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Il “Combattimento in trentasei turni fra poesie in cinese e in giapponese” di Fujiwara no Yoshitsune

pic02.jpgdi Andrea Raos

Tra la fine del XII° ed i primi decenni del XIII° secolo, si assisté in Giappone a numerosi tentativi di rinnovamento e di ampliamento del lessico utilizzato nella “poesia in giapponese” (waka 和歌).
Il lessico tradizionale della poesia era stato canonizzato negli anni tra il 905 e il 913 dalla prima “Antologia imperiale” (chokusenshû 勅撰集), il Kokinwakashû 古今和歌集 (“Raccolta di poesie in giapponese antiche e moderne”). Uno degli obiettivi di questa raccolta era affermare la pari dignità della poesia giapponese rispetto a quella cinese. Il miglior modo per ottenere questo risultato era – sul modello cinese – concedere l’avallo imperiale alle forme ed alla lingua della poesia giapponese – cosa che il Kokinshû, e tutte le successive Antologie imperiali, appunto fecero.
Tuttavia, dopo più di un secolo di impiego intensivo delle immagini e del lessico inclusi nel Kokinshû (1), i più avvertiti fra i praticanti della “Via della Poesia” presero gradualmente coscienza del fatto che i detti lessico ed immagini avevano ormai perso freschezza, la pratica della poesia rischiando così di ridursi a passiva, sterile imitazione di schemi ereditati.
La questione che si pose allora fu come rinnovare la poesia in giapponese senza per questo né snaturarla né rinnegarne il glorioso passato. Le risposte furono molteplici, secondo le scuole e la personalità dei singoli poeti. Ci soffermeremo brevemente su quella di Fujiwara no Shunzei 藤原俊成 (o Toshinari, 1114-1204), in quanto emblematica della scuola Mikohidari 御子左 (alla lettera “del principe imperiale della sinistra”) attorno alla quale gravitava anche il poeta oggetto di questo studio.
Semplificando all’estremo si può dire che, per sviluppare un rinnovamento controllato della lingua e delle immagini poetiche, Shunzei preconizzava un sistema di produzione poetica fondato sulla correlazione fra tre elementi, o pratiche di scrittura:

1. La “composizione su temi prefissati” (daiei 題詠);
2. Le “gare di poesia” (utaawase 歌合);
3. La “ripresa di poesie canoniche” (honkadori 本歌取).

La “composizione su temi prefissati” (spesso mutuati dalla poesia cinese) permetteva di scomporre il campo della scrittura poetica in “temi” (dai 題) sempre più precisi (per esempio sekiji no sôshun 関路早春, “inizio di primavera sul cammino verso la barriera” o saha no shunsô 澤春草, “erbe di primavera nella laguna”, anziché dei generici “primavera” o “inizio di primavera”) e di applicare a ciascuno di essi un lessico specifico.
Le “gare di poesia” permettevano, tramite il confronto fra scuole diverse ed il vaglio di giudizi sempre più dettagliati, di scremare la produzione poetica di cui sopra per conservare unicamente ciò che si riteneva costituisse un’innovazione ragionevole rispetto al modello del Kokinshû (su cosa fosse ‘ragionevole’ e cosa no, peraltro, le divergenze di scuola potevano essere molto profonde).
La “ripresa di poesie canoniche” aveva come obiettivo di rendere possibile il riutilizzo di un’espressione o di un’immagine consacrate dalla tradizione, calandole in un contesto nuovo e arricchendole così di nuove potenzialità; ciò serviva anche ad evitare che la citazione di una poesia ‘classica’ si riducesse a mero calco, se non addirittura che sconfinasse nel plagio. (2)

