La mafia islamica

Una risposta ai lettori di Paolo Granzotto

settima e ultima puntata de “Il giornalismo italiano e l’Islam”
un’inchiesta di Roberto Santoro
[leggi la prima, la seconda, la terza, la quarta, la quinta e la sesta puntata]

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Il “Padrino, parte seconda” è una fantastica lezione
sullo scontro di civiltà.
Maurizio Crippa

La rubrica della posta è il più profondo spazio di corrispondenza tra la redazione e i lettori di un giornale. In questa pagina si captano gli umori del pubblico e i peli sullo stomaco dei giornalisti, grazie a un genere di scrittura molto personale, a un linguaggio schietto e fuori dai denti.
“La parola ai lettori”, la rubrica curata da Paolo Granzotto per il Giornale, rappresenta uno dei principali strumenti di fidelizzazione utilizzati dal quotidiano di Paolo Berlusconi per corteggiare il suo pubblico più fedele, con una sapiente dose di tradizionalismo.
Granzotto ha iniziato a scrivere a 19 anni sulla “Settimana illustrata”, ha lavorato dieci anni al “Messaggero” e gli ultimi venti li ha trascorsi al Giornale, prima come inviato e poi come vicedirettore. Viene dalla scuola di Indro Montanelli, maestro insuperato di quella generazione di giornalisti italiani conservatori, appassionati di storia e belle lettere.[1]
La rubrica di Granzotto è una crestomazia quotidiana, un esercizio di scrittura breve e frammentaria. Lettere che parlano di storia del vino e spicchi di memorialistica anticomunista, illuminazioni sui percorsi meno frequentati della provincia italiana e divagazioni sull’attualità. In questo erculeo sforzo classificatorio c’è sempre posto per i rapporti tra islam e occidente. L’islam è addirittura usato come un nome proprio, un personaggio in carne e ossa: “L’Islam distrusse la biblioteca di Alessandria”, titola Granzotto il 10 settembre 2005. Generalizzazioni come questa vengono presentate con grande erudizione storiografica, date e personaggi storici della storia musulmana sono connessi, complicati e risolti in una fiammata evenemenziale non più lunga di cinquecento parole:

Maometto aveva da tempo messo gli occhi sull’Egitto, ma la morte lo colse (8 giugno 632) prima che vi potesse mettere anche le mani. Volle provarci il suo successore, Abu Bakr, ma non ebbe il tempo (troppe beghe nella Umma) e toccò quindi al califfo Omar Ibn Al-Khattab, subentrato ad Abu Bakr, compiere l’opera e nel 640 il suo generale, Amr ibn al-As, già poneva l’assedio alla fortezza di Babylon, sul Nilo, ultimo baluardo a difesa di Alessandria.

Granzotto ricalca l’amore montanelliano per le grandi narrazioni storiche ma le contrae nello spazio concentrato di una risposta, sfruttando la rapidità espressiva e la velocità tipiche dell’epistolario. Gli eventi vengono addossati uno all’altro, spinti da un’implacabile urgenza stilistica e da una buona dose di ironia, annullando ogni altro elemento che appartenga all’altra storia, quella dei senza volto e dei fuori casta – la storia privata e quotidiana dell’islam, che ovviamente non può conoscere (chi potrebbe farlo?).
Le lettere di Granzotto si trasformano in un bignami islamico, da dove tirare fuori brevi note informative, diligentemente accumulate e ordinate. Tanti frammenti scelti dall’autore, come se l’islam fosse un argomento troppo vasto e complesso da raccontare tutto in una volta.
Una storia che potrebbe rivelarsi anche noiosa, e quindi lasciate che vi spieghi io come stanno le cose, e soprattutto che sia io a tradurre dall’arabo le parole adatte. Il compendio dipende tutto dalla scelta aprioristica dell’autore. A prevalere sulla materia analizzata è la bravura, la competenza e il mestiere del giornalista, la sua capacità di fornire risposte chiare ai lettori che chiedono spiegazioni.
In questo riassunto a puntate dell’islam, gli spigoli, le striature e i margini del mondo arabo e musulmano vengono considerati superflui rispetto all’enumerazione implacabile dei fatti. E i fatti sono che San Francesco proprio non riuscì a dialogare con gli arabi, e che pure quei modelli di libertà come gli illuministi erano convinti di avere una missione: far progredire i “buoni selvaggi”, come scrisse l’abate Raynal, amico di Rousseau, nel suo trattato di filosofia politica.[2]
I fatti sono che il 7 ottobre si festeggia Santa Maria delle Vittorie sull’Islam, festività cattolicissima, celebrata da Papa Wojtyla e dedicata all’eroe cristiano Janos Hunyadi, che nel 1456 annientò l’armata turca nei pressi di Belgrado. Perché secondo Granzotto la Bibbia, ripulita dalle incrostazioni progressiste del Concilio Vaticano II, è un libro di guerra, con un Dio degli eserciti (Deus sabaoth) e una milizia celeste (militia coelestis exercitus).[3] Granzotto decide quale sarà l’argomento del giorno e lo astrae in splendida solitudine dal suo contesto storico, separandolo dalla molteplicità brulicante di eventi in cui l’aveva trovato. È una forma di persuasione didascalica dei lettori basata sulla sintesi e sulla esattezza quantitativa dei dati.
Un metodo di decifrazione della realtà rigidamente soggettivo ma presentato come oggettivo al lettore. L’islam resta sempre fuori dalla percezione di Granzotto e dentro la sua immaginazione.[4]

