Un giornalista giusto

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David Frum, l’americano che non fa sconti

quarta puntata de “Il giornalismo italiano e l’Islam”
un’inchiesta di Roberto Santoro
[leggi la prima, la seconda e la terza puntata]

Noi sappiamo che Dio non è neutrale in questa lotta.
George W. Bush

The Right Man, l’editoriale che David Frum firma ogni settimana sul “Foglio” di Giuliano Ferrara, si ispira a un saggio che l’autore americano intitolato The Right Man: The Surprise Presidency of George W. Bush.
Il sorprendente Bush non è solo l’uomo giusto al momento giusto, il presidente che ha deciso riformare il medio oriente per vincere la Quarta Guerra mondiale. La parola right si riferisce anche alla destra che governa gli Stati Uniti con un reazionario software di capitalismo cristiano.
Frum è il corrispondente di questa Right Nation, la nazione americana che si sente giusta perché è di destra.
Intellettuale ebreo di origini canadesi, Frum è emigrato negli Stati Uniti alla fine degli anni settanta, affascinato dai nuovi conservatori americani che si ispiravano al filosofo tedesco Leo Strauss (1899-1973). Strauss era fuggito dalla Germania nazista per riparare in America, dove sarebbe diventato una colonna della Chicago University. La sua lezione neoplatonica ha profondamente influenzato il pensiero critico americano del secondo dopoguerra. Gli “straussiani”, secondo John Micklethwait e Adrian Wooldridge, sono “filosofi elitaristi convinti che le masse debbano essere pilotate da una intellighenzia colta”.[1]
Ai tempi dell’amministrazione Regan, i discepoli di Strauss acquistano potere nel Grand Old Party e influenzano la classe dirigente americana. Creano think tank, fondazioni, riviste, fino a diventare accorti consiglieri del Presidente George W. Bush e i più accesi sostenitori delle guerre in Afghanistan e in Iraq. Anne Norton, un’allieva di Strauss che rilegge da sinistra il pensiero del maestro, è convinta che l’attuale dottrina di politica estera dei neoconservatori avrebbe turbato i sonni del patriarca:

I neoconservatori vogliono uno Stato forte con un leader forte. Vogliono una politica estera espansionistica. Cantano le lodi della guerra e delle virtù belliche e denunciano la decadenza degli intellettuali. Vorrebbero che le donne tornassero al ‘kinder, kirche, kurchen’. Inscenano rappresentazioni patriottiche. Incoraggiano i cittadini a informarsi sui vicini di casa. Pianificano l’avvento di un nuovo ordine mondiale capace di rivaleggiare con l’Antica Roma.[2]

Frum scrive i discorsi di George W. Bush e lavora per l’American Enterprise Institute, il principale pensatoio della destra neoconservatrice.
Ha coniato l’espressione Axis of Evil (“Asse del male”) per indicare le dittature sponsor del terrorismo. È una figura di spicco dell’entourage atlantico, uno degli idealisti che vogliono esportare la democrazia, e che teorizzano il nation-building per espropriare le enclave non ancora colonizzate dal capitalismo globale.
Questi amministratori-intellettuali non hanno bisogno di tramare macchinazioni imperiali, come facevano i loro predecessori in America Latina. I “giusti” vogliono semplicemente una dottrina politico-militare coerente, una missione storica disciplinatrice del mondo, che per il momento si manifesta nel progetto di riforma dell’islam.
A questo punto è necessario chiarire meglio cos’è l’idealismo atlantico e in che modo questa ideologia ha determinato la “Dottrina Bush”.
I padri fondatori della missione civilizzatrice dell’America nel mondo sono stati Harry Truman, Woodrow Wilson e Ronald Regan. Questi presidenti invocarono, in periodi diversi del novecento, l’autodeterminazione di ogni popolo dal giogo della dittatura (meglio se comunista).
Truman mise in pratica questo progetto con il Piano Marshall, Wilson cercò di rendere il pianeta un luogo più “sicuro per la democrazia”, Regan definì gli Stati Uniti la “città scintillante sulla collina”, la nazione che sorvegliava il mondo libero. Parole d’ordine che risuonano ancora nell’animo degli americani.

Per i conservatori americani l’America non è semplicemente un’entità geografica, è l’espressione materiale di un ideale spirituale. Ronald Regan è stato probabilmente colui che meglio ha simboleggiato questa fondamentale convinzione conservatrice. Egli credeva che Dio avesse scelto l’America come l’agente del suo progetto speciale sulla terra. Poiché incarnava l’ideale democratico e, per di più, voleva diffonderlo in tutto il mondo, l’America non era condannata alla decadenza, come era avvenuto per l’impero romano e quello britannico.[3]

Nel codice genetico degli idealisti come Frum ci sono i cromosomi del vecchio umanitarismo imperialista, i miti della buona amministrazione coloniale inglese (Egitto, 1882) e dell’impresa napoleonica (Egitto, 1798).
L’obiettivo è sempre stato di combattere per e non contro l’islam, di invadere altri paesi senza urtare la sensibilità delle popolazioni locali, in nome del buongoverno occidentale.