Le “gare di poesia individuali”.
Una vera e propria febbre di sperimentazione, ruotante attorno ai tre assi qui sopra descritti per sommi capi, animò dunque la poesia giapponese fra la fine del XII° secolo e l’inizio del XIII°. Un aspetto particolare di questa fioritura fu nientemeno che la creazione di un nuovo genere letterario. Più esattamente, si tratta di un sottogenere delle “gare di poesia”, chiamato jikaawase 自歌合 (“gara di poesia individuale”).
In sostanza, un jikaawase è un’auto-antologia in cui un poeta seleziona proprie poesie (o composte in precedenza o scritte per l’occasione) e le mette in competizione fra di loro rispettando alcune convenzioni di base delle “gare di poesia”: una lista prestabilita di temi da trattare, un’organizzazione in “turni” (ban 番) in cui due poesie sono messe a confronto e, nella maggior parte dei casi, un arbitro che motiva per iscritto la propria preferenza per l’una o l’altra delle due poesie.
Per motivi che ignoriamo, questa pratica fu appannaggio esclusivo della scuola Mikohidari o di poeti ad essa vicini: Saigyô 西行 (1118-1190), Jien 慈円 (1155-1225), Fujiwara no Teika 定家 (o Sadaie, 1162-1241), Fujiwara no Ietaka 家隆 (o Karyû, 1158-1237), l’“imperatore in ritiro” Gotoba 後鳥羽院 (1180-1239), lo stesso Fujiwara no Yoshitsune 良経 (o Ryôkei, 1169-1206) che è l’oggetto di questo studio, e pochi altri poeti di minor peso. (3)
La finalità di queste raccolte era duplice: da un lato, riunendo ciò che ciascun autore riteneva essere il meglio della propria produzione e sottoponendolo al giudizio di un poeta più esperto, esse servivano senza dubbio come lavoro preparatorio in vista di un’importante “gara di poesia” pubblica o dell’inclusione in un’Antologia imperiale; d’altro lato, buona parte di queste raccolte veniva offerta dal suo autore ad un tempio o un santuario, come dono votivo. È quindi lecito pensare che ad esse venisse attribuito anche un valore spirituale – la proiezione di un’immagine di sé volta ad ingraziarsi una data divinità – che andava al di là della loro funzione mondana. (4)
La struttura in turni di un utaawase (e quindi anche di un jikaawase) impone di accostare le poesie due a due. Nel caso di una “gara di poesia individuale”, è l’autore stesso che sceglie ciascuna poesia e decide a quale altro componimento avvicinarla; di conseguenza, non desta stupore constatare che ciascun autore di un jikaawase presta una particolare attenzione a creare – tramite l’accostamento di poesie particolarmente ‘consonanti’ – una rete di richiami, risonanze, contrasti fra le parole o le immagini utilizzate. In tal modo, ciascuna poesia si ritrova amplificata dal contesto, dai testi che la precedono e da quelli che la seguono. Ciò fa del jikaawase uno strumento particolarmente potente di messa in rilievo della maniera compositiva di ciascun autore.
In questo quadro, Yoshitsune occupa una posizione particolare – di iniziatore per alcuni aspetti, di continuatore per altri – che merita di essere approfondita.

I due jikaawase di Yoshitsune.
A partire dalla prima giovinezza e sino alla sua precoce scomparsa, Yoshitsune fu un instancabile animatore di eventi letterari e sperimentatore di forme. L’opera che senza dubbio riassume meglio di tutte questo suo duplice profilo artistico è il Roppyakuban utaawase 六百番歌合 (“Gara di poesia in seicento turni”), evento da lui organizzato, che nel 1193 riunì tutti i poeti più importanti dell’epoca – senza distinzioni di scuola – perché si cimentassero con una lista di temi molto innovativa. L’obiettivo era, ancora una volta, rinnovare la scrittura poetica, tramite sia la pratica creativa che il vaglio critico (i giudizi espressi su ogni singolo waka sono in effetti di rara acribia).
Data la fama di sperimentatore di Yoshitsune, non stupisce che si sia cimentato anch’egli nell’esplorazione delle possibilità espressive della ‘forma-jikaawase’. Questa esplorazione si svolse in due tempi; cioè a dire, attraverso la composizione di due opere. Daremo dapprima qualche breve cenno a proposito dell’ultima, che è anche la più (relativamente) nota, per concentrarci in seguito sulla più antica, molto meno studiata.

Nel 1198, Yoshitsune compose un jikaawase tramandatoci con il titolo (postumo) Gokyôgokudono onjikaawase 後京極殿御自歌合 (“Gara poetica individuale del Signore Gokyôgoku” – uno dei titoli onorifici dell’autore).
In cento turni e duecento poesie, provvista di giudizi scritti da Shunzei, quest’opera è probabilmente da iscrivere nel contesto dei lavori preparatori per la compilazione dell’ottava Antologia imperiale, lo Shinkokinwakashû 新古今和歌集 (“Nuova raccolta di poesie in giapponese antiche e moderne”), di cui peraltro Yoshitsune avrebbe redatto, qualche anno più tardi, la “prefazione in giapponese” (kanajo 仮名序).
Abbiamo già avuto occasione di tradurre e commentare questa raccolta poetica. (5) Di conseguenza, ci limiteremo qui a ricordare una sola delle sue caratteristiche, che riguarda direttamente il primo jikaawase: ne riprende trentasei waka, collocandoli in contesti differenti. È un punto sul quale torneremo.