Terroni e terroristi
Il 28 settembre 2005, il signor Gianni Ferrero scrive al Giornale: “Prima c’è stato l’emirato di Cordoba definito il posto più civile della terra da ‘Repubblica’, ora la Sicilia musulmana del ‘Corriere della Sera’, della quale si rimpiangono ‘benefici e virtù’. Cosa succede? Hanno già vinto loro?”.
La risposta di Granzotto è fulminante: la Sicilia musulmana inventò ‘u pizzu. Dopo aver smontato le tesi di Michele Amari sulla “Storia dei musulmani in Sicilia”, l’autore passa a ricordare i frutti della dominazione araba: arance, limoni e gelso, cupole e bagni pubblici. Ma al di là della poesia e della canalizzazione delle acque, il lascito degli arabi è stato letale. Veniamo a sapere che la mafia avrebbe origini islamiche: “pare che venga (la parola ‘mafia’) appunto dall’arabo mahefil (adunanza) o, ancora, muhafak (protezione dei deboli)”. Come appare evidente dalla risposta di Granzotto, la filologia serve a descrivere mentalità e modi di essere. Lingua e razza sono collegate.
I terroni mafiosi sono i discendenti degli arabi, padrini i figli, imam i padri, tutti assassini perché sta scritto nel loro codice genetico. Usano le stesse autobomba, no?
La mafia, il disordine civile e la mancanza di progresso del mondo islamico fanno tutt’uno in questa dissertazione linguistica sulla devianza.

Il regime islamico fu tollerante coi cristiani. Tolleranza islamica, ben inteso: una volta conquistata la Sicilia, gli arabi ridussero gli abitanti a dimmit, vassalli che vivevano soggetti e che se non si convertivano erano tenuti a pagare una ‘tassa di protezione’, la jazya. Jazya che stando a Michele Amari i siciliani presero poi a chiamare, veda un po’ lei, caro Ferrero, pizzu. E dove vige il pizzu non è che fiorisca una civiltà da rimpiangere troppo, almeno io credo.[5]

L’ipotesi dell’onorata società musulmana aveva già colpito altri colleghi del Trust orientalista. Il 21 settembre, Giuliano Ferrara titola la sua rubrica della posta sul “Foglio”: “Tra i benefici della civilizzazione araba di Sicilia non va dimenticata la mafia”. Nella rubrica dell’Elefantino si può leggere:

Il lascito degli arabi in Sicilia è notevole in ogni campo, e da Michele Amari a Sergio Romano occorre sempre che qualcuno ricordi gli splendori di quella civilizzazione, benefici e virtù. Tra i quali va compresa la persistente forma clanica e familistica che si chiama mafia.

Ferrara non va oltre il cinismo sardonico che lo contraddistingue, ma Granzotto vuole dare una prova di razionalismo in più, dimostrare concretamente che le parole sono oggetti reali.vi Nel significato di un vocabolo è inscritto il comportamento, la morale, l’origine biologica dei popoli. La parole producono una visione del mondo piuttosto che un’altra: il punto di vista primitivo della razza islamo-terrona o quello superiore dei nordisti atlantici. Solo un dialetto inquinato dall’arabo poteva inventarsi ‘u pizzu. Il dialetto diviene una sorta di anomalia della lingua italiana – il toscano purissimo dell’autore – imbastardita dai barbarismi lessicali presenti nella dominazione araba della Sicilia. Nella lingua islamica c’è il germe malato di don Vito Corleone, come scrive Maurizio Crippa, un habitué della rubrica della posta di Ferrara, in un bell’articolo apparso il 24 settembre:

Mafia, Ma afir, mahias. Se come spiegano i libri la parola mafia è uno dei tanti lasciti arabi alla Sicilia, il paradosso multiculturale sarebbe eccellente. Perché dall’islam poi la mafia è traslocata in terra cristiana, con i suoi riti sacri e blasfemi tanto cari ai padrini. Saremmo allora davanti al primo caso, ante litteram e ante secula, di fallimento della inculturazione cristiana: il cristianesimo che non è riuscito a cancellare dalla sua terra e dalla sua lingua il mafioso substrato arabo, la madrassa di Via Quaranta come la madrassa di Santa Rosalia, la mafia come il primo fardello dell’uomo bianco. Bisognerebbe spostare qualche parallelo più su, e qualche secolo indietro, la linea di confine dell’occidentalismo. Qualcuno dirà che è colpa della terza serata, ma il “Padrino, parte seconda” è una fantastica lezione sullo scontro di civiltà.[7]

Questa recensione del “Padrino” in chiave islamista cattura per l’originalità dello spunto: mischiare Hollywood, le madrasse e Santa Rosalia.
Ma far credere che fattori storico-linguistici presi a caso, e che si succedono in modo non lineare e discontinuo, possano produrre enunciati scientificamente veritieri è un’altra cosa.
La parentela stretta tra i poeti arabi siciliani e un tipaccio come Sonny Corleone non deriva da un’esigenza descrittiva della prosa di Crippa, ma da un giudizio di tipo valutativo: non sono mafioso, non sono terrone né terrorista, sono Maurizio Crippa, la metamorfosi dell’occidentale steso sul divano a guardare un film.
Le certezze dell’orientalismo corrono da un giornalista all’altro, si fanno stile, artificio retorico e narrativo, acquistano forza e legittimazione ad ogni passaggio. Per Filippo Facci, editorialista del Giornale, la Calabria è la nostra Algeria e se vogliamo esportare la democrazia dobbiamo prima sconfiggere la ‘ndrangheta. Il Trust è un sistema di citazioni che aumenta l’unità ideologica complessiva del gruppo.[8]
Sia Ferrara che Granzotto scelgono la prestigiosa vetrina della posta per fare opera di pedagogia sui lettori. Bernardo Provenzano come al Zarqawi, sono gli autori a dirlo, a confermarlo a distanza di giorni, a dimostrarlo con tutto il peso della loro autorità. Non ci sono prove tangibili, a meno che non si voglia credere davvero che il “pizzo” abbia qualcosa a che vedere con la jizya, la tassa che i miscredenti siciliani dovevano pagare ai loro padroni arabi nel medioevo. Per Granzotto è senza dubbio così: Bouriqui Boutcha, l’imam-macellaio di Torino, espulso dall’Italia perché considerato una cinghia di trasmissione con Bin Laden, è stato prelevato da casa nel cuore della notte. L’hanno sbattuto fuori dal nostro paese appena in tempo, prima che Torino si trasformasse nella nuova medina corleonese.[9]

NOTE
1. Paolo Granzotto ha pubblicato, tra gli altri, Sommario della storia d’Italia, Rizzoli 1986, e Perché parliamo italiano, Le Lettere 1998
2. P. Granzotto, Islam, storia di un dialogo mancato, il Giornale, 21 settembre 2005
3. P. Granzotto, Anche la Chiesa festeggia le vittorie sull’Islam, il Giornale, 17 novembre 2005; L’Islam e le campane che suonano a mezzogiorno, il Giornale, 23 novembre 2005
4. “Col tempo i lettori dimenticano l’intervento dell’orientalista e percepiscono la ricostruzione come se si trattasse dell’Oriente tout court”, Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli 2001, p.133
5. P. Granzotto, La Sicilia Musulmana che inventò ‘u pizzu, il Giornale, 28 settembre 2005
6. Scrive Said, a proposito del trattato sul semitico di Ernest Renan: “doveva costituire un decisivo passo avanti, e una solida base su cui fondare le successive prese di pozione sulla religione, la razza e il nazionalismo”, cit., p. 143
7. Maurizio Crippa, Il kamikaze della Revolucion, il Padrino e le madrasse di Santa Rosalia, il Foglio, 24 settembre 2005
8. Oltre alla mafia, gli arabi sarebbero anche dietro la strage di Ustica (27 giugno 1980). Almeno a sentire Gian Marco Chiocci e Claudia Passa, Ustica e Bologna, prima delle stragi gli arabi lanciarono un ultimatum, il Giornale, 21 settembre 2005
9. P. Granzotto, L’imam di Torino e la tassa sui miscredenti, il Giornale, 11 settembre 2005

leggi la puntata precedente
fine

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11 Commenti

  1. una nota di ‘sincroniche coincidenze’ (di ‘collusioni’…) da girare ai valenti giornalisti: ” Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia. In arabo, dice Michele Amari, vuol dire ‘velo del capo’ ” (L. Sciascia). Da riordinare alcuni dati sul suo pensiero in merito alla dominazione araba nell’isola e ai suoi ‘frutti’ (non marci).

    lo scavo e la ricognizione sull’invisibilità delle ‘esperienze altre’ (o sulla loro visibilità distorta); la ‘archeologia’ dei saperi: le parole, forse, dovrebbero strapparcele dalla bocca, gli ‘altri’, perchè possano davvero parlare (vedi spivak, ecc.). andare per strada, vedere i volti (il ‘dovere’ di uno sguardo di rimando). nel frattempo, un’ “archeologia del silenzio”.
    ben fatto robè, buon lavoro (in corso).