Come scrisse Max Boot sul “Weekly Standard” nell’ottobre 2001: ‘L’Afghanistan e altri paesi turbolenti oggi esigono quel tipo di amministrazione straniera illuminata un tempo assicurata da inglesi sicuri di sé, con casco coloniale e calzoni alla cavallerizza’.[4]

Oggi gli idealisti esportano diritti umani, illuminismo, modernità, per abbattere le barriere che impediscono ai musulmani di godere delle libertà planetarie. In un editoriale apparso sulla rivista “Commentary” nel 2005, lo storico Victor Davis Hanson scrive che “il nuovo realismo americano è rappresentato dall’idealismo con i muscoli, il solo antidoto per il radicalismo islamico e le sue appendici terroristiche”. Per Hanson non bisogna guardare tanto al modello wilsoniano, ma ad una sorta di nuovo “jacksonianesimo illuminato”.[5]
Il professor Francis Fukuyama è convinto che nel mondo ci sono “paesi ricchi e potenti” e zone del mondo “lontane e caotiche”, nazioni al culmine della loro potenza e stati deboli e “falliti in modo abietto”. Tutto il Medio Oriente è instabile per “la mancanza di democrazia, di pluralismo o di significativa partecipazione popolare”.
La stagnazione economica si unisce a una crescita esponenziale delle nascite, generando “migliaia di bambini senza prospettive”.[6] Al collasso dei valori islamici denunciato da Fukuyama, ha risposto il compassionevole presidente George W. Bush. Nel discorso tenuto a West Point nel giugno 2002, Bush ha teorizzato la dottrina della “guerra preventiva” che ha scalzato i talebani in favore del più moderato Karzai e ha rovesciato il regime di Saddam Hussein trasformando l’Iraq in una democrazia. Se si agisce in nome dei “valori universali” non c’è solo “il diritto” ma anche “l’obbligo” di intervenire. La guerra giusta è un dovere morale, dice Richard John Nehuas, direttore dell’Institute On Religion and Public Life di New York, accanito studioso delle teorie di Papa Ratzinger sulla guerra islamista anticristiana. La sicurezza intellettuale di questi studiosi è straordinaria.

La riforma dell’islam
L’esportazione della democrazia nel mondo islamico, il nation building, dovrebbe avvenire in tre fasi:

  • la ricostruzione dei territori occupati;
  • la creazione di istituzioni democratiche e di un’efficiente amministrazione dello stato;
  • la protezione della proprietà privata, la sicurezza, l’istruzione, la sanità.

Una sfida del genere, in paesi come l’Afganistan, è a dir poco paradossale. Quel popolo, secondo Fukujama, “non ha mai avuto uno stato moderno”. Gli afgani vengono semplicemente annullati dalla Storia, senza che l’autore si preoccupi di spiegare quali sono state le loro tradizioni politiche precedenti. Non ce ne sono state, sembra far intendere Fukuyama.
Per quanto remota, la sfida riformista sembra essere l’unica carta rimasta in mano ai musulmani per non restare fermi al palo del VII secolo dopo Cristo. Questa partita può essere vinta soltanto grazie a un “dominio morale” più elevato di qualsiasi “ordine legale”, per essere più precisi il dominio assicurato dall’internazionalismo liberale, al quale si ispirano Fukuyama e gli altri idealisti, conservatori o democratici che siano.[7]
A differenza dei colonialisti classici, che ritenevano impossibile una riforma strutturale dell’islam e praticavano l’occupazione e lo sfruttamento del territorio, i nuovi idealisti atlantici non perdono tempo in piani di conquista, si limitano a esportare il modello capitalista. Dovranno essere i popoli islamici a realizzarlo concretamente, attraverso la democrazia e il libero mercato. Liberare l’islam significa farlo uscire dal suo medioevo fascista e cristallizzato, aiutarlo a tornare sulla retta via, l’unica, la Via di Roma e di Gerusalemme Celeste. In una parola, aprire la strada al mercato.
La segreta fiducia nell’idea di una riforma islamica era già presente nel pensiero di Gustave E. Von Grunebaum (1909-1972), un altro intellettuale sfuggito al nazismo emigrando negli Stati Uniti. Nonostante ritenesse l’islam una forza “antiumanistica” che aveva voltato le spalle al progresso, Grunebaum era convinto che gli arabi avrebbero potuto migliorare la propria condizione adottando il sistema di valori, le istituzioni e la prospettiva di vita occidentale. Il rinnovamento dello spirito islamico sarebbe stata una prova di maturità oltre che di modernizzazione.[8]
Nel passaggio storico che dall’imperialismo classico conduce all’idealismo atlantico contemporaneo, dunque, si può notare che le forme colonialiste del razzismo biologico vengono progressivamente sostituite da un razzismo diverso, di tipo culturale.
Nella postmodernità, gli islamici non sono più considerati dei sottosviluppati congeniti. Quella che una volta era giudicata una differenza razziale (siamo meglio di loro) è diventata un semplice ‘ritardo’ politico, sociale, religioso (siamo più avanti di loro). Gli arabi non sono ‘diversi’ ma semplicemente ‘indietro’ nella corsa a ostacoli del capitalismo. Devono sforzarsi di recuperare terreno, istituzioni e forme politiche, ma soprattutto devono ammortizzare la fede con una sana iniezione imprenditoriale.

Conquistare i cuori e le menti
La riforma dell’islam sognata dagli idealisti atlantici somiglia ai giudizi espressi da Karl Marx sull’amministrazione coloniale inglese in India. Ed è un fatto che molti di questi pensatori un tempo sono stati intellettuali di sinistra.

Quasi tutti (i neconservatori, nda) erano stati marxisti in gioventù, ma con il passare degli anni avevano abbracciato il liberalismo di vecchio stampo: quello dei valori meritocratici, del rispetto per l’alta cultura e per un’economia fortemente mista. Fu il tradimento di questo liberalismo da parte della sinistra che li trasformò in neocon.[9]