Il primo jikaawase di Yoshitsune ci è pervenuto con il titolo Sanjûrokuban sumôdate shiika 三十六番相撲立詩歌 (“Combattimento in trentasei turni fra poesie in cinese e in giapponese”).
La prima osservazione da fare, in sé più che banale, è che non si tratta di un jikaawase in senso stretto, visto che vi sono messi in competizione non esclusivamente waka, ma waka e “poesie in cinese”, kanshi 漢詩 (il termine esatto sarebbe dunque shiikaawase 詩歌合; in termini di organizzazione tematica e formale, la sostanza non cambia).
La seconda è che Yoshitsune compose quest’opera nel 1193, ossia (oltre che nello stesso anno del Roppyakuban utaawase) quasi a ridosso delle due raccolte unanimemente ritenute le progenitrici del genere jikaawase: cioè a dire il Mimosusogawa utaawase 御裳濯河歌合 (“Gara di poesia presso il fiume Mimosuso”) ed il Miyagawa (o Miyakawa) utaawase 宮河歌合 (“Gara di poesia presso il fiume Miya”), composti da Saigyô l’uno nel 1187, l’altro tra il 1187 ed il 1189. (6)
Ora, anche le due raccolte di Saigyô sono in trentasei turni; questa caratteristica non è particolarmente rara in sé – si pensi ad un antecedente importante come l’antologia Sanjûrokuninsen 三十六人撰 (“Selezione di trentasei [poeti]”), compilata da un anonimo tra il 1009 ed il 1012 –, (7) ma non la si ravvisa in nessun altro jikaawase a parte questo di Yoshitsune. È quindi lecito pensare che Yoshitsune abbia ripreso direttamente il modello di Saigyô, fondendolo a quello di poco più antico dello shiikaawase, per creare a sua volta una forma originale. (8)
Come già nel caso del Wakanrôeishû testé citato (vd. nota 8), anche per Yoshitsune si può dire che l’obiettivo di un’operazione di questo tipo è arricchire l’aura (le potenzialità espressive) di un waka fornendolo di un sottotesto in cinese che lo completa, lo arricchisce, fornisce un campionario di temi e di immagini che la poesia in giapponese potrà riprendere, sviluppare, precisare.
A ulteriore riprova di questo, il fatto che, come poc’anzi accennato, Yoshitsune abbia ripreso nel suo jikaawase del 1198 tutti e trentasei i waka della raccolta del 1193, permette di pensare che considerasse quest’ultima un esperimento riuscito; di conseguenza, una delle attività fondamentali del suo percorso poetico, ossia l’arricchire il waka di nuove possibilità e risonanze conducendolo alla fonte inesauribile della poesia cinese, trova qui una testimonianza probante.
Alcuni esempi tratti da questa raccolta potranno dare un’idea del fare poetico di Yoshitsune.

La scrittura plurale del Sanjûrokuban sumôdate shiika.
Analizzeremo brevemente tre turni di questa gara di poesia.

Nono turno. (9)
17.
早秋
野亭見草露先白
山館聞松風始西

“Inizio d’autunno”
Dal sentiero nei campi si vedono le erbe, bianche alle estremità per via della rugiada –
Nel padiglione tra i monti si ode il vento attraverso i pini, che giunge dall’ovest.

18.
秋夕
物おもはでかかる露やは袖におく
ながめてけりなあきの夕ぐれ

monoomohade kakarutsuyuyaha sodenioku
nagametekerina akinoyuhugure

“Crepuscolo d’autunno”
Avevo forse il cuore sgombro
Quando tutta questa rugiada
Si è posata sulle mie maniche?
No, perché da me contemplato davvero
Questo crepuscolo d’autunno.

