e tremante, ritornerà in libertà, ma solo per essere trasformato in preda dagli uomini del villaggio. Nelle due opere il mondo dell’infanzia non è un idillio, ma neppure quel luogo di nefandezze che è il mondo degli adulti. Il passaggio tra i due mondi sembra ostruito. Che fare? Grazie all’esperienza della guerra, il bambino attraverserà il ponte che lo conduce all’età adulta difendendo con i denti la propria innocenza, e diventando così un “uomo-bambino”. Non lascia il paradiso dell’infanzia. Si prepara tuttavia a vivere “l’inferno dell’innocenza” (“L’inferno dell’innocenza” è il titolo di un saggio che sto scrivendo sulla sua opera). Innocenza e ambiguità mi sono sembrate fin dall’inizio le parole chiave del suo mondo romanzesco. Che ne pensa?

Kenzaburo Oe
Sono davvero affascinato dal titolo del suo saggio: “L’inferno dell’innocenza”. William Blake è per me un poeta molto importante. In “The Song of Innocence” descrive il paradiso dei bambini, mentre il loro inferno è rappresentato in “The Song of Experience”. Ho riflettuto a lungo, soprattutto leggendo Dante – il poeta a cui sono più legato – sul fatto che non esista un “purgatorio” dei bambini: e che se un modus vivendi purgatoriale può avere un senso, questo vale soprattutto per gli adulti.

Massimo Rizzante
Lei ha spesso ricordato l’importanza di essere nato in un villaggio sperduto dell’isola di Shikoku. Ha sottolineato, difeso e rivendicato la marginalità, la non ufficialità, l’essere periferico della cultura di questa isola in rapporto alla cultura del centro e della capitale. Tale insistenza ha a che fare con le radici profonde della sua estetica? O è dovuta a ragioni più generali?

Kenzaburo Oe
È stato prima di tutto un problema estetico. Poi, nel corso della mia lunga carriera, credo di averne fatto un problema totale. Yukio Mishima, ad esempio, è in tutto e per tutto uno scrittore del “centro”, e la sua assolutizzazione dell’ideologia imperiale è una tipica teoria del “centro”, la quale copre tutti i campi: politico, storico, culturale. L’augurio che faccio a me stesso è di finire i miei giorni da uomo della “periferia”. Soprattutto se ciò avverrà nel Giappone in cui vivo, e in cui muoio.

Massimo Rizzante
Le ho rivolto la domanda precedente perché accanto alla frontiera pressoché invalicabile tra l’infanzia e l’età adulta, in “Animale d’allevamento” ce n’è un’altra: quella tra il villaggio della vallata nel mezzo della foresta e la città. Per gli abitanti del villaggio la gente di città appartiene a un’altra specie. È vero che il soldato di colore è trattato dai bambini del villaggio come uno «splendido animale domestico». Ma è altrettanto vero che i bambini gli vogliono bene. Non vogliono affatto che venga accompagnato con la forza in prefettura. I bambini del riformatorio di “Strappate i germogli, sparate sui bambini” riescono durante il periodo del loro «internato» nel villaggio a creare diverse alleanze con altre specie di marginali: il giovane disertore, il coreano, la piccola orfana abbandonata, il cagnolino sfuggito all’epidemia. Le chiedo: l’importanza di essere nati in periferia, lontano dal centro, consiste forse nell’avere sempre la possibilità di formare alleanze segrete, inopportune, difficili con altre “specie”? E in questo modo aprirsi all’universalità?

Kenzaburo Oe
Ha ragione. Penso che le parole che ha pronunciato nell’interrogare la mia opera siano le più belle che si possano ascoltare se si vuole cogliere l’aspettativa che i bambini dei miei romanzi nutrono verso il mondo. Per questa ragione, del resto, ho sempre cercato come scrittore delle vie che mi aprissero le porte ad altre letterature piuttosto che limitarmi a quella del mio paese .

Massimo Rizzante
Negli stessi anni di “Animale d’allevamento” e “Strappate i germogli, sparate sui bambini” ha pubblicato altri romanzi e novelle dove i protagonisti non sono più dei bambini, ma giovani studenti che all’indomani di Hiroshima e Nagasaki devono fare i conti con l’occupazione americana del Giappone. È il caso del suo secondo romanzo, “Warera no jidai” (“Il nostro tempo”) del 1959 e della novella intitolata “Tribù belante”, pubblicata nel 1958. Altri temi si affacciano: dall’infanzia si passa alla sessualità. La vita sessuale di Minami Yasuo, il protagonista de “Il nostro tempo”, è così trasgressiva e pornografica da potersi comparare, come hanno più volte hanno indicato i critici, alle prodezze erotiche dei personaggi di Henry Miller o di Norman Mailer? O la sua opera a quel tempo era attraversata dalla calda corrente del surrealismo francese? E il suo modo di descrivere la sessualità non era anche influenzato da scrittori giapponesi come Kawabata e Tanizaki?

Kenzaburo Oe
Soltanto una, fra le opere di quel periodo, ha per me un certo valore: “Tribù belante”. Nella novella domina il sentimento di alienazione che il protagonista, uno studente di provincia che vive a Tokio durante l’occupazione, prova a contatto con i soldati stranieri e con i compatrioti. “Il nostro tempo” è un’opera non riuscita. Il romanzo conserva un minimo di interesse nella misura in cui preannuncia un certo terrorismo giovanile (non si tratta in realtà di un vero progetto terroristico quanto di un gioco da ragazzi che terminerà con un fiasco). “Tribù belante” esprime, come ho detto, l’avversione di uno studente alienato nei confronti della società giapponese del suo tempo. La sessualità che vi è descritta è la pura manifestazione di un sentimento antisociale astratto. Ma ripensandoci, scopro che forse vi è nascosto qualche germe del ruolo che la sessualità ha giocato in tempi più recenti nella letteratura contemporanea. All’epoca le mie problematiche erano la politica e la sessualità. Entrambe sono presenti in “Seventeen” e in “Morte di un giovane militante”, dove un adolescente dedito all’onanismo si trasforma progressivamente in un militante dell’estrema destra. Tanizaki e Kawabata non mi hanno influenzato. La mia intenzione era piuttosto quella di lanciare una bomba contro la loro rappresentazione emozionale e sentimentale della sessualità che, a mio avviso, non ha fatto che sovrapporsi alla tradizione letteraria giapponese. In questo senso ero più vicino a Henry Miller e a Norman Mailer.

Massimo Rizzante
Dai pochi frammenti che ho potuto leggere la descrizione della sessualità del “Nostro tempo”, o meglio la contemplazione cinica della sessualità da parte di Minami Yasuo, è la sola chiave che il protagonista possiede per cercare di uscire da una situazione storicamente bloccata. Si tratta di una chiave che non conduce al piacere, ma alla violenza, alla follia, all’umiliazione, al dolore. In altri termini, alla «verità» che il piacere non fa che rinviare ad libitum. In “Strappate i germogli, sparate sui bambini” c’è il seguente passaggio: “La mano della piccola si tese improvvisamente verso di me e, mentre si inginocchiava, le sue labbra si posarono sulle mie dita e la lingua indurita leccò la mia ferita con piccoli colpi regolari, umettandola di saliva vischiosa” (è l’incontro amoroso tra l’adolescente, protagonista del romanzo, e la piccola orfana abbandonata). In questa scena il narratore descrive in modo analitico un rapporto fisico. C’è qui una “poesia del distacco” che non si ritrova nelle molteplici posizioni che Minami Yasuo assume quando copula con la sua donna di “mezza età”. Tale poesia appartiene soltanto alla sfera infantile di Eros? O lo sguardo dell’autore è influenzato ancora una volta dall’invalicabile frontiera tra il villaggio della vallata nel mezzo della foresta e la metropoli?