Usare la forza in India, secondo Marx, fu senz’altro spiacevole, ma nel dramma c’era una possibilità di salvezza. Grazie all’occupazione, le popolazioni locali avrebbero potuto emanciparsi dalle condizioni di assoggettamento precedenti, tipiche di una civiltà rurale, di una mentalità e di una fede arcaiche, abbracciando lo sviluppo capitalistico.
Oggi numerosi esponenti della classe dirigente atlantica sognano questo tipo di riforma dell’islam. Come annuncia il professor Andrew Krepinevich a proposito dell’Iraq, per vincere la guerra bisogna conquistare “i cuori e le menti” della popolazione. Ovviamente Marx aveva in mente una dialettica proletaria antitetica a quella di Krepinevich, ma la funzione emancipatrice del mercato resta intatta.
Nel 1993, Paul Johnson ha scritto che “il colonialismo è tornato appena in tempo”, che le “nazioni civilizzate” devono prendersi cura del “Terzo Mondo” e che occorre “ricolonizzare” il medio oriente per farlo accedere alla modernità. Anche Johnson è stato un intellettuale di sinistra, prima di entrare in rotta di collisione con rinunciatari e pacifisti.[10]
Nel 2005, Paul Berman, scrittore liberal e autore di Terrore e Liberalismo, ha interpretato così un’ambigua dichiarazione di Saddam Hussein (“sono uguale a Mussolini”): abbiamo combattuto una guerra antifascista contro il baathismo saddamita. L’ideologia del tardo capitalismo, in altri termini, dissimula il suo discorso egemonico unipolare dietro lo zelo riformistico proiettato sull’islam.
L’utopismo di Frum dà voce alle comunità subalterne dell’islam, i giovani e le donne. Il modello di progresso che queste nicchie sociali dovrebbero adottare per emergere, secondo gli straussiani, è fondato su poche ma imprescindibili esigenze come la sicurezza, l’ordine, una limitazione dei poteri dello stato, il rispetto delle donne, la difesa della proprietà privata, la libertà di parola, una giustizia uguale per tutti, la tolleranza religiosa, il diritto alla studio. L’idealismo atlantico è un melange di spirito riformatore liberale, evangelismo cristiano e teorie politiche postmoderne.
Frum crede davvero a una funzione “anticoloniale” svolta dagli Stati Uniti dopo il ritiro delle potenze europee dal medio oriente.
Quest’idea è alimentata da un’altra credenza inossidabile, che esista un islam classico, che affonda nella notte dei tempi, e che non rispecchia la configurazione statuale del medio oriente emersa dopo il 1920. I confini del mondo postcoloniale sono stati tracciati a casaccio dagli ex conquistatori europei, sulle antiche mappe dell’impero Assiro e della Siria romana. Stati come l’Algeria, la Giordania e il Kuwait, secondo Frum, sono “invenzioni dei cartografi imperialisti”. L’autore se la prende con tutti quelli che aiutarono l’islam a danneggiare il mondo occidentale:

Dopo la guerra, Lawrence accusò gli inglesi e i francesi di avere tradito la fiducia degli arabi, ingannandoli e truffandoli. Lawrence morì nel 1929, ma il suo insegnamento si è imposto. Non è stato un problema che questi arabi sunniti fossero seduti sopra ai più grandi giacimenti del mondo, o che ospitassero alcuni dei più pericolosi gruppi terroristici del mondo.[11]

Rifarsi a un passato islamico millenario e originario, da opporre a quello spurio del presente, è un modo per delegittimare gli stati arabi contemporanei. Dopo secoli di ingovernabilità, l’Iraq si appresta a diventare il faro della democrazia che estenderà i suoi raggi civilizzatori su tutto il medio oriente. Tutto questo grazie all’eroismo e alla perseveranza dei demiurghi che lavorano alla Casa Bianca, che non vogliono invadere altri paesi, ma solo riformarli, visto che è impossibile riportarli all’antico splendore. I soldati non sono forze di occupazione ma di pace, giunte in Iraq per custodire e restaurare le vestigia dell’“Antica Babilonia” (il nome della missione italiana in Iraq).

I pilastri della Dottrina Bush
La riforma dell’islam è un’occasione storica per la cultura giudeo-cristiana: diamo il voto agli esclusi e riconquisteremo il paradiso perduto. Come un nuovo Prometeo, gli Stati Uniti hanno aperto gli occhi sui regimi e le dittature sanguinarie che proliferano nel mondo: i fondamentalisti musulmani sono l’avversario offerto all’America dalla Provvidenza per combattere il Male. In questa promessa di redenzione democratica, l’idealismo atlantico mostra di essere una forma di revival religioso:

Alcune persone ritengono che l’America sia attualmente nel pieno del suo Quarto Grande Risveglio, ma la verità è che questi “grandi risvegli” sono stati così frequenti e prolungati che non c’è mai stato un momento di sonno dal quale svegliarsi. Il revivalismo non ha bisogno di essere fatto rivivere, anzi è un tratto costante della vita america.[12]

Frum descrive la Casa Bianca come un luogo dove si prega e si parla a bassa voce. Ricorre a grandiose metafore bibliche per dare un senso alla Quarta Guerra mondiale che si combatte sui “campi di Battaglia della Mesopotamia”. Espressioni come “Estirpare il Male”, il titolo di uno dei suoi saggi, danno un tono etico inappellabile alle tesi dell’autore, un sapore metafisico a questa promozione di valori liberali.
Il fondamentalismo cristiano e il mito della Grande Israele servono all’autore per ‘sceneggiare’ il progetto di liberazione dell’islam. Il primo dei “quattro pilastri” della politica di George W. Bush è proprio “l’universalità del fine morale”.[13]
Gli altri tre sono il “cambio di regime” (regime change) per prosciugare gli stati sponsor del terrorismo, il concetto di “guerra preventiva” e la creazione di uno stato palestinese. La riforma atlantica cambierà il volto delle società arabe e musulmane. Frum lusinga il Grande Ayatollah sciita Ali al Sistani come la più autorevole guida spirituale irachena.

