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VIET NOW – I nipoti inquinati #1

di Gianluigi Ricuperati

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Sono le dieci di un mattino, e ho appena chiesto a un autentico Viet Cong se ha mai visto Apocalypse Now. Gli ho appena chiesto di concentrarsi sul rancore. Ho appena cercato di fargli cambiare discorso – ma a lui interessa solo raccontare minuto per minuto un certo attacco, una certa notte in cui deve aver ammazzato qualche decina di soldati americani. Lui ha più di settant’anni. Imparo che Viet Cong è una parola americana. Fuma sigarette chiamate Hero. L’acqua che mi offre è batterica.

Lui è gentile. “Io e i miei eravamo davanti a tutti. Poco meno di mezzanotte. Dall’altra parte non se lo aspettavano proprio. Quando abbiamo iniziato a sparare uno dei miei era già tornato indietro a chiamare gli altri, un paio di chilometri prima. Poi ho fatto saltare uno dei loro mezzi corazzati. Aspettate. Vi cerco la medaglia.” Tutt’intorno, il cicalio di un bosco a trentatrè gradi all’ombra, alla fine di maggio – a trentun anni dal ritiro delle truppe statunitensi – a sessanta chilometri da Saigon, nella Repubblica del Vietnam, dove sono venuto insieme ad Amedeo Martegani, un artista milanese, e sotto l’egida di un visionario mecenate che colleziona idee, per cercare oggetti nascosti dalla storia. Fotografie originali, poster di propaganda, volantini, riviste militari, mappe. Unica regola: che non parlassero americano, visto che eravamo lì proprio per esplorare l’altra parte – una delle poche ad aver vinto una guerra senza riscriverla mai. Reperti che potrebbero scatenare il solito trucco feticista: testimoniare l’essere successo davvero in virtù di una grana percettiva ipnotizzante – forse il vero motivo per cui le aste si chiamano incanti. Abbiamo fatto diecimila chilometri per venire a rivangare scampoli tangibili della guerra più importante del secolo scorso, un passaggio storico che ha ossessionato tutti, giù da noi, in Occidente – e che su da loro, qua, il muso psichico collettivo ha smesso di annusare, quasi come se non fosse mai successo davvero.
Ora. Non sarebbe onesto sostenere che la guerra è stata completamente rimossa, che non sono state conservate tracce, che tutto è oblio. Ci sono i musei e i mausolei. Solo che lo sviluppo degli ultimi dieci anni e la promessa di un futuro differente sembrano aver cancellato i sottotitoli ideologici, resistere resistere resistere, con terzine ugualmente infinite: vendere, vendere, vendere. E la memoria della guerra, che è una sostanza fluida e insieme concreta, attaccata agli oggetti e pure volatile, ma anche dotatissima nei salti di generazione, nell’infilarsi dovunque, nel rimanere appesa a mezz’aria e intrudersi nel linguaggio, nelle figurazioni morali, ecco – quella cosa, in Vietnam, sembra essersi rattrappita nella solennità inevitabile del turismo globale.
 

Ma di tutto questo, ai giovani vietnamiti, non potrebbe importare di meno. La parola che usano per definire il proprio stato corrente è ‘paradiso’, anche perché all’indomani della liberazione non c’erano infrastrutture, energia, strade. Un pomeriggio decido di obbligare la guida a portarmi in un bar per fare una pioggia di domande. La prima dice che non ha tanto senso parlare di queste cose in famiglia. La seconda è una cameriera che prima di fornire qualsiasi dichiarazione deve avere il permesso del suo capo, e quando torna il permesso del suo capo non ce l’ha. Andiamo al centro degli studenti internazionali, dove un ventenne con una peluria scheletrica sostiene che a casa di storie di guerra non se ne raccontano mai, a volte l’eccezione sono le feste comandate dallo stato. Tutti gli altri promulgano un coro di “bisogna pensare al futuro”, “quel che conta è come stiamo oggi”, o “come staremo domani”. Ma la risposta più franca, prepotente, la dà proprio lei, la guida, An, quando le chiedo se avrebbe preferito che avessero vinto gli americani, e mi fa “sì”, e io le faccio “perché?’ e dopo una pausa: “perché adesso saremmo come la Corea del Sud”.
 

Durante i giorni vietnamiti non ho mai smesso di ascoltare una canzone commovente, Ghost di un gruppo americano chiamato Neutral Milk Hotel – in cui la voce sforzata del cantante evoca una sorta di versione personale della figura storica di Anna Frank. L’io narrante della canzone, come in altri episodi provenienti dallo stesso disco, adombra una sorta di relazione fittizia con Anna Frank. E quando vede prendere fuoco il quattordicesimo piano di un palazzo a Manhattan immagina che il corpo mortale della ragazza olandese uccisa dai nazisti in qualche modo ‘viva per sempre’. Passeggio ai bordi delle strade puntellate da insegne Nokia, a un passo dal traffico insostenibile di milioni di motorini con sopra visi femminili coperti con fazzoletti istoriati da banditi del West, e mi chiedo chi sia questa Anna Frank: se appartenga al genere di personaggi storici trasmigrati nella fiction cui ci ha abituati certa narrativa postmoderna, oppure se sia un’omonima, o un terzo soggetto che oscilla tra il disegno fantastico di un autore e la ricezione storica di un pubblico che non può non associare, non può non collegare i punti, non può evitare di cucire l’abito al vascello fantasma. Qualche giorno prima di partire era comparsa sulle pagine di un quotidiano italiano la notizia che era stato ritrovato il diario di una ragazza vietnamita morta durante i bombardamenti. Il titolo dell’articolo era: ecco le parole dell’Anna Frank vietnamita. Poi, laggiù, nel deserto umido che corrisponde alla memoria collettiva vietnamita, la canzone dei Neutral Milk Hotel, ascoltata con passione e ripetizione. Ora mi rendo conto di aver vagato in quel paesaggio di merci ben esposte e memorie ben nascoste, con in testa le mie due Anna Frank – la seconda, poco più che un espediente del titolista del giornale, che però istituisce paragoni assordanti e cancella differenze importanti. La prima, poco meno che un fantasma immaginato da una voce americana, unica deroga alla nostra unica regola, che a suo modo illumina le analogie tra le diverse latitudini del dolore storico – il sibilo perdurante del sacrificio ingiusto. Più di una volta ho avuto la sensazione certa che le due Anna Frank mi tenevano per mano, ed erano precisamente le custodi di quel deserto umido – un posto in cui la memoria diventa acqua, poi aria, poi niente.

Apparso su La Stampa domenica 10 giugno.

La foto è di Amedeo Martegani.

                                                                               (1 – continua)
                                                                            

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6 Commenti

  1. Molto bello. Non lascerei perdere la faccenda del “sarebbe meglio se avessero vinto gli USA perché così saremmo come la Corea del Sud”. Drammatica illusione che si è rivelata in alcuni casi emblematici nei paesi ex satelliti dell’URSS.

  2. sì è una questione fondamentale. Non vedo l’ora di leggere il seguito. Molto bravo, e scritto benissimo poi,

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