Kenzaburo Oe
Oggi m’ispira molta più simpatia la scena tra l’adolescente e la bambina in “Strappate i germogli, sparate sui bambini”, mentre la sessualità descritta nel “Nostro tempo” la riconosco solo come un procedimento formale per rappresentare come lei ha detto “la violenza, la follia, l’umiliazione, il dolore”. Ero uno scrittore che cercava di descrivere “il villaggio della vallata nel mezzo della foresta” o la nostalgia della sua perdita. La metropoli si ergeva come un grande muro che mi respingeva.

Massimo Rizzante
Nel suo ultimo saggio, “Il sipario”, Milan Kundera rilegge uno dei suoi primi racconti, “Tribù belante” (1958). Ricordo brevemente la vicenda. In una corriera della periferia sale un gruppo di soldati di un paese straniero che, sotto l’effetto dell’alcol, comincia a terrorizzare uno studente. Lo obbligano a togliersi i pantaloni e a mostrare il sedere (Kundera usa la parola “déculottage”). Lo studente è perfino costretto mettersi a quattro zampe e offrire il deretano al pubblico ludibrio. I soldati non si accontentano di una sola vittima e obbligano una parte dei passeggeri a compiere la stessa operazione. Una volta che il gruppo di soldati è sceso dalla corriera, i passeggeri umiliati si rivestono. Gli altri, che erano rimasti in silenzio, li obbligano a denunciare l’accaduto in commissariato. Uno di questi, un maestro elementare, perseguita lo studente e arriva fino alla sua porta di casa: vuole assolutamente che egli renda pubblica la propria umiliazione. Tutto finisce con un’esplosione di odio tra i due. Kundera si domanda: chi sono i soldati? Certo, sono gli americani che dopo la guerra occupano il Giappone. Ma perché l’autore per tutta la novella ci indica la nazionalità dei passeggeri e ci nasconde quella dei soldati? Risposta di Kundera: “Immaginate che, per tutta la novella, i passeggeri “giapponesi” si trovino di fronte a dei soldati “americani”! Pronunciata apertamente, quell’unica parola ridurrebbe con il suo potere la novella a un testo politico, a un’accusa contro gli occupanti». È sufficiente, continua Kundera, lasciare nella penombra quell’unica parola perché la luce si concentri sull’enigma principale per un romanziere: “l’enigma esistenziale”. Questa interpretazione corrisponde o si avvicina alle sue intenzioni?

Kenzaburo Oe
Il solo merito che credo di aver avuto come giovane autore è quello di essere riuscito a esprimere in questa novella il significato della parola francese “déculottage” (un atto di natura chiaramente culturale), in una lingua, quella giapponese, che non ne possiede l’equivalente. Milan Kundera è, a mio avviso, il più importante critico del mondo presente – la tremenda perspicacia dello “Scherzo” copre tutta la seconda metà del XX secolo – e io provo una profonda simpatia per la sua lettura della mia novella.

Massimo Rizzante
Nel 1961, nel primo numero della rivista “Bungakukai”, esce “Sebutin” (“Seventeen”), seguito da un altro racconto, “Seiji shonen shisu” (“Morte di un giovane militante”). Le due storie, autonome, sono legate dalla presenza dello stesso protagonista: un ragazzo di diciassette anni, grasso, impacciato, solitario, incompreso dalla famiglia e inveterato onanista, il quale vorrebbe “cancellare gli occhi degli altri”, o scomparire. Come trasformare una persona incapace di sostenere lo sguardo altrui in qualcuno in grado di guardare gli altri senza cadere vittima dell’angoscia? La metamorfosi è possibile grazie all’entrata fra le fila dell’estrema destra nazionalista. Indossando l’uniforme fascista, il ragazzo si libera della vergogna e concepisce la nuova vita di “figlio dell’Imperatore” come un’infinita erezione e un eterno orgasmo. Qui ha termine “Seventeen”. “Morte di un giovane militante” narra l’epoca successiva all’iniziazione: la formazione, la vita quotidiana nel quartiere generale del partito, la violenza, l’assassinio in diretta televisiva del Presidente del Partito Socialista e il suo suicidio in prigione. La vicenda è risaputa: a causa del soggetto, che riprende alcuni avvenimenti realmente accaduti (nel 1960, sullo sfondo del dibattito sul rinnovo del Trattato di sicurezza nippo-americano, Yamaguchi Otoya, un ragazzo di diciassette anni, uccide durante una trasmissione televisiva il Presidente del Partito Socialista Asanuma Inejiro) e della tonalità potentemente parodistica del libro, i fanatici della destra minacciano di morte l’autore e l’editore della rivista (ragione per la quale l’autore sarà costretto a rinchiudersi per un anno in casa). All’inizio le due storie furono pubblicate insieme. In seguito, lei permise la pubblicazione della prima, mentre lasciò cadere nel dimenticatoio la seconda. Si trattò di una scelta politica o estetica?

Kenzaburo Oe
Fu soprattutto una scelta estetica, anche se molti ancor oggi pensano il contrario. La storia della strana «iniziazione» del ragazzo termina definitivamente in Seventeen. Quanto alle ragioni “politiche”, è vero che alcuni leader dell’estrema destra di allora mi denunciarono, così come è vero che cercai di combatterli in completa solitudine. La stessa denuncia finì poi nel nulla a causa della perdita dei diritti civili di coloro che l’avevano istigata. Quest’ultimi continuano a nutrire nei miei confronti dei sentimenti critici. Quando mi fu assegnato il premio Nobel organizzarono davanti alla mia casa una sorta di manifestazione: mi accusavano di aver rifiutato di ricevere da parte dell’Imperatore un’importante decorazione per meriti culturali. Neppure io, d’altra parte, ho mai smesso di provare dei sentimenti critici nei loro confronti – e nei confronti di tutto ciò che i giapponesi conservano in se stessi e che è retaggio dell’estrema destra.

Massimo Rizzante
All’inizio della “Prefazione” all’edizione inglese (1995) delle sue Hiroshima Noto (Note su Hiroshima, 1965) si legge: “Che la vita di un uomo potesse giocarsi in modo decisivo nello spazio di qualche giorno, ecco un mito al quale in gioventù non ho mai creduto”. Eppure, come lei stesso afferma, una settimana dell’estate del 1963 a Hiroshima fu sufficiente per farle cambiare radicalmente atteggiamento verso se stesso e condurla a una nuova concezione dell’arte. Si trattò di una vera e propria «conversione» che dal punto di vista della creazione la porterà a pubblicare due romanzi, “Un’esperienza personale” (1964) e “Grido silenzioso” (1967). La nascita nel giugno del 1963 di suo figlio Hikari, gravemente handicappato, e la visita alle vittime delle radiazioni atomiche di Hiroshima furono, inoltre, il punto di partenza per un viaggio interiore che è stato anche un lungo apprendistato. Si potrebbe affermare che da quell’estate del 1963 la sua concezione estetica ha dovuto costantemente fare i conti sia con la sopravvivenza di Hikari sia con quella delle vittime della bomba atomica di Hiroshima?