A tutt’oggi l’autocontrollo degli sciiti ha meravigliato il mondo intero. È un autocontrollo che si fonda sulla speranza di un futuro diverso e sul ricordo di un passato non ancora completamente dimenticato.[14]

Ma che succederebbe se un domani al Sistani fosse a capo del parlamento e votasse a maggioranza l’introduzione di leggi islamiche? O decidesse di allearsi con Teheran? Per adesso al Sistani saluta il passaggio di consegne della provincia di Najaf dal controllo alleato a quello del nuovo esercito iracheno, e assicura la vittoria del “sì” nella zona sud del paese, durante il voto di ottobre 2005 per la nuova costituzione dell’Iraq.
Questa predilezione verso gli sciiti iracheni è una delle tante eredità dell’orientalismo. Gli stati coloniali praticarono costantemente questa politica di difesa delle minoranze oppresse: ieri lo facevano gli inglesi e i francesi con i drusi e i maroniti in Libano, oggi ci provano gli americani con gli sciiti e i curdi in Iraq. Nonostante la guerriglia permanente a Baghdad, Frum spara a zero sulla stampa che rievoca i fantasmi del pantano vietnamita:

I capicronisti americani hanno un detto: “Se c’è sangue c’è notizia”. Anche in Iraq, le immagini di violenza hanno preso il posto di quelle della ricostruzione e della trasformazione. Le immagini in questione non sono false. Sono tuttavia ingannevoli.[15]

Le truppe americane, sostiene trionfalmente l’autore, hanno sbaragliato Saddam con la metà dei mezzi e nella metà del tempo che servirono a vincere la Prima Guerra del Golfo (1991). Purtroppo l’errore è stato proprio questo, ed è stato denunciato dal Pentagono non da qualche oscuro disinformatore: un’invasione fatta troppo in fretta e con pochi uomini. Tanto che si è dovuto rapidamente cambiare strategia, ripartire dai grandi centri occupati per controllare le province.

Dopo la globalizzazione
Oil for Food, il programma umanitario delle Nazioni Unite dopo la Prima Guerra del Golfo, secondo Frum è stato una riffa fatta di “petrolio in cambio di palazzi”. L’ennesimo episodio di corruzione che ha coinvolto l’Onu, l’amministrazione Clinton, il governo francese, la Russia, le lobby terzomondiste, l’Unione Europea e il Vaticano. Tutti collusi con Saddam.[16] Come dire, Frum intona è il de profundis degli accordi e dei trattati internazionali, indica il passaggio a un’epoca che verrà dopo l’ONU, il WTO, l’FMI, il G8.
Dal suo punto di vista, le prove ingigantite o inventate di sana pianta dai governi alleati per giustificare la guerra in Iraq erano necessarie.
Ecco l’animo neoplatonico degli idealisti discepoli di Strauss: solo alla stato è concesso di mentire. Il casus belli non sono stati i depositi (introvabili) di armi chimiche di Saddam Hussein, bensì “i programmi” che il dittatore iracheno aveva in mente di attuare.
Grazie a paradossi come questo, si comprende meglio il concetto di “guerra preventiva” del governo Bush. Non si combatte più per il contenimento, cioè contro un avversario dotato di un arsenale militare uguale al nostro, ma si impedisce all’avversario di possedere qualsiasi tipo di arsenale.
Sarebbe più complicato spiegare perché la “dottoressa Germe”, una delle più pericolose ricercatrici che lavoravano ai presunti piani di sterminio di Saddam, è stata liberata dagli americani. Secondo il presidente iracheno Jalal Talabani, è stato un gesto di buona volontà che si inserisce nel progetto di pacificazione nazionale. Che ne sarà di Germe? Finirà a lavorare in qualche dipartimento americano? Dettagli come questo sono ininfluenti per Frum, l’importate è che “la riforma del clima ideologico e morale dell’intero Medio Oriente” sia compiuta.

L’autocritica è preziosa, perfino indispensabile. Eppure sarebbe un errore ancora più grave se permettessimo al necessario senso critico di renderci ciechi di fronte al flusso di eventi positivi in Iraq. È nata una nuova stampa libera. Le scuole sono state riaperte, e la classe del 2003 si è diplomata nei tempi previsti. L’erogazione di energia elettrica non è mai stata migliore nella storia del Paese. Il petrolio viene prodotto ed esportato a beneficio di tutti gli iracheni, e non di un solo dittatore e della sua famiglia. Si stanno tenendo elezioni comunali. È stata istituita una valuta stabile. Stiamo reclutando una nuova classe di magistrati che rafforzeranno e applicheranno la legge. Presto l’Iraq avrà una costituzione e una classe politica eletta dal popolo.[17]

Il piano esposto dall’autore non è fallito, è un delirio riuscito. Ma è interessante notare che l’albergo di Baghdad dove risiedeva Paul Wolfowitz, vicesegretario alla difesa degli Stati Uniti, finiva sotto i colpi dei missili di Zarqawi mentre Frum scriveva queste pagine (ottobre 2003).
Il giornalista “giusto” non si accontenta di dire le cose come stanno, vuole spiegare anche come saranno. Gli editoriali di Frum vanno letti come anticipazioni ghiotte sugli orientamenti diplomatici degli Stati Uniti, e come altrettante indicazioni rivolte all’amministrazione (quella americana e quelle dei governi alleati) sui passi da intraprendere nella lotta contro il terrorismo. L’obiettivo della guerra irachena è di integrare la nazione musulmana in una forma di sovranità – il superstato transatlantico – libera da collocazioni spaziali, senza confini e senza tempo.
Frum non fa sconti. Quando l’alleato Berlusconi prova a ripetere che “la guerra in Iraq era sbagliata”, viene redarguito senza troppa indulgenza sulle colonne del “Foglio”. Il principe deve ascoltare i saggi che lo circondano e farsi persuadere dalla migliore delle politiche possibili:

Che cosa aveva in testa Silvio Berlusconi? Autoinvitarsi a Washington e richiedere un incontro con il presidente Bush per poi annunciare, proprio alla vigilia dell’incontro, di essersi opposto alle politiche di Bush sull’Iraq e l’Iran? Non soltanto cinico, ma anche irresponsabile.[18]