A fronte di un kanshi costruito sulle coppie oppositive “campi” – “montagna”, “erbe” – “pini”, “rugiada” – “vento”, nel waka Yoshitsune opera innanzitutto una sorta di condensazione: l’unica immagine in comune fra i due componimenti è quella della rugiada.
Ma ciò che più colpisce è la deliberata ricerca, nel passaggio dal cinese al giapponese, di due retoriche poetiche del tutto differenti. All’andamento piano della poesia in cinese il poeta oppone infatti l’interrogativa negativa retorica yaha (la cui costruzione tipica è: “Si tratta forse di A? No, è B”), che spezza il dettato e carica il kami no ku 上句 (“versi superiori”, ossia le prime 5 – 7 – 5 sillabe) di una tensione sintattica che verrà risolta dallo shimo no ku 下句 (“versi inferiori”, le successive 7 – 7 sillabe); pure, questo stesso shimo no ku si conclude non su un verbo principale (come richiesto, in linea di principio, dalla sintassi giapponese standard), ma su un sostantivo, secondo una tecnica assimilabile a quella del fermo-immagine. È un procedimento, detto taigendome 体言止め (“conclusione con un sostantivo”), che fu molto in voga all’epoca dello Shinkokinwakashû, a tal punto da esserne considerato uno dei tratti stilistici dominanti. Yoshitsune costruisce un efficace contrasto fra i versi superiori ed inferiori del waka, fondato sulla giustapposizione fra due diversi ordini di torsione linguistica. (10)
Confrontando il kanshi ed il waka, si può dunque dire che la poesia in cinese fornisce una materia prima a partire dalla quale Yoshitsune si esercita a sperimentare nuovi strumenti retorici ed espressivi.
Illustreremo con un secondo esempio un altro aspetto di questo procedimento.

Quattordicesimo turno.

27.
九月十三夜月下言志
天地気晴迷昼夜
林叢花白照春秋

“Poesia per la tredicesima notte della nona luna”
Nel cielo e sulla terra l’aria è tersa, si confondono il giorno e la notte –
Nella foresta i fiori sono bianchi, splendono [uguali] primavera ed autunno.

28.

さらぬだにふくるは惜しき秋の夜の
月より西にのこるしら雲

saranudani hukuruhamukashi akinoyono
tsukiyorinishini nokorushirakumo

“Luna”
Anche se non è vero
Non amo che sembri passata
Questa notte d’autunno
Ad ovest della luna
Persistendo nuvole bianche.

Anche in questo caso, il waka presenta una radicale semplificazione del kanshi a cui corrisponde. D’altra parte, il kanshi è costruito sul tema tradizionale (nella letteratura sia cinese che giapponese) della confusione tra la primavera (al momento della fioritura dei ciliegi) e l’autunno (in cui la luna, secondo la tradizione, splende con maggiore chiarezza). Nel waka, invece, Yoshitsune opta per un’altra strada: in esso, la luna brilla a tal punto che, riflettendosi su alcune nubi bianche presenti verso la linea dell’orizzonte, fa credere che la notte sia già trascorsa e che l’alba sia vicina.
Come nel caso dell’interrogazione negativa retorica del waka precedente, anche qui l’immagine è vista in negativo; il soggetto agente all’interno della poesia è cosciente dell’inganno, ma accetta di piegarvisi per contemplare (e mettere in versi) il gioco di specchi fra la luna e le nuvole, la notte ed il giorno. È un altro procedimento tipico della poesia del tempo: la costruzione concessiva saranudani, su cui si apre il waka e che ne sposta il fuoco dalla semplice descrizione di una scena alla riflessione su di essa, entrò in voga in poesia proprio grazie ai poeti della generazione di Yoshitsune. (11)

Quinto turno.

9.
女御入内屏風詩
花色魏年春暮月
水声周旦昔余流

“Poesia in cinese composta per il paravento della principessa ereditaria”
Il colore dei fiori a Wei – ogni anno, a primavera, la luna cala;
Il rumore dell’acqua a Zhou – ad ogni alba, dall’antichità, la corrente scorre.