Kenzaburo Oe
Porto sulle mie spalle – e porterò per sempre – il peso delle vittime della bomba atomica e quello della nascita di un figlio handicappato: sono i due avvenimenti che hanno segnato la mia esistenza. Non sono mai riuscito ad analizzarli isolatamente: quando pensavo al primo avevo sempre in mente anche il secondo. Si potrebbe dire che entrambi hanno a che fare con i due volti della violenza: quello che si estende nel mondo intero, e quello che si manifesta nel corpo umano.

Massimo Rizzante
“L’uomo che rivolge uno sguardo troppo lucido sulle prospettive di una situazione estrema non ha altra via di scampo che la disperazione. Soltanto colui che, grazie a una visione smussata, considera tale situazione unicamente come uno degli aspetti della vita quotidiana, è in grado di lottare contro di essa. Bisogna inoltre precisare che cosa implica una tale visione smussata delle cose. Infatti, impedire a se stessi di prendere in considerazione una situazione estrema se non attraverso tale visione, è ciò che permette, senza disperare, di farvi giustamente fronte grazie a una folle temerarietà di cui soltanto l’essere umano è capace. Ora, questa forma di miopia riposa sulla tenacia e nasconde nel fondo una chiaroveggenza straordinariamente vitale”. La citazione, che si trova nel capitolo intitolato “Coloro che non capitolano mai” del suo libro su Hiroshima, rappresenta, a mio avviso, una delle sintesi più luminose del suo umanesimo. Aggiungerei che, accanto a questa “miopia”, eminentemente umana, che fa in modo che tutte le situazioni più difficili possano essere ricondotte all’interno del cerchio della vita quotidiana, c’è anche una “cecità” che ci permette di restare legati al mistero dell’individuo e a quello dell’universo. Che ne pensa? Mi viene in mente, a questo proposito, lo studente protagonista della novella intitolata “Aghwee, il mostro celeste” (1964), che, perduto l’occhio destro a causa di un sasso lanciato da un bambino, giunge a percepire la presenza di un altro mondo abitato da esseri celesti – probabilmente le anime dei bambini morti, fra i quali quella di Aghwee – che “volteggiano a cento metri d’altezza, quiete e luminose come amebe al microscopio”. Certo, c’è anche l’occhio orientato verso le “tenebre craniche” di Mitsu, uno dei due fratelli protagonisti di “Grido silenzioso”…

Kenzaburo Oe
L’importanza di possedere una “visione smussata” delle cose – la necessità, insomma, di tale “miopia”, grazie alla quale l’uomo riesce a vedere più chiaramente la sua situazione, l’ho appresa leggendo le riflessioni riportate dai medici che per primi prestarono soccorso alle vittime delle radiazioni dopo lo scoppio della bomba atomica. Ho anche imparato che al fondo di tale “miopia” si trova “una chiaroveggenza straordinariamente vitale”. Sono stato spesso criticato (persino da persone che mi apprezzavano come romanziere!) per il fatto che tale certezza, insita nei miei saggi e nei miei reportage, non fosse presente nei romanzi e che, di conseguenza, ci fosse una scissione tra il Kenzaburo Oe critico e militante del movimento democratico e il Kenzaburo Oe romanziere. Ma il suo giudizio, nel quale ha avuto la gentilezza di rilevare la presenza di tale certezza anche nei personaggi dei miei romanzi, mi è veramente prezioso. E sono pienamente d’accordo con lei quando parla di una “cecità” che ci permette di unirci al “mistero dell’individuo e a quello dell’universo”. Questa sorta di misticismo, germogliato per la prima volta nella mia adolescenza vissuta nel villaggio della foresta, resiste ancor oggi. E ciò non mi sembra senza rapporto con la scelta di leggere in modo approfondito Mircea Eliade nei prossimi anni. Si tratta di un’abitudine che ho conservato da quando avevo venticinque anni e che proviene dall’insegnamento del mio maestro Kazuo Watanabe, secondo il quale bisogna eleggere un tema ogni tre anni e durante questo periodo studiare intensamente tutto ciò che gli concerne (Mircea Eliade, nel caso specifico, potrebbe essere il mio ultimo tema).

Massimo Rizzante
“Un’esperienza personale” si apre con la scena in cui Tori-bird, il giovane protagonista del romanzo, guarda su una carta geografica i contorni dell’Africa. E sospira. Sua moglie sta per partorire. Ma lui si sente ancora un bambino. Il mondo gli sembra una prigione. Vorrebbe fuggire come certi poeti maledetti di un tempo in Africa. Il neonato nasce con una mostruosa protuberanza sul cranio. Le sue possibilità di sopravvivere sono minime. Il protagonista, nel corso dell’intero romanzo, dovrà rispondere al seguente dilemma: far morire suo figlio oppure sottoporlo a un intervento chirurgico che in ogni caso non potrà preservarlo da un pesante handicap cerebrale? Tori-bird vorrebbe fuggire in Africa. Si trova un’amante, Himiko, un’amica di quando frequentava l’università, con cui il sogno sembra realizzarsi. Dopo qualche settimana la fuga dalla realtà termina con la decisione di compiere un tentativo per salvare il bambino. Tori-bird, come i personaggi di un tempo, deve accettare le regole dell’età adulta. Uomo rinnovato (rinuncerà all’infantile soprannome di “bird”), abbandona per sempre il suo romanticismo di gioventù. Alla fine del romanzo la prima parola che cercherà nel dizionario di lingue slave – regalo di un amico che sta per lasciare il Giappone – sarà “pazienza”. Un amico compositore, al quale avevo prestato il libro, mi ha domandato: “Che ne pensi? Questo romanzo non ti sembra tutto un crescendo verso un finale dove si glorifica quella vecchia divinità chiamata Maturità?». Le chiedo: in Giappone è mai esistito il “Bildungsroman”? E che cosa risponderebbe al mio amico compositore?

Kenzaburo Oe
Anche in Giappone esiste il “romanzo di formazione”. Ma ciò su cui è necessario insistere e rivolgere maggiormente la nostra attenzione è il “watakusi-shosetsu” (romanzo dell’io), un genere largamente praticato nel nostro paese. Il “watakusi-shosetsu” descrive con un alto grado di verosimiglianza la vita dello stesso scrittore, ma non possiede una vera struttura da “Bildungsroman”, dove l’autore segue la progressiva maturazione dell’eroe dall’infanzia o dall’adolescenza fino all’età adulta. Il solo scrittore che abbia scritto un romanzo di formazione, inteso in questo senso, è Kojiro Serizawa, che era un grande conoscitore della letteratura francese. Doveva avere in testa, credo, i romanzi-fiume di un Romain Rolland. Ora, resta da stabilire se si può considerare “Un’esperienza personale” un “Bildungsroman” o no. Penso si possa senz’altro considerare il percorso che conduce Tori-bird alla decisione finale come il romanzo di un’iniziazione. Per farne un vero e proprio “Bildungsroman” sarebbe stato necessario tuttavia descrivere “le fasi successive” della sua vita, il processo per mezzo del quale egli giunge a compiere la sua maturazione dopo aver attraversato molte prove nel mondo. Quando ho scritto il romanzo avevo la stessa età del mio protagonista. Per questa ragione l’ho scritto come se fosse il resoconto di un personaggio che soffre perché non sa come accettare l’esistenza del figlio primogenito nato con un grave handicap. Ma nel romanzo non c’è nulla che permetta al lettore di intravedere in quale modo vivrà Tori-bird dopo la decisione. Tanto che Tori-bird stesso si accontenta un po’ emotivamente di sfogliare un dizionario alla ricerca della parola «pazienza». Ho invece la sensazione di aver scritto per l’intero arco della mia vita un “Bildungsroman”, un vasto romanzo di formazione di cui “Un’esperienza personale” non è che il primo capitolo (ciò spiegherebbe il carattere moralista di tutti i miei romanzi). Ho voluto adottare come romanziere un atteggiamento esistenziale diverso da quello che avevo tenuto fino ad allora, quando mio figlio Hikari incominciò a fare i primi passi come compositore musicale. Ciò non toglie che, ritornato a scrivere romanzi, ho fatto della coesistenza con Hikari uno dei temi principali delle mie opere…