Frum condanna ogni genere di codardia (quella clintoniana su tutte), evocando un mondo popolato da nemici mostruosi, dove un Male tolkeniano avanza inesorabile in una guerra senza regole, perpetua più che permanente.
Nella sua furia iconoclasta, l’autore non salva nemmeno l’amministrazione di Bush Padre, accusata di non aver riportato a casa la testa di Saddam dopo la Prima Guerra del Golfo.
Frum è un insider, la vera voce della Casa Bianca. Il suo afflato creativo si traduce in uno stile fatto di rapidi piani-sequenza, vere e proprie incursioni letterarie sui prossimi stati-canaglia che vanno “estirpati” dalle cartine geografiche. Guerra all’Afganistan, all’Iraq, all’Iran e alla Siria, all’Arabia Saudita, visto che agli intransigenti dell’amministrazione Bush non piace essere presi in giro dai reucci di Riyadh.[19] L’oro nero dell’Arabia è lontano dalle città-stato controllate dai Saud. Se i regnanti non contrasteranno il rigorismo wahabita, i pozzi petroliferi finiranno presto nella mani giuste.
La prosa di Frum è una minaccia formale e ultimativa più che una promessa di cambiamento per l’islam. Il “noi” usato enfaticamente dall’autore è il plurale maiestatis del funzionario coloniale, la personificazione letteraria della politica americana in medio oriente. Il tono è inappellabile, lo stile scarseggia di orpelli retorici, quello che conta è impartire dispacci, parole d’ordine. Territori, luoghi e popoli del mondo musulmano vengono pieghettati in modo millimetrico per liberarli da un passato di violenza, cupidigia e intolleranza, e assoggettarli ad un futuro di pacifica sovranità atlantica. Questa cartografia ideale scontorna gli assetti abituali della politica internazionale e li risagoma per adattarli al mutato paesaggio egemonico del Tardo Capitalismo.
Il ruolo di polizia universale spetta alla Fanteria Atlantica, mentre i processi di ammodernamento economico toccano alle reti multinazionali e all’industria dell’umanitarismo.

Le contraddizioni dell’idealismo atlantico
La scrittura di Frum è un potere che ha la capacità di creare e ricreare l’islam. Se non fosse che, a un certo punto, qualcosa s’inceppa, e il lettore perde ogni cognizione di quelle genti, di quella realtà inesistente eppure materiale situata su un piano antitetico rispetto alla trascendenza testuale di Frum. Una superficie concreta e immanente, la pianura del lavoro e dell’affettività, che l’analista americano sorvola senza mai planarci davvero, nonostante si sforzi di parlare a nome di tutti gli islamici.
La conclusione di questo capitolo può essere utile a indagare alcune contraddizioni dell’idealismo atlantico. Una teoria che non spiega a cosa servono i parlamenti nazionali tipo quello irakeno se gli stati non hanno più confini, se il reddito e il lavoro sono diventati transnazionali. Gli idealisti si prodigano incessantemente per le riforme altrui, chiedono istituzioni islamiche rappresentative, una deregulation economica e la riduzione del settore pubblico in medio oriente. Consultazioni, costituzioni, elezioni, hanno il compito di creare mete simboliche che inducano a una spontanea accettazione, come diceva Harol Lasswell a proposito delle moderne tecniche propagandistiche.[20] Per dispiegarsi, il capitalismo globale ha bisogno di pace, sicurezza e stabilità: “genti di diverse razze e di diverso sesso, caratterizzate da differenti scelte sessuali, vengono incluse nell’organizzazione”.[21] Il messaggio rivolto alle donne arabe è ‘resistete, minigonne e telefonini stanno arrivando’. Se le istituzioni locali stentano a decollare, se la democrazia non riusciremo ad esportarla come forma di governo, almeno la diffonderemo come forma di intrattenimento.
La cultura di massa islamica, con i suoi network televisivi, le chat e la Mecca Cola di Tawfik Mathlothi (venti milioni di bottiglie l’anno), non ha niente da invidiare a quella occidentale.

Un grosso lavoro. Ma il bello è che è un lavoro che abbiamo già compiuto in passato – in Europa Occidentale, nell’Asia Orientale, e in America centrale. Questo curriculum ci suggerisce che non è impossibile tentare ancora.[22]

In realtà il patriottismo, il militarismo, il “Dio lo vuole”, cioè il nocciolo duro della riforma dell’islam patrocinata dai più aggressivi circoli atlantici, appaiono speculari alla mitologia del fondamentalismo islamico.
Bin Laden crede di combattere contro un mondo laico e secolarizzato e invece si trova di fronte una nazione, gli Stati Uniti, dove le organizzazioni religiose prosperano nelle stanze del potere.
Il governo americano ha una politica interna regressiva, fatta di crociate contro l’aborto, incurante dell’ambiente, a favore della pena di morte.
Una politica che vorrebbe diffondere nelle scuole la preghiera e il racconto creazionista sull’origine dell’universo, nonostante i tribunali americani lo vietino in modo addirittura clamoroso (l’ultima volta è stato il processo di Harrisburg nel 2005). E che dire della mistica nativista del Texas, terra di petrolio e Ku Klux Klan? Ricordate i linciaggi del selvaggio West? Nel 2003, Richard Perle, “il principe delle tenebre” dell’amministrazione Bush, ha evocato con una mezza risata le bande di miliziani del West, le posse organizzate dai bravi cittadini per dare la caccia a indiani e tagliagole, come il modello più adatto di repressione del terrorismo.[23]
Vogliamo parlare di Marvin Olasky, il consigliere spirituale del presidente Bush? Un uomo che ammira le istituzioni religiose in cui i bambini disobbedienti sono costretti a leggere in ginocchio la Bibbia.
Avete letto Left Behind, il long-seller di Tim F. LaHaye sull’Armageddon? Avete visto al cinema Prima dell’Apocalisse, il film di Bill Corcoran in cui l’Anticristo è il presidente delle Nazioni Unite?
Vi turba il seno di Janet Jackson? Credete alle guarigioni istantanee e alla glossalia? Siete pratici del dispensazionalismo? Questa dottrina annuncia il ritorno del Messia in Israele per la seconda volta. Il giorno in cui finalmente gli ebrei si convertiranno al cristianesimo.
Forse avrete sentito alla radio una delle 1600 emittenti di NRB (National Religious Broadcasters), il potente network degli evangelici, ma probabilmente ignorate l’esistenza degli Snake Handlers, una setta di derivazione pentecostale. Nelle loro assemblee, i fedeli brandiscono grossi serpenti velenosi. Ottanta morti dalla nascita del movimento e le adesioni crescono, soprattutto tra i minatori e gli operai degli Appalachi.
Se tutto questo non vi disturba, allora siete con quella maggioranza di americani che chiedono un modello di società chiuso, religioso e conservatore. La Right Nation che si converte e prega, mentre la minoranza di idealisti della Casa Bianca si riempie le tasche col nuovo umanesimo islamico. È il (vecchio) trucco di Frum, il fardello in groppa all’uomo sbagliato.