10.
春曙
みぬよまでおもひのこさぬながめより
むかしにかすむ春のあけぼの

minuyomade omohinokosanu nagameyori
mukashinikasumu harunoakebono

“Alba di primavera”
A partire dal mio sguardo
Che non rimpiange
Epoche da lui non viste
Si imbruma verso il passato
Quest’alba di primavera

In questo turno, l’unità tematica fra il kanshi ed il waka è completa: la poesia in cinese celebra un passato favoloso e la sua continuazione del presente; quella in giapponese compara lo splendore dell’alba presente a quelle dell’antichità.
Ma al tempo stesso, il colore stilistico del giapponese non potrebbe essere più diverso dall’ordinata (e geograficamente collocata) esposizione del cinese. Il nucleo del waka è lo “sguardo” (nagame) del soggetto della poesia, posto nella posizione critica del terzo verso, a fare da cerniera fra il kami no ku e lo shimo no ku. Questo sguardo, come è detto nel kami no ku, non rimpiange gli splendori dell’antichità. Nella retorica classica la cosa sarebbe sorprendente, ma lo shimo no ku si affretta a spiegare: l’alba di stamani è talmente splendida che la sua bruma (uno dei suoi attributi fondamentali) muove verso il (pur glorioso) passato e lo reinveste della bellezza presente.
Secondo un procedimento tipico sia di Yoshitsune che di altri poeti del suo tempo, il soggetto umano (quello che in Occidente si chiamerebbe l’“io lirico”) è ad un tempo posto al centro della poesia e da essa espulso: posto al centro perché è il suo sguardo che ne determina il movimento iniziale; espulso da un lato perché, giustappunto, solo di uno sguardo si tratta, e non dell’integralità di una persona fisica (come era invece il caso all’epoca del Kokinshû), dall’altro perché il soggetto grammaticale del waka è l’“alba di primavera”, ed è quest’ultima che compie l’azione principale.
D’altra parte l’espressione “imbrumarsi verso l’antichità” (mukashi ni kasumu) è di grande originalità – se anche non è stata inventata da Yoshitsune stesso, era comunque di creazione recente quando quest’ultimo la utilizzava. La celebrazione del passato tipica della poesia del suo tempo si risolve, in lui, in un movimento quasi fisico di riappropriazione (l’imbrumarsi che crea un ponte fra il presente e l’antichità), che a sua volta genera, quale estremo omaggio ai maestri antichi, un’espressione poetica innovativa.

Conclusione.
Anche ad una prima lettura, viene relativamente spontaneo affermare che la poesia dello Shinkokinshû è ‘diversa’ da quella del Kokinshû. Ben più difficile, invece, mostrare in concreto in cosa questa diversità consista.
Analizzare il tipo di lavoro che un poeta rappresentativo come Yoshitsune svolgeva sulla scrittura cinese, ed il modo in cui creava relazioni fra questa e la sua scrittura in giapponese, può contribuire a formulare un primo abbozzo di risposta.
Altri assi di analisi restano da affrontare. Per esempio, è quantomeno riduttivo considerare la poesia in cinese un semplice “sottotesto” di quella in giapponese, come per comodità abbiamo fatto in questo articolo. D’altra parte, stimoli molto fecondi verranno senz’altro dagli esempi, presenti in quest’opera ma da noi non ancora studiati, di doppia riscrittura – nelle due lingue ed in poesia – di versetti del Sûtra del Loto.
Trattandosi di un’opera quasi per nulla studiata – nemmeno in Giappone –, una molteplicità di approcci sarà senza dubbio necessaria per restituirne al lettore occidentale, per quanto possibile, la naturale prismaticità.

Note.

(1) Le Antologie imperiali immediatamente successive alla prima, ossia il Gosenwakashû 後撰和歌集 (“Raccolta di poesie selezionate in seguito”, circa 958) e lo Shûiwakashû 拾遺和歌集 (“Raccolta di poesie non selezionate in precedenza”, circa 1005) non apportarono modifiche di rilievo all’estetica del Kokinshû.

(2) Le tesi di Shunzei qui sopra succintamente esposte possono essere lette, fra l’altro, nel suo trattato Korai fûtei shô 古来風体抄 (“Breviario sugli stili poetici dall’antichità a oggi”), del 1197; fra le edizioni esistenti di questo trattato, vd. ad esempio Ariyoshi Tamotsu 有吉保 et al. (a cura di), Karonshû 歌論集 (“Trattati di poetica”), Nihon Koten Bungaku Zenshû, vol. 50, Shôgakkan, 1975. Naturalmente, Shunzei non fu né l’inventore né l’unico teorizzatore di questi principî (o pratiche) della composizione poetica; ma una trattazione esaustiva di questo argomento porterebbe troppo lontano dall’oggetto di questo studio. Per un’analisi più completa, vd. M. Vieillard-Baron, Fujiwara no Teika (1162-1241) et la notion d’excellence en poésie. Théorie et pratique de la composition dans le Japon classique, Paris, Collège de France – Institut des Hautes Etudes Japonaises, 2001, p. 534 e relativa bibliografia.