Massimo Rizzante
Si è molto discusso della costante commistione di autobiografia e invenzione che a partire da “Un’esperienza personale” caratterizza la sua opera. Non sono d’accordo. Ogni romanzo, a mio avviso, è un lungo ricordo improbabile, dove la frontiera tra memoria e immaginazione è invisibile: i ricordi correggono i sogni, i sogni correggono i ricordi. Nabokov affermava che l’immaginazione è una forma della memoria. E aggiungeva: “Non ho mai capito a che cosa serve immaginare dei romanzi o registrare degli avvenimenti che non siano in un modo o in un altro realmente accaduti”. Un altro grande romanziere europeo, Danilo Kis, si spingeva ancora più in là. Per l’autore di “Una tomba per Boris Davidovic” il romanzo corregge la Storia, ovvero assegna a ciascun individuo una storia, un volto. Per compiere questa missione, secondo Kis, esso non può fidarsi ciecamente dell’immaginazione, ma deve addurre delle prove, registrare delle tracce, ricomporre dei frammenti di biografie, deve, in altre parole, documentare la propria immaginazione. Qual è il vostro punto di vista sul rapporto tra Storia e romanzo?

Kenzaburo Oe
Sono ben consapevole che i romanzi scritti dopo “Un’esperienza personale”, e in particolar modo quelli basati sulla mia convivenza con Hikari, si collocano in un luogo difficilmente definibile tra l’autobiografia e la finzione. A tale proposito mi viene in mente la definizione di “immaginario” data da Gaston Bachelard, secondo la quale l’immaginazione non consiste nella capacità dell’uomo di ricevere le immagini così come si presentano, ma nell’operazione mentale che gli permette ogni volta di “trasformarle”. Penso che operare con l’immaginazione significhi diversificare gli avvenimenti, i personaggi e le storie in un romanzo. Mi capita spesso di mettere in scena una strana coppia, una “pseudo-coppia” per usare un’espressione di Samuel Beckett. Quello che in questo modo desidero mettere in rilievo è come grazie ai dialoghi ciascuno dei due personaggi “trasforma” la propria memoria. In Fuoco pallido di Nabokov, ad esempio, la “trasformazione” della memoria è al centro del romanzo. Non conosco le opere di Danilo Kis, ma accolgo con simpatia la sua idea sul rapporto tra Storia e romanzo, così come tra avvenimento e immaginazione – relazione di reciproca intercambiabilità. Detto questo, solo ora mi rendo conto che se ho spesso “citato” nei miei libri la figura di Hikari, un essere assolutamente reale, e il suo modo originale di esprimersi, l’ho fatto giustamente per “documentare la mia immaginazione”.

Massimo Rizzante
“Un’esperienza personale” ha costituito per lei una svolta dal punto di vista dell’arte della composizione romanzesca? E quale posto occupa nell’insieme della sua produzione artistica?

Kenzaburo Oe
Non capisco bene che cosa vuole dire quando usa la parola “composizione”. Tuttavia è chiaro che “Un’esperienza personale” è diverso da tutti i miei romanzi precedenti, in particolare perché si tratta di un romanzo in cui il narratore rappresenta il personaggio principale, Tori-bird, utilizzando la terza persona. Penso inoltre che il romanzo abbia una «forma» specifica, diversa da quelle dei romanzi successivi.

Massimo Rizzante
Vorrei soffermarmi ancora sulla forma. Quando il mio amico compositore mi ha domandato un parere sul suo romanzo, me ne sono rimasto in silenzio. Riflettevo su qualcosa di diverso rispetto al senso del finale. Pensavo all’episodio in cui Tori-bird si trova a casa di Himiko. Ha appena sognato suo figlio. Il sogno si trasforma in un incubo. Himiko vorrebbe aiutarlo, ma Tori-bir le dice: “È una cosa mia, un’esperienza personale. Ma anche quando si procede da soli nella caverna di un’esperienza personale, alla fine si può arrivare a una via d’uscita con una prospettiva di verità che coinvolge gli altri. Se esiste un’esperienza personale, in tal caso la sofferenza personale darà comunque i suoi frutti. Come Tom Sawyer che si affanna nella caverna buia ma che, uscito in superficie, scopre un sacco di monete d’oro! La sofferenza che ora io sto sperimentando non è altro che un procedere disperato e solitario, uno scavare in profondità la mia fossa, isolato dal resto del mondo … È una fossa sterile, vergognosa, odiosa e il mio Tom Sawyer finirà con l’impazzire di disperazione nel profondo di essa”. “Ho sperimentato che non esiste una sofferenza umana del tutto sterile”, lo conforta Himiko. Un elemento mi sembra fondamentale: Tori-bird è Tom Sawyer meno la certezza di trovare un sacco di monete d’oro. Certo, non può fuggire, ma come Tom Sawyer si protegge dagli adulti. Deve abbandonare l’idea di andarsene definitivamente in Africa, ma non l’idea che la vita è un’eterna iniziazione all’età adulta, una conquista infinita, in altre parole, un’avventura. Un’avventura quasi picaresca: Tori-bird decide improvvisamente di lasciare il suo posto all’università per diventare una guida turistica. A questo proposito: si può parlare di tradizione picaresca in Giappone?

Kenzaburo Oe
In Giappone non c’è una tradizione picaresca. Se cercassimo nel patrimonio mitico o folcloristico, credo si potrebbe trovarne l’equivalente. Ma non esiste un romanzo che ha creato dei personaggi che corrispondono ai protagonisti dei romanzi picareschi spagnoli o inglesi. Una volta ho sognato di scriverne uno alla mia maniera, ma…

Massimo Rizzante
Mitsu, il narratore di “Grido silenzioso” (1967), attraversa una crisi che non sembra avere sbocchi. Il lettore di “Un’esperienza personale” ritrova la fossa di cui Tori-bird parlava a Himiko. Mitsu ha perso un occhio, il suo migliore amico si è suicidato, il primogenito è nato con una grossa malformazione alla testa e la moglie si è messa a bere. Per sfuggire alla crisi ritorna al villaggio della sua infanzia nella valle nel mezzo della foresta. Il villaggio, considerato di solito come un rifugio rigeneratore, si rivela, a causa soprattutto dell’attività sovversiva del fratello Takashi, un luogo di violenza e di odio. Nel romanzo il male non è più un problema personale. Fili invisibili legano epoche storiche lontane. Per scioglierli, è necessario andare alle radici degli individui, delle leggende del villaggio e dei conflitti sociali. È necessario, come il narratore afferma a proposito dei dannati dell’inferno buddista dipinti nel tempio, diventare molto intimi della sofferenza, quasi dei compagni di viaggio del diavolo. Per entrare nell’inferno esistenziale di qualcuno – o per entrare nel nostro – ogni mezzo è consentito: sogni, immaginazione, ricordi, leggende, documenti storici… Una tale molteplicità di registri era prevista fin dall’inizio?