NOTE
1. John Micklethwait e Adrian Wooldridge, La Destra Giusta, Mondadori 2005, p. 157. Stefano Pistolini ha riassunto così il pensiero di Leo Strauss: “analisi maniacale, osservazione ossessiva dell’oggetto del dibattito, scelta ponderata del linguaggio, del tono delle parole (e dei silenzi) utili ad affrontarlo, come i pensatori classici, invano, cercarono di imporci”, in Quanto Strauss c’è in Bush?, il Foglio 26 febbraio 2005
2. Secondo Anne Norton, Strauss dedicò spazio alla filosofia musulmana all’interno della sua opera, ma i suoi discepoli della destra americana “hanno cassato qualsiasi menzione relativa alla connessione tra Strauss e l’islam”, in Stefano Pistolini, cit., il Foglio 26 febbraio 2005
3. John Micklethwait e Adrian Wooldridge, cit., p. 369
4. J. Micklethwait e A. Wooldridge, cit., p. 234
5. Victor Davis Hanson, Ideali e muscoli, il Foglio, 16 dicembre 2005
6. Francis Fukuyama, Esportare la democrazia, Lindau 2005, p. 127
7. “In campo economico, gli Stati Uniti hanno compiuto un notevole sforzo nel corso delle generazioni passate cercando di promuovere un regime liberale e multilaterale del commercio e degli investimenti”, F. Fukuyama, cit., p. 141
8. Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli 2001, p. 347
9. J. Micklethwait e A. Wooldridge, cit., p. 79
10. David Frum, Appeasement, il Foglio, 19 ottobre 2005. Said ha parlato di “ricostruzione restaurativa” e di “sovrannaturalismo naturalistico” per indicare questa ricostruzione a posteriori di un islam originario. È il richiamo alla missione cristiana di far rivivere un mondo morto, come credeva Chateaubriand, che permette agli autori occidentali di riscrivere creativamente l’islam contemporaneo, cit., p. 170
11. J. Micklethwait e A. Wooldridge, cit., p. 351
12. D. Frum, Estirpare il Male, Lindau 2004, p. 25
13. Norman Podhoretz, La Quarta Guerra mondiale, Lindau 2004, p. 47
14. David Frum, Il domani dell’Iraq, il Foglio, 20 luglio 2005
15. David Frum, Neorealismo, il Foglio, 6 luglio 2005
16. Il riformismo democratico-millenarista di Frum influenza il metodo, la sintassi e il lessico dei suoi epigoni italiani, come l’incendiario Christian Rocca. Sulle pagine del Foglio, Rocca alterna la nota saggistica arcicolta alla fantapolitica più spinta, arrivando a predire la fine delle Nazioni Unite (Il Palazzaccio di vetro, recita un titolo del Foglio del settembre 2005). Ci sono stati anche casi in cui, lo stesso giorno, Frum e Rocca hanno scritto del medesimo argomento, per esempio quando si è trattato di gettare un po’ di veleno su Cindy Sheehan, pacifista e madre di un militare americano morto in Iraq, cfr. D. Frum, Peace mom / 1 e C. Rocca, Peace mom / 2, il Foglio, 28 settembre 2005
17. David Frum, cit., p. 37
18. David Frum, Consigli al Cavaliere, il Foglio 2 novembre 2005
19. David Frum, cit., p. 45
20. E. Said, cit., p. 291
21. Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, BUR 2003, p.149
22. David Frum, cit., p. 52
23. M. Hardt e A. Negri, cit., Impero, BUR 2003, p. 147

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9 Commenti

  1. Credo che la “libertà” di “stampa” sia un valore da rivedere, quando produce cose come Micalessin, Frum e Rocca…

    Piccolo riorientamento dell’adagio wittgensteiniano.

    A quelli che parlano male andrebbe accordato solo il diritto di tacere.

  2. RIFINANZIAMENTO MISSIONE AFGHANISTAN
    Ora, Frum sarà pure un furbo, un idealista, un sognatore atlantico. Uno che si sente giusto perché è di destra, che prega (e frega), con la Bibbia in una mano, il codice del diritto internazionale sotto i piedi e la pistola nella fondina. A fare le pulci al mio pezzo, verrebbe da dire che la macchietta, la caricatura che ne esce, è del solito tipo: l’americano ignorante e arrogante, che pensa di esportare le sue idee belluine e di fare un mondo a immagine e somiglianza della casa bianca.
    Mettiamo pure che vada bene così. Ma delle idee, ‘giuste’ e sbagliate che siano, quest’uomo ce le ha. Sarà pure un invasato, ma vi assicuro che ha studiato. E ha una posizione, ripeto, un suo modo di vedere la realtà.

    Ma qual è il modo di vedere le cose del governo Prodi? Qual è la politica estera italiana? Oggi gli inciucioni prodinotteschi hanno messo a segno un altro colpo. Con la complicità della sinistra radicale, viene fatta passare l’idea che stiamo rispettando la montagna di stronzate scritte nel programma di governo dell’Unione: portare via i nostri ragazzi dall’Iraq e restare in Afghanistan, ma mi raccomando, senza un uomo di più, se no poi Oliviero Diliberto corre a Matrix a denunciare la sporca guerra dell’italia postfascista.