(3) Per maggiori dettagli vd. A. Raos, Forme et histoire: les “concours individuels de poèmes (jika.awase) à l’époque du Nouveau recueil de poèmes anciens et modernes, Paris, INALCO, 2004, vol. I, p. 39-40.

(4) Questa spiritualizzazione della poesia profana è un tratto tipico dell’epoca, come dimostrato in modo convincente da Asada Tôru, Hyakushu uta. Inori to shôchô 百首歌ー祈りと象徴 (“Centurie poetiche. Preghiera e simbolo”), Kyôto, Rinsen Shoten 臨川書店, 1999, p. 157-178.

(5) Vd. Raos, Forme et histoire, cit., vol. I p. 186-216 (analisi), vol. II p. 197-307 (traduzione), vol. III p. 126-187 (commento.

(6) Anche queste due opere sono state da noi tradotte e studiate. Vd. Raos, Forme et histoire, cit., vol. I p. 57-129 (analisi), vol. II p. 5-79 (traduzioni), vol. III p. 7-73 (commenti).

(7) Vd. Shinpen Kokka Taikan 新編国歌大観, vol. V, Kadokawa Shoten 角川書店, 1988, p. 911-912.

(8) Il più antico esempio pervenutoci di shiikaawase è una breve raccolta, già intitolata Sumôdate shiika, anonima, data 1133 (vd. Shinpen Kokka Taikan, cit., vol. V, p. 177). Si noti che in quest’opera viene prima il waka e dopo il kanshi, mentre Yoshitsune farà il contrario. Non va dimenticato che, sullo sfondo di tutte queste scritture, agisce il grande antecendente del Wakanrôeishû 和漢朗詠集 (“Raccolta di poesie in giapponese e in cinese da recitare”), compilato nel 1013 da Fujiwara no Kintô 公任 (966-1041).

(9) Il testo e la numerazione sono quelli dell’edizione pubblicata in Shinpen Kokka Taikan, cit., vol. X, 1992, p. 217-218.

(10) La letteratura sulla retorica del waka è sterminata. Due riferimenti di base possono essere, per l’epoca che ci riguarda, Kubota Jun 久保田淳, Shinkokin kajin no kenyû 新古今歌人の研究 (“Studî sui poeti dello Shinkokinshû“), Tôkyô Daigaku Shuppankai 東京大学出版会, 1973 (rist. 1992), e S. Terada, Figures poétiques japonaises. La génèse de la poésie en chaîne, Paris, Collège de France – Institut des Hautes Etudes Japonaises, 2004.

(11) Vd. Kubota Jun e Yamaguchi Akiho 山口昭穂 (a cura di), Roppyakuban utaawase, Shin Nihon Koten Bungaku Taikei 新日本古典文学大系, vol. 38, Iwanami Shoten 岩波書店, 1998, p. 379 (nota al waka n. 1085).

*

Ripropongo con lievi modifiche un testo già apparso in Aistugia (a cura di), Atti del XXIX Convegno di Studi sul Giappone (Firenze 22-24 settembre 2005), Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia 2006.

Nell’immagine (ingrandibile), un esempio della calligrafia di Yoshitsune, trovato qui.

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7 Commenti

  1. Mi ha sempre colpito questa convergenza di temi che c’è tra la poesia giapponese – che ammetto di conoscere molto poco – e la figurazione, metti xilografica.
    Come se, per es., una veduta di Edo per mano di Hiroshige potesse considerarsi come una sorta di aiku figurale, capace di evocare emozioni simili a quelle che provocano le parole. Aggiungo che, temi a parte, esistono altre due aree di coincidenza. La prima è una sorta di sguardo casuale et forse passivo col quale il poeta/artista guarda la scena che rappresenta, una specie di volontà di vuoto e annullamento interpretativo, nel farsi funzione trasmittente tra la realtà osservata (scelta?) e il lettore/fruitore dell’opera di trasmissione (parole/segni/colori). L’altra coincidenza è la mancanza quasi totale, sia nei testi che nei disegni, di un accadimento particolare, di un unicum, rispetto al continuum dello scorrere normale et usuale dell’esistenza. Certo in Hokusai questi momenti si trovano con qualche frequenza – il cacciatore che lotta col cinghiale, per esempio – ma penso a quelle immagini quasi casuali di Hiroshige ad Edo, al vento e la pioggia, i lumi della sera mentre la gente cena sulle verande, eccetera. A quei ponti gialli.
    Poesia e disegno come discipline convergenti/equivalenti?
    http://www.hiroshige.org.uk/hiroshige/100_views_edo/100_views_edo.htm

  2. Grazie Tashtego.

    haiku.