Kenzaburo Oe
Ho impiegato tre anni per terminare “Il grido silenzioso”. È un tempo abbastanza lungo se si considera che ero un romanziere agli esordi. Mi sembra che nel romanzo ci sia una notevole accumulazione di elementi eterogenei e che l’aver scelto come luogo principale dell’azione il mio villaggio natale della valle nel mezzo della foresta ha generato ancor di più quella che lei ha chiamato una “molteplicità di registri”. Il solo “topos” mitico è il villaggio della valle nel mezzo della foresta: in esso si nasconde ogni molteplicità.

Massimo Rizzante
Il villaggio dovrebbe significare la salvezza di Mitsu. Egli, tuttavia, è costretto ad affrontare l’ostilità della natura, degli abitanti e della famiglia. Il suo sguardo lucido fa andare in mille pezzi il mito del ritorno alle origini. Ma nel mondo della prosa tutto è ambiguo: Mitsu, grazie al soggiorno nel villaggio, comprende il senso profondo della sua storia, senso intessuto di sogni e leggende legati ai suoi avi. Mito e romanzo possono dunque coesistere?

Kenzaburo Oe
Sì, penso di sì. Direi che ciò che sta alla base dell’immaginazione letteraria produce tale “coesistenza”.

Massimo Rizzante
In questo romanzo dove i ricordi si nutrono di sogni e la frontiera tra storia e leggenda non è ben distinguibile, la descrizione della natura è ricca di dettagli. Nelle sue opere si trova una profusione di immagini, di analogie, di metafore liriche che uniscono il regno dell’uomo a quello animale e a quello vegetale. Il lettore si trova di fronte a una sorta di scena poetica che ingloba la dimensione epica del romanzo, il quale si libera d’un tratto dalle catene della verosimiglianza. Lei ha ricordato molte volte il suo amore nei confronti di poeti come Dante, Blake o Yeats, a tal punto che la sua intera opera in prosa (così come le sue singole creazioni) sarebbe lo sviluppo o il commento di qualche verso poetico. Hai mai scritto poesie? E qual è per lei la relazione tra romanzo e poesia? Glielo domando perché, leggendo autori come Kafka, Broch, Musil, Kundera, mi sono reso conto della differenza che esiste tra ciò che chiamiamo poesia e un atteggiamento lirico, idealizzante, sprovvisto di quello sguardo scettico sul mondo proprio del romanzo. Anche per lei questa distinzione è valida?

Kenzaburo Oe
Per quanto mi riguarda la poesia è ciò che c’è di più alto in letteratura. Scrivere un romanzo e costruire una poesia sono due cose completamente diverse. Servendomi di un’antica parabola potrei dire che la poesia è qualcosa di celeste, mentre il romanzo è scritto per qualcuno di questa terra, qualcuno che è precipitato dal cielo. Ho appena terminato un romanzo che si intitola “Addio romanzo!” Il titolo l’ho ripreso da un passaggio di un romanzo di Nabokov, “Il dono”, l’ultimo del periodo berlinese, scritto con uno stile che ricorda quello poetico di Puskin. Nabokov, pur non essendo un poeta, è stato un grande lettore di poesia. Ho scritto il romanzo adottando lo stile di una lettura – effettuata dal protagonista – dei “Four Quartets” di T.S. Eliot. Penso che un poeta sia qualcuno che racconta, attraverso la parola poetica alla quale si è totalmente consacrato, la definitiva saggezza su questo mondo, sulla vita, e su ciò che trascende questo mondo e questa vita. L’ultimo Eliot ne è un grande esempio. Un romanziere, invece, non giunge mai a pronunciare quella parola definitiva, poiché questo non è consustanziale alla parola romanzesca. In questo senso citare qualche verso di Eliot, ad esempio, e raccontarne poi il contenuto in prosa in un romanzo, costituisce per un romanziere uno compito straordinario. È proprio così che ho scritto un certo numero di romanzi.

Massimo Rizzante
La vicenda raccontata in prima persona da Mitsu è intessuta di parallelismi, echi e simmetrie tra il presente e il passato. L’esempio più evidente è l’insurrezione provocata dal fratello Takashi, che “ripete” una rivolta più antica, avvenuta nel 1860. Mitsu e Takashi vestono di nuovo i panni che furono del bisnonno e di suo fratello. Come interpretare tutto questo? Si tratta di una fatalità senza tempo? Dipende dall’immaginazione dei personaggi? O dalla loro volontà incosciente di rivivere il passato? In ogni caso, quello che mi sembra straordinario, e molto importante per la storia del romanzo, è la creazione di un personaggio romanzesco concepito per “vivere” in epoche storiche diverse. Da dove viene questa idea? Lei sa che, all’incirca negli stessi anni, molti romanzieri come Fuentes, Kundera, Kis, seguendo alcune suggestioni presenti nei romanzi di Broch e Thomas Mann, l’hanno messo in pratica… Ma, sulla base di queste esperienze estetiche condivise da diversi romanzieri contemporanei, una domanda si impone: se il romanzo moderno è lo strumento più raffinato per esplorare la specificità di un individuo, che cosa resta di tale specificità, una volta che i gesti, i pensieri, le azioni di Mitsu e Takashi si rivelano essere delle “ripetizioni” che vengono da un passato ancestrale?

Kenzaburo Oe
Il mio procedimento formale più importante è “la ripetizione contenente delle variazioni”. L’ho stabilito in quasi cinquant’anni di vita letteraria. Lo utilizzo costantemente: dalla concezione generale del romanzo ai minimi dettagli, fino all’immagine apparentemente più banale, fino all’uso di certe metafore… “Il grido silenzioso” ne è stato il punto di partenza. Credo che sia molto interessante mostrare come le scelte che hanno messo in crisi i giovani giapponesi degli anni Sessanta del XX secolo fossero già presenti nel 1860, e come quest’ultime si possono sovrapporre alle prime, prendendo così la forma di una ripetizione in grado di liberare delle variazioni. La mia stessa visione della Storia e dell’uomo si basa su questo paradigma. Ciò si lega perfettamente al misticismo dell’“eterno ritorno” di Mircea Eliade, nozione che mi è sempre presente quando rifletto sulla storia delle idee moderne e contemporanee. Non c’è dunque nulla di nuovo? Come scrittore, e solo come scrittore, risponderei: con i miei romanzi affermo che non c’è nulla di nuovo. Ciononostante ci sono sempre cose che ci appaiono nuove, cose che possono essere già esistite come “ripetizioni contenenti delle variazioni”. E penso che oggi si possano vedere in tali variazioni le concrete e sinistre novità dei nostri tempi nucleari che hanno integrato come possibilità la terribile distruzione dell’intera umanità. Ma credo anche che in tali variazioni vi sia la possibilità di veder nascere un nuova umanità.

Massimo Rizzante
Dal 1967, data di pubblicazione del “Grido silenzioso”, a “M/T e il racconto delle meraviglie della foresta”, romanzo uscito nel 1986 (mai tradotto in italiano), le traduzioni delle sue opere in Occidente sono rare. Leggendo qualche frammento della sua biografia, mi risulta che gli anni Settanta, che si aprono con “Okinawa noto” (“Note di Okinawa”), sono segnati dallo studio dell’opera di Bachtin e dalla riscoperta delle radici del romanzo moderno occidentale: Rabelais e il suo “Gargantua e Pantagruele”. Che cosa ricorda di quel periodo?