    Qual è la grande stronzata? In Afghanistan, come sanno bene quei filoni del Manifesto, di Indymedia, di Peacelink, e della caterva di siti antagonisti che si cibano di “pacifismo”, c’è la guerra, la guerra come in Iraq.

    Con una piccola differenza: contro i Talebani abbiamo schierato i nostri alpini in missione Kombat (praticamente quello che fanno gli americani, la stessa cosa, la guerra continua e permanente). Dall’Iraq, invece, ritiriamo via tutti indiscriminatamente, anche i carabinieri, che combattono, attaccano (?), muoiono e si difendono, certo, ma vi assicuro che hanno compiti e regole d’ingaggio molto diverse dalla nostra missione per difendere il sindaco di Kabul (Lucio Caracciolo ha spiegato ironicamente che restiamo in un paese che, dal punto di vista strategico, all’Italia non serve a nulla. Per fare il populista, mi verrebbe da dire: ma a ‘sto punto non era meglio restare a fare l’ombrello all’ENI in Iraq?).

    Ma ne vorrei riparlare, delle MSU. Di chi viene riportato a casa e di chi resta al fronte. Soprattutto per capire meglio le idee di Alessandro Bianchi, comunisti italiani, attuale ministro dei trasporti. Ufficialmente, oggi si è assentato dalla votazione sul rifinanziamento per “problemi di salute”. Capito? Come a scuola! Che cuor di leone, il ministro! Magari votava no e cadeva ‘sto governo fantoccio.

    Poi dice che non ha ragione D’Alema quando annuncia che le votazioni per i rifinanziamenti delle missioni all’estero, d’ora in poi, verranno inserite nella finanziaria, e non avranno più una scadenza semestrale. Forse riusciremo almeno a risparmiarci questo balletto, le giustificazioni, la demagogia rossa e antagonista che si ritira dall’Iraq e pensa di aver risolto il problema della IV guerra mondiale (“senza un soldato in più a Kabul”).

  3. “L’unica differenza tra centrodestra e centrosinistra sta nella presentazione della guerra: il centrosinistra costruisce una cortina fumogena e maschera il volto della guerra, definendola umanitaria, al posto della concezione, più schiettamente autoritaria, del centrodestra”. (…)
    “Trovo vergognoso che parlamentari che hanno sempre votato contro la guerra e hanno sfilato con il movimento pacifista per il ritiro delle truppe in guerra in Iraq adesso votino compatti per il rifinanziamento della guerra in Afghanistan. La strada di questo governo va contro la direzione del movimento. Questo è un governo embedded”.
    Luca Casarini, “Un Kosovo bis”, il Manifesto, 1 luglio 2006. Di solito non sono d’accordo nemmeno sulle virgole con Casarini, ma queste parole meritano di essere riportate.

    Come pure quelle del generale Danilo Errico, “il mancato invio di rinforzi a Herat potrebbe esporre i soldati italiani al pericolo attentati”.

    Visto che: “Continueremo a combattervi in Iraq e in Afghanistan come in Somalia e in Sudan, finché non avremo prosciugato tutti i vostri soldi e tornerete nel vostro paese sconfitti, come vi avevamo già sconfitto in Somalia”. Osama Bin Laden, 4 messaggio 2006, confermato e verificato dalla CIA.

  4. “Quando c’era il centrodestra al governo, il movimento pacifista italiano non ha avuto dubbi sull’Afghanista. Se ci fossero stati, capirei le incertezze di oggi. Invece ora, di fronte alla minaccia di far cadere il governo Prodi, accetta la logica del meno peggio. Ciò vuol dire che il problema non è il merito della questione ma il governo. La verità è che sull’Afghanistan non si è ottenuto nulla e il movimento non ha retto alla prima prova di autonomia rispetto al governo. Di questo bisogna discutere, e mi piacerebbe prima del voto. E’ inutile usare slogan reciproci. Bisogna riconoscere che siamo di fronte a una crisi vera”.
    Giorgio Cremaschi, sindacalista FIOM. In Angelo Mastrandrea, “Una sconfitta per la sinistra e i pacifisti”, il manifesto, 2 luglio 2006.

  5. LE RICETTE (SCADUTE) DEL PACIFISMO ITALIANO
    Sabato 1 luglio. La copertina di “Alias” è dedicata alla “Pace in 100 ricette”. Come al solito, nulla da eccepire su: a) la grafica, b) l’illustrazione in copertina (una mamma con in braccio il pargolo che succhia un biberon a forma di missile), c) il sommarietto redazionale (“l’Almanacco arcobaleno, con gli eroi e i miti conosciuti e sconosciuti, le frasi celebri, le canzoni e i film di protesta, il profumo e i sapori più ribelli”). Me le idee? L’impressione è che i pensatori di Alias non si siano gettati anima e core sull’argomento. Cooome? una battaglia (ops…) decisiva del manifesto, e cosa ti pubblicano i compagni?

    Un estratto della introduzione di Matteo Guarnaccia, psicoartista, autore di “l’Almanacco della Pace” (Stampa Alternativa 2006).
    Lo sappiamo che Alias ha scelto – consapevolmente – la rivoluzione dei fiori, i battiti beat, la chitarra della Baez. L’ultramondo al posto di questo. Sappiamo che si è lasciato alle spalle le tesi marxiste, trotskiste, leniniste, sull’imbelle pacifismo medio-borghese e la violenza palingenetica dello stato rivoluzionario.