  2. Un pezzo importante. Però far discendere l’origine della mafia da un esercizio filologico mi sembra un po’ astratto. Del resto , seguendo questa interpretazione, il pizzo l’avrebbe imposto non un contropotere qual è oggi la mafia ma ‘il’ potere di allora. Cioè: se vuoi esere uguale agli altri o accedere ai normali diritti o mantenere la tua fede devi pagare. Più vicino ai ricatti antiebraici che alla natura eversiva ‘dal basso’ della mafia.

  3. Il problema di queste narrazioni dell’islam è che ad esse vengono opposte contro-narrazioni molto difettose, preoccupate più del politically correct che di una visione equilibrata del problema Islam.
    Perché spero non si neghi l’esistenza, oggi, nel mondo di un problema molto grosso legato alle società islamiche.
    A chi dipinge l’Islam come sentina storica di nequizie non si può rispondere che invece no erano buoni, buonissimi, che hanno inventato i numeri e i giardini e che erano tolleranti eccetera, perché si contro-narra sullo stesso piano di chi afferma (berlusconianamente) la superiorità della civiltà cristiana, cioè con lo stesso livello di approfondimento del problema nei suoi aspetti storici e soprattutto attuali.
    Non è tanto importante formulare un contro-giudizio sull’Islam, quanto formulare un ben argomentato giudizio sul nostro rapporto di occidentali con l’Islam e la sua crisi, che è profondissima, devastante, epocale.
    Ed è proprio questo tipo di analisi che sembra generalmente mancare.
    Pigliarsela con Granzotto, Facci, Ferrara, eccetera (e con Marcello Pera, certo) ribattendo le loro palle con la medesima angolazione significa fare il loro gioco.
    Vediamo invece, su alcune questioni attuali e cruciali, come quella dei rapporti con l’Iran, che tipo di politica sta intraprendendo concretamente il governo di centro-sinistra e vediamo se è davvero diversa da quella caldeggiata dai rozzacchioni teo-con: cazzo ci frega di Granzotto, dopo tutto?

  4. @tash
    In effetti è stata la risposta di molte case editrici a cui avevo presentato il libro: che ci importa di Granzotto?
    Me ne importa nel senso che ha dato Gina a questa ricerca, puoi leggerla a commento del pezzo di Giudici.
    Ne parleremo di Iran, ok.
    A presto.

  5. @tash
    il problema non è opporre narrazioni a contro-narrazioni ma stabilire delle differenze. (ancora gina)

  6. @tash
    Da “Libero”: “Ogni giorno in Iran si suicidano 13 persone. La loro età media è di 29 anni e per ognuno che porta a termine il suo proposito, altri (da 8 a 25 al giorno) provano a compierlo. Il ministero della sanità iraniano riferisce che gli uomini che si uccidono sono il triplo delle donne, mentre le donne che tentano di uccidersi sono tre volte più numerose degli uomini. Il fenomeno riguarda soprattutto le zone povere del paese (…).
    Il gruppo più numeroso è costituito da giovani. Secondo un rapporto dell’Organizzazione mondiale della gioventù la metà dei giovani iraniani con meno di 29 anni è “disturbata”, mentre il 40% soffre di problemi psichici. Secondo il governatore di Ilam su 580mila abitanti della sua provincia, ogni anno, ci sono circa 400 suicidi, 220 dei quali compiuti da donne, molti dei quali per non sposare gli uomini imposti dalle famiglie”.

  7. Il Padrino, parte quarta: l’indulto adulterato dell’adulterio
    Don Calogero in America lavora come fattorino da Don Genco Dell’Ustri, è sposato…ma è molto pensieroso e taciturno..vorrebbe avere una vita migliore….tutto procede normalmente fin quando non incontra Don Clemenza Mastedra, che lo inizia alla malavita rubando vestiti e rivendendoli.
    Il loro commercio viene minacciato da don Gaetano Sbondi, boss che gestisce il racket di tutti i negozi del quartiere.
    Don Calogero allora lo uccide, diventando così il protettore del quartiere e ricevendo tutto il rispetto e la stima.
    Comincia allora il commercio di olio d’oliva e facendo favori a tutti quelli che glieli chiedono.
    Don Calogero torna in Sicilia e uccide Don Totò Vasca Vasca per vendicarsi dell’uccisione della sua famiglia.

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