Kenzaburo Oe
Nel 1969 ho pubblicato “Insegnaci a superare la nostra pazzia”, mentre nel 1971 è uscito “Il giorno in cui Lui mi asciugherà le lacrime”. La prima è una raccolta di novelle in cui la mia vita con Hikari si sovrappone al ricordo di alcuni episodi che hanno come protagonista mio padre. Della seconda opera ho scritto qualche tempo fa: “Il giorno in cui Lui mi asciugherà le lacrime” è la storia di un quarantenne che un giorno dell’estate del 1945 brucia completamente la sua anima (o che, essendo vittima di questa convinzione, vuole farla finita)”. Era un tentativo di analizzare in modo critico la mia visione dell’Imperatore e l’entusiastica simpatia nei confronti dell’ultranazionalismo che albergava potenzialmente nella mia anima. Ora, questo tema si è presentato nuovamente, sotto forma di “ripetizione contenente delle variazioni”, nella mia ultima trilogia romanzesca: “Changeling”, “Doji dalla triste figura”, “Addio romanzo!” Aggiungo che alcune novelle scritte durante gli anni Settanta sono state tradotte in inglese e pubblicate con il titolo “Teach me to outgrow our madness” (Grove Press). “Kozui wa waga tamashii ni oyobi” (“Le Acque hanno invaso la mia anima”) del 1973 descriveva la resistenza armata di un gruppo di giovani contro il potere dello Stato e la loro sconfitta sullo sfondo di un’atmosfera apocalittica (propria di un’epoca nucleare) molto diffusa nel Giappone di quegli anni. Ricordo che allora si verificò realmente un fatto analogo. Un gruppuscolo di studenti che si faceva chiamare “L’armata rossa del Giappone” mise in atto alcune operazioni di terrorismo contro lo Stato. “Pinchi ranna chosho” (“Verbale di un pinch runner”), uscito nel 1976, sebbene sia stato tradotto in inglese, è un romanzo non riuscito. Il caso ha voluto, tuttavia, che lo scrivessi a Mexico City, quando ero visiting professor al Collegio de México. Grazie a quei corsi universitari, ho potuto scoprire il valore della letteratura latinoamericana e avvicinarmi seriamente alla teoria del «realismo grottesco» di Bachtin, che da quel momento diventò sempre più importante per la mia concezione letteraria. Lo scopo del mio soggiorno in Messico era quello di riprendermi dallo choc che avevo subito dopo la morte, nel 1975, del mio maestro Kazuo Watanabe (grande studioso di Rabelais). Il fatto di aver incontrato veramente Bachtin – incontro poi essenziale – in Messico ha rappresentato per me una vera e propria rivelazione: ho scoperto come un banale avvenimento dell’esistenza può apportare a un uomo una fondamentale «rinascita» spirituale. In seguito ho pubblicato alcuni cicli di novelle: “L’albero della pioggia intelligente” (1980); “Alzatevi, giovani della nuova era” (1983); “Morso dagli ippopotami” (1985). Benché questi libri di novelle non siano stati tradotti in Occidente (fatto salvo l’edizione inglese di “Alzatevi, giovani della nuova era”), rappresentano per me una tappa importante. Durante la loro redazione ho cercato costantemente di mettere in pratica la teoria di Bachtin, concependola come uno sviluppo originale del formalismo russo. Furono tentativi di cui senza dubbio il risultato migliore è ancora oggi “Dojidai gemu” (“Il gioco della contemporaneità”), il romanzo più importante di quell’epoca e che non è mai stato tradotto in Occidente. In Francia si tende a volte a confonderlo con il titolo di un altro mio romanzo, “Il grido silenzioso” (in francese “Le Jeu du siècle”), con cui non ha niente a che fare. È piuttosto un altro romanzo, e precisamente “M/T e il racconto delle meraviglie della foresta”, che rappresenta una consapevole «ripetizione contenente delle variazioni» del “Gioco della contemporaneità”. In questi romanzi è facile scovare ciò che Bachtin ha apportato alla mia opera. Vorrei aggiungere una cosa. Oggi sono accusato dai conservatori giapponesi di aver attentato all’onore della patria a causa di alcuni passaggi presenti nelle “Note di Okinawa”, ovvero a causa di un libro scritto trentacinque anni fa!

Massimo Rizzante
In “M/T e il racconto delle meraviglie della foresta” le leggende e i miti del villaggio sono al centro della narrazione. Hikari, il bambino nato con una grossa protuberanza alla testa, grazie alla cicatrice nella parte posteriore del cranio (dovuta a un intervento chirurgico), è riconosciuto dal padre come l’ultimo rappresentante di una lunga stirpe di eroi “della valle in mezzo alla foresta”. Hikari è la reincarnazione di Doji, che a sua volta era la reincarnazione di Meisuke Kamei – la cicatrice alla testa ne è il segno divino –, ovvero due bambini di sei anni che secondo la leggenda avevano avuto un ruolo fondamentale nelle rivolte della gente del villaggio ai tempi in cui era governato da una gigantessa chiamata Oshikome. Tutto in questo romanzo è inverosimile! Ma tutto è terribilmente vero! Il narratore, ossia il padre di Hikari, che ha ricevuto fin dall’infanzia il compito di ascoltare e trascrivere le leggende del villaggio, ci avverte dall’inizio: mito e Storia in questo romanzo si mescolano continuamente. Tutto ciò mi ricorda altri grandi romanzi della seconda metà del XX secolo, come ad esempio “Cent’anni di solitudine” di García Márquez, “Il rombo” di Günter Grass, “I figli della mezzanotte” di Salman Rushdie, “Texaco” dello scrittore martinicano Patrick Chamoiseau: in tutte queste opere il narratore e il romanziere si scambiano continuamente i ruoli. Ciò fa sì che le “meraviglie” delle fonti orali della cultura popolare e lo sguardo critico dell’individuo del romanzo moderno si sovrappongono senza soluzione di continuità. Lei pensa che la cultura orale e popolare, che è stata così importante per il romanzo latinoamericano degli anni Cinquanta e Sessanta, può ancora, in Giappone come altrove, essere una possibilità estetica per la storia del romanzo?

Kenzaburo Oe
Mi dà una grande gioia vedere il mio nome e la mia opera associati alla letteratura contemporanea mondiale. All’elenco da lei proposto aggiungerei “La guerra alla fine del mondo” di Vargas Llosa. L’alternarsi di “inverosimiglianza” e “verità”, e quindi il continuo scambio della “verità” con l’“inverosimiglianza”, e infine la “ripetizione contenente delle variazioni” sono per me l’essenza della letteratura. L’elemento “orale e popolare” ha un rappresentante di grande talento in Giappone. Si tratta di Ko Machida, uno scrittore che è anche cantante punk e leader di un gruppo musicale. Egli è in grado di valorizzare al massimo grado le corde profonde di uno dei dialetti più potenti, quello che si parla a Osaka. Il suo romanzo più significativo si intitola “La confessione”, ed è la storia di un fuorilegge che ha compiuto una strage.