    Se visitate il sito di Guarnaccia rivivrete la stessa estasi woodstokiana, l’epoca degli “indiani della metropolitana”, come li chiama mia madre, che è un po’ a corto di lessico aristofreak. Mi chiedo se questo genere di revival sia davvero la strada che gli intellos di Alias ci propongono per uscire dal verminaio irakeno e dal resto delle fogne militari globali. Guernaccia, da parte sua, non si sottrae a una critica più severa. Abbiamo ammirato il lavoro che nel corso degli anni ha svolto nell’arte e per i fumetti. Ma, dal punto di vista critico-letterario, l’artista appare un po’ a corto di contenuti. Grazie a dio non gli manca una delirante ironia: penso alla (reiterata) metafora della guerra come una rissa da incidente stradale, oppure al discorso sui videogame che trasformano i bambini in “inscimmiati terminator” (dieci e lode per lo stile, sei meno meno per il ‘messaggio’). Insomma, non basta.

    Comunque non si tratta di stroncare l’Almanacco. Il problema vero è il basso profilo scelto da Alias, al di là della curatissima veste editoriale. L’inserto non è solo stitico di idee, ma quelle che ci sono, riciclate ad arte, si espongono a rischiose interpretazioni. Qualche esempio:

    1. Tra le vignette, spicca una foto dei tre dell’Enterprise: il capitano Kirk, il singor Spock, il dottor McCoy. Credo che solo degli sprovveduti possano scambiare l’universalismo “wilsoniano” di Star Trek per un vagheggiamento fanta-democratico. E non mi venite a dire che nelle ultime serie siamo passati al postumano. Il primato resta sempre e solo uno, quello terrestre. Come dire, non basta una foto da vecchio (e amato) telefilm per cancellare il significato che quel prodotto televisivo ripropone da anni: la colonizzazione coatta della galassia.

    2. Nel taglio basso della pagina, tra le “citazioni pacifiste celebri” tratte dall’Almanacco, spicca il nome di John F. Kennedy. Ma come la mettiamo con l'”eroico” servizio militare del presidente più amato della storia americana? con la crisi dei missili di Cuba e la guerra in Vietnam? “Kennedy si oppose strenuamente ad ogni soluzione alternativa alla vittoria nello scenario vietnamita, linea che seguì anche Jonhson fino all’escalation finale”. http://it.wikipedia.org/wiki/John_F._Kennedy

    E Cicerone? Fu davvero uno stinco di santo? Se avete visto “Roma”, il micro-kolossal passato in tv qualche mese fa, dell’oratore catilinario esce un ritratto non proprio “aureolato” (termine usato da Guernaccia). E Zapata Emiliano? Lo chiamavano il Generale. Insomma, non mi sembrano degli esempi proprio calzanti.

    Non ripeterò la solita strofa dello “Spirito di Monaco”, perché la storia non si fa con i “come sarebbe andata se”. Ma la risposta al tema Marines-di-Falluja-rigazificatori-di-Al-Quaida può essere davvero: “Peace and love, stato di grazia” (il titolo del pezzo di Alias)? Non so voi, ma a me non basta.

    Girando e rigirando su internet, in cerca di informazioni che non fossero i soliti fiori nei soliti cannoni, ho trovato un paio di articoli più interessanti.
    Il primo è firmato da Danilo Zolo. Tra i pochi che riescono a chiudere il becco a Giuliano Ferrara. Sapete quando il direttore si rende conto di avere a che fare con un interlocutore pericoloso e allora cerca di blandirlo e assecondarlo? Zolo è così.

    Sentite cosa dice: “un’autorità politica globale dovrebbe impegnarsi non solo a garantire la pace, ma anche la giustizia distributiva, l’equilibrio ecologico, la tutela dei diritti dell’uomo, il contenimento demografico, lo sviluppo economico. E’ evidente che obiettivi di questo tipo possono essere perseguiti soltanto con gli strumenti politico-militari di cui dispongono le grandi potenze. Per garantire un ‘ordine internazionale minimo’ (…) sarebbero invece sufficienti, questa è la mia ipotesi, istituzioni molto più leggere e quindi molto meno sottoposte all’egemonia delle grandi potenze”.

    Zolo lo chiama “pacifismo debole” e immagina una nuova ONU, riformata, ridotta, rinforzata, in grado di esprimere una tensione “morale” piuttosto che l’attuale gigantismo pasticcione, incapace e paramilitaresco. Una specie di Fondazione asimoviana delle Nazioni Unite, quella ‘forza’ invisibile e sconosciuta che poi decide le sorti della galassia.

    L’altro articolo è un pezzo di Adriano Sofri che ricorda la crisi degli Euromissili, Comiso, e le lotte dei pacifisti italiani. Dice Sofri: “rispetto alle migliori speranze profonde che ispirarono il movimento per la pace – il disarmo reciproco, il superamento dei blocchi militari, la liberazione dell’altra metà dell’Europa -, l’installazione di Pershing e Cruise fu efficace, mentre la vasta, lunga e coraggiosa opposizione rischiò di rafforzare l’arroganza militarista sovietica. Gorbacev ha scritto del Breznev degli SS20: ‘Un imperdonabile errore… commesso nell’ingenua convinzione che i movimenti pacifisti avrebbero impedito all’Occidente di prendere concrete contromisure’ ‘ (2).
    Sotto la longa manus di Breznev l’Italia non avrebbe avuto il suo Parco Lambro. Ma questa è un’altra storia (cioè un’ucronia).

    1. Danilo Zolo, “La forza del ‘pacifismo debole’, in “Teoria Politica”, Franco Angeli 1997
    2. Adriano Sofri, “Di uomini e missili”, la Repubblica, 28 settembre 2004

  6. A me i Neoconservatori sembrano tanto l’espressione massima di quella “debolezza” occidentale che loro dicono di andare combattendo.
    Un buon corollario a quest’articolo mi sembra la lettura di questi due (uno dedicato al neoconservatorismo e uno al “guru” Marvin Olasky) trovati su La Differenza:
    I neoconservatori
    http://www.ladifferenza.it/article.php3?id_article=318
    Marvin Olasky e la destra religiosa
    http://www.ladifferenza.it/article.php3?id_article=317

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