Massimo Rizzante
All’inizio di “M/T” troviamo il seguente passaggio: “Per pensare la vita di un uomo è necessario tracciare una mappa che non si accontenti di partire dalla sua nascita, ma che risalga nel tempo più in là ancora e che non si fermi neppure al giorno della sua morte, ma si estenda al di là. La venuta di un uomo al mondo non dovrebbe ridursi alla sua nascita e alla sua morte. Egli nasce all’ombra del cerchio delle persone che lo attorniano e, anche dopo la morte, ci dovrebbe essere qualcosa che sussiste”. Se si vuole comprendere interamente “la mappa della vita” di un individuo, è necessario prendere in considerazione tutte le “reincarnazioni” precedenti alla sua nascita e quelle posteriori alla sua morte. A questo proposito mi viene in mente una riflessione di Elias Canetti: “L’uomo deve imparare a essere in modo cosciente molti uomini e riuscire a tenerli insieme tutti”. Quando ho letto le prime pagine del suo romanzo ho visto d’improvviso un angusto sentiero di montagna – era in Giappone o in Svizzera? – dove due uomini, forse un padre e un figlio, o un maestro e il suo discepolo, o forse due fratelli – ero certo solo che uno dei due era più anziano dell’altro – si incrociavano all’altezza di un grande albero e si salutavano. Mi sono detto: l’Oriente e l’Occidente di Oe…

Kenzaburo Oe
Trovo particolarmente interessante che lei citi Elias Canetti. All’inizio del mese scorso, subito dopo aver terminato l’ultimo romanzo della mia nuova trilogia – nel quale immagino la fine del mondo – sono stato in Germania per partecipare ad alcune letture pubbliche. Durante il viaggio avevo con me la traduzione inglese di un volume della sua autobiografia, “Il gioco degli occhi”. L’avevo portato soprattutto per rileggere quel passaggio in cui Canetti, passeggiando di notte per le vie della città, ha l’impressione, dopo aver scritto il finale del suo “Auto da fé”, di aver bruciato il mondo. Canetti è salvato da un libro che si trova nella sua libreria: un’opera di Büchner. Anch’io sono ritornato a leggere i libri di Mircea Eliade dopo un’esperienza analoga. Uno scrittore in età avanzata come me non può più separare la vita reale dalle opere che ha scritto o che ha letto se non attraverso frontiere sempre più invisibili e che tendono a sovrapporsi. Attendo con timore misto a piacere che tutto ciò abbia il suo giusto compimento quando la mia età sarà ancora più avanzata.

Massimo Rizzante
“Gli anni della nostalgia” (1987) è la storia di una grande amicizia: quella tra Gii, un uomo misterioso, radicato nel suo villaggio della foresta, e Kei, un ragazzo che, abbandonato il villaggio alla volta della grande città, vuole diventare scrittore. È anche la storia di una formazione dove il maestro, poiché è un vero maestro, impara spesso dal suo allievo. Si ritrovano gli echi di personaggi, situazioni e temi presenti nei romanzi precedenti. Ma dal punto di vista formale una frontiera è stata superata e l’autore, sentendosi più libero, sembra oltrepassare la soglia di una “vita nuova”. La mia allusione a Dante non è casuale. Quando Gii è in prigione, Kei ha un solo modo di comunicare con lui: procurarsi i libri su Dante con i passaggi sottolineati e commentati dal suo amico. Così, tanto per Gii quanto per Kei, la “Divina Commedia” diventa il modello per comprendere il mondo. Che ruolo ha per lei l’opera di Dante?

Kenzaburo Oe
Gii, il personaggio degli “Anni della nostalgia” che nel suo villaggio immerso nella foresta non smette di leggere Dante, è ancor oggi assai vivo in me, e ben al di là dei confini di questo romanzo. Quanti simbolismi alla luce e all’ombra dell’opera di Dante sono presenti nei miei romanzi! Chiunque traesse una novella da ogni storia e da ogni personaggio danteschi – che in fondo sono solo delle illusioni –, diventerebbe senza dubbio il più grande scrittore di novelle della storia della letteratura mondiale. Se si scrivesse un libro consacrando un capitolo a ciascuno dei personaggi danteschi – che rappresentano ciascuno un tipo umano – si avrebbe un dizionario delle personalità in grado di esprimere più di qualsiasi altro libro tutte le sfumature dell’animo umano. Se si potesse radunare attorno alla figura di Belacqua, ad esempio, tutti gli scrittori che hanno provato e provano un vero amore nei confronti dell’opera di Dante, avremmo riunita la miglior compagnia di uomini di lettere che si possa sognare. A parte l’opera creativa di Dante, anche alcuni testi critici che gli sono stati consacrati mi hanno molto influenzato, in particolare lo studio di John Freccero intitolato “Dante. The Poetics of Conversion”. Immagino di terminare i miei giorni di romanziere senza una conversione, ovvero lontano dal Cristianesimo, ma alla luce e all’ombra di Dante, pensando ad esempio a «Ulisse che riprende il viaggio». E sono certo di una cosa: ciò avverrà avendo come guida un altro studio di Freccero: “Dante’s Ulysses: from Epic to Novel”.

Massimo Rizzante
Il narratore alla fine del romanzo descrive la scena della morte di Gii. Subito dopo immagina la spiaggia dell’isola del Purgatorio dantesco dove il pellegrino e Virgilio, compiuto il rito purificatore, sentono il canto di Casella. Le anime sono sequestrate dalla bellezza del canto tanto che il vecchio e scorbutico Catone, il guardiano dell’isola, deve riportarle all’ordine. All’isola dantesca se ne sovrappone un’altra, emersa dai ricordi personali del narratore, dove i due amici, Gii e Kei, vivono una sorta di idillio interrotto da un vecchio che, come il Catone di Dante, riconduce alla realtà il maestro e l’allievo. Kei afferma che scriverà ancora molte lettere al suo amico e maestro scomparso Gii e a tutti coloro che vivono “nel cerchio eterno degli anni della nostalgia”. La parola “nostalgia”, dopo l’“Odissea”, racchiude uno dei miti fondatori della civiltà occidentale, quello del ritorno. È forse un caso se nel romanzo troviamo trascritte per mano di Kei le ultime sedici terzine del canto di Ulisse? La nostalgia che provano Kei e Gii è quella senza speranza dei dannati dell’Inferno dantesco? O quella colma di desiderio eterno delle anime del Purgatorio?

Kenzaburo Oe
Ho risposto alla domanda precedente senza aver letto quest’ultima. Il mio interesse per Catone è legato al suo ruolo di guardiano dell’isola del Purgatorio, sebbene sia pagano e, per di più, suicida. La nostalgia che affligge Kei e Gii non è né quella dei dannati dell’Inferno né quella delle anime del Purgatorio: i due amici si trovano soltanto “nel cerchio eterno degli anni della nostalgia”. Non sperano di essere salvati, ma non si disperano neppure per il fatto di non esserlo. Sono prima di tutto due pagani! Vorrei riprendere un passaggio di uno studio di Freccero. Nella “Commedia”, come nell’“Eneide”, il corso della Storia segue la traiettoria del sole, da est a ovest. Afferma a questo proposito il critico: “Una volta stabilito qual è il corso lineare della Storia, l’uomo coraggioso che, in un momento di estrema intemperanza, volesse vincere la Storia o la Grazia, finirebbe i suoi giorni da naufrago, anche se abbracciato al corpo di Penelope”. Kei e Gii appartengono a questa specie di uomini “coraggiosi” e anch’io, come romanziere, vi appartengo.

Massimo Rizzante
In “Un’esistenza tranquilla” (1990) il signor K., romanziere in crisi, è invitato come “writer in residence” in una università della California. Sua moglie lo accompagna. La coppia lascia a Tokio i tre figli: Ma, che studia all’università la letteratura francese; O, che sta preparando l’esame di ammissione all’università; Eoyore, il maggiore, che pur avendo un importante handicap cerebrale, compone musica. Il romanzo è il diario di Ma durante i sette o otto mesi d’assenza dei genitori. La narratrice è “figlia di suo padre”: di quest’ultimo, infatti, cercherà lungo il corso della vicenda di mettere in pratica i consigli letterari. Grazie alla figlia, il padre giungerà a riflettere sulla sua opera, così come grazie al padre e alla figlia, l’autore rifletterà sulla propria. Non è così?

Kenzaburo Oe
Esatto. Ma nel romanzo che ho appena terminato (“Addio romanzo!”), il narratore-protagonista e io stesso usciamo dalle acque tiepide delle “astuzie” nelle quali l’autore si è per molto tempo “bagnato” e facciamo un passo in avanti verso un luogo estremamente pericoloso, un luogo molto vicino alla catastrofe. Il passo in questione mi era stato consigliato da un amico che rispettavo enormemente, W. E. Said, secondo il quale the later work di uno scrittore deve elevarsi verso la catastrofe…

Massimo Rizzante
Nel capitolo 5, il cui titolo è “Tristezza del romanzo”, O, dialogando con la sorella a proposito del padre, afferma: “Se scrivere un romanzo significa porre in evidenza i problemi che incontriamo nella realtà, e se questi problemi non possono essere risolti dal romanzo, allora capisco perché nostro padre abbia molte difficoltà a riprendersi dalla crisi”. Si capisce ancora meglio la crisi del signor K. se si legge, sempre nello stesso capitolo, l’appunto paterno che Ma trova in una pagina di un libro: “Perché in Giappone non c’è nessuno scrittore in grado di confortare i suoi lettori?” Questa domanda mi spinge a porgliene un’altra, che forse giudicherà un po’ brutale: il romanzo deve davvero preoccuparsi di consolare l’uomo?

Kenzaburo Oe
Sono costretto a formulare una risposta ambigua, augurandomi che allo stesso tempo sia profondamente sincera. Come romanziere non ho mai cercato di “consolare” gli uomini. Non penso neppure che i miei romanzi lo abbiano realmente fatto. Devo tuttavia confessare di essere stato consolato da molte opere letterarie, soprattutto poetiche: negli ultimi anni, in particolare, dai “Four Quartets” di T. S. Eliot. E in tutto ciò non ho mai desiderato uscire dal mio inferno o purgatorio, ma sono rimasto nel “cerchio eterno degli anni della nostalgia”, come Kei e Gii nella loro isola.

Massimo Rizzante
Dopo “Un’esistenza tranquilla” le sue tracce in Europa si perdono di nuovo fino al 1994, anno in cui le sarà assegnato il premio Nobel per la letteratura. Sebbene abbia scritto diversi romanzi dopo quella data, l’ultima opera che ho potuto leggere (a parte il discorso di Stoccolma e un breve scambio epistolare svoltosi a metà degli anni Novanta con Günter Grass) risale al 1995. Si tratta di “Una famiglia”, una raccolta di brevi prose che ruotano ancora attorno alla figura di Hikari. Questo libro è per lei un’altra possibilità formale del romanzo? E visti i molti tasselli mancanti degli ultimi quindici anni, potrebbe parlarmi un po’ delle sue pubblicazioni più recenti, le quali, spero, rappresenteranno presto il nostro futuro di lettori?

Kenzaburo Oe
Negli ultimi anni ho pubblicato la trilogia “Il verde albero in fiamme”, ispirata da alcuni versi di Yeats, e “Salto mortale”, romanzo scritto all’ombra del poeta gallese R.S. Thomas. La traduzione tedesca della trilogia è uscita da Fischer. Mentre, come le ho già detto, la traduzione inglese del secondo è uscita da Grove Press. Dal 2000 al 2005 ho scritto una nuova trilogia: “Changeling”, “Doji dalla triste figura” e “Addio romanzo!”, di cui il primo volume è stato pubblicato in autunno da Fischer con il titolo di “Tagame, Berlin-Tokyo”. È la storia di uno scrittore, Kogito – personaggio che assomiglia molto a Kei – e di suo cognato e amico fraterno Goro, cineasta che finirà suicida. Considero questa trilogia come la degna conclusione del mio later work. Uno scrittore, se gli resta ancora da vivere, non può fare a meno di concepire nuove opere. Per il momento mi appassiono ai libri di Mircea Eliade e appoggio, per quanto mi è possibile, il movimento che cerca di ostacolare il tentativo in atto di riformare la Costituzione pacifista del Giappone.

Massimo Rizzante
La frase che il suo maestro Kazuo Watanabe le ripeteva sempre ai tempi dell’università, ovvero che “bisogna vivere senza troppa disperazione né troppa speranza”, è ancora una delle sue massime preferite?

Kenzaburo Oe
Certo, assolutamente.

Nota
Il dialogo con Kenzaburo Oe si è svolto nell’agosto 2005 nella sua casa di Tokyo in giapponese (con alcune digressioni in inglese), presenti gli amici e studiosi Yoshinari Nishinaga e Tadahiko Wada che si sono gentilmente offerti come interpreti. Lo scrittore ha voluto poi prendersi alcuni mesi per rispondere per iscritto alle mie domande. La presente versione integrale in italiano esce grazie al prezioso aiuto di Mokichi Ohiro. Una parte del dialogo è uscita in “Nuovi argomenti”, 34, aprile-giugno, da poco in libreria.

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8 Commenti

  1. Intervista smisurata (che fatica leggerla tutta a video!), come lo è il valore dell’opera di Kenzaburo Oe. Ottimo lavoro, Massimo.

  2. Rispondo a Gianni e a tutti coloro che patiranno un po’ la lunghezza del mio post. In effetti il testo è un po’ “smisurato”. Ma si tratta di un dialogo “scritto”, più che di un’intervista. Alcuni mi avevano consigliato un post a puntate, altri di evidenziare dei campi tematici. Ma alla fine ha vinto la mia pratica assai relativa con il mezzo, e il tempo che fugge. Ma soprattutto volevo che la versione integrale in italiano fosse pubblicata su NI. Un regalo giapponese a me stesso e all’allegra brigata.

  3. Massimo, come tu sai, conoscevo già questo dialogo, facendo parte di quella fortunata schiera di amici cui fai leggere le tue cose. E so che questo post è un dono. Da una parte per Nazione Indiana che in qualche modo lo potrà impugnare aggiungendo un altro tastello alla complessa costruzione di una critica che sia veramente critica. Dall’altra so anche che questo dialogo fa parte di un libro. Un libro che tutti (editori, scrittori, librai) vorrebbero pubblicare e che poi nessuno pubblica. Mi auguro allora con tutto il cuore e l’amicizia che ci lega che questo dono sia un’anteprima, quella ad un libro che tutti potremo trovare in qualsiasi libreria di questo paese , dal punto di vista editoriale, vigliacco e incapace di assumersi il benchè minimo rischio. Un’editoria che invece di trincerarsi dietro a un “per opere così belle non c’è mercato”, faccia semplicemente il proprio dovere, ovvero, creare un mercato dove vi siano solo soltanto opere così belle.
    effeffe

  4. Ciao,

    credo che sia una delle più belle cose postate su NI, Kenzaburo Oe è uno degli scrittori più importanti del mondo, e purtroppo in italia è stato tradotto pochissimo… come del resto la letteratura giapponese vive nel nostro paese sotto un cono d’ombra dal quale non riesce ad uscire…
    è un approfondimento preziosissimo.
    grazie,
    donato

  5. Ho con Ôe ho un rapporto alquanto contrastato, ma questo dialogo dà voglia di ritentare. Grazie mille Massimo.

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