    “Poesia e disegno come discipline convergenti/equivalenti?” Per certi aspetti senza dubbio.

    Tuttavia, riguardo alla “mancanza di accadimenti” di cui parli, l’assenza in Giappone di poesia narrativa (nel senso “nostro”) è un dato che certo colpisce, ma fuorviante:

    1. pensa ad esempio al teatro , che è teatro recitato in un misto di versi e prosa ritmica;

    2. nello stesso haiku che citi, in modo derivato dal renga (“poesie in sequenza”) – e, per certi aspetti, anche dal waka di cui parlo nel mio saggio – un testo non è mai da leggersi isolato, ma solo in relazione a una sequenza, appunto. Nella quale si riscontrerà una struttura retorica estremamente sorvegliata, fatta di contrasti, richiami, picchi, “vuoti”… Insomma è un continuum, sì, come tu dici, ma profondamente dinamico, mai pacifico, mai ipnotico o “meditante”… Se mai dovesse uscire in Italia, o se riuscissi a trovarlo in dvd, questi procedimenti ti sarebbero spiegati in modo perfetto da un cartone animato collettivo concepito fra gli altri da Takahata (quello della Tomba delle lucciole), che riprende Fuyu no hi (“Giorno d’inverno”), una sequenza di haiku coordinata da Matsuo Bashô e composta insieme ai suoi amici. Lì – oltre che nel testo stesso ovviamente, che non so se esista in italiano – vedresti bene la tensione verbale, visiva e narrativa che sottende qualunque sequenza poetica e/o visuale giapponese (oltre che altri aspetti più specifici dello haiku secondo Bashô e la sua scuola, quali l’umorismo, il cozzare di alto e basso, l’alternarsi di leggerezza e gravità, il gusto dell’allusione letteraria dissacrante).

    Procedendo a colpi di machete.

    3. Nella stessa cultura visiva giapponese (e cinese), nel caso soprattutto dei rotoli dipinti (emaki), l’apparente mancanza di accadimenti dipende dal fatto che gli eventi in realtà ci sono, ma per via allusiva a opere letterarie appartenenti al patrimonio comune. A volte l’evento è raccontato nel testo calligrafato vicino all’immagine, che del testo in questione non fa che illustrare un breve atttimo.

    4. Nella poesia, come nella pittura, la pratica dell’allusione a testi narrativi è – almeno a partire da un certo punto – uno dei cardini della composizione. Ciò può dare luogo a sequenze poetiche anche molto lunghe, tutte completamente narrative ma, per così dire, in negativo…

    Hiroshige – e l’ukiyoe in genere – li conosco poco, mi fido di te. Grazie per il link.

  3. (Lo so che non c’entra niente col saggio, peraltro ricco di spunti illuminanti, ma vi metto lo stesso alcune brevi composizioni in stile haiku ‘occidentali’.)

    Pre-testo

    Scrivo perché
    per la telepatia
    è ancora presto.

    *

    Cigol’io

    Erodi a fondo
    la ruggine del cuore,
    attrito – amore.

    *

    Estrazioni del botto

    Battaglia d’indici
    – tragico varietà:
    si muore in pollici.

    *

    Internet (war word world)

    Caos-pattumiera,
    Mnemosine-Babele:
    Musa-miniera.

    *

    De-loculizzazione

    Mondo connesso:
    ecco, la solitudine –
    globalizzata.

    *

    Vuoti d’anima (ebrezze)

    Centro città:
    tra chiesa e pornocinema,
    un bar – un baratro.

    *

    Di-verbi (invidie verdi)

    Sempre più grigi,
    il cemento e l’asfalto
    dei tuoi vicini!

    *

    Affanni (agonie)

    Fermi nel traffico,
    tumore progressivo –
    l’aria respira.

    *

    Visioni (reali)

    L’erba ci guarda,
    attonita, dai cigli
    di ultime strade.

    *

    Letteratura (lettera dura)

    Quello che scrivi
    prende senso a seconda
    di quel che vivi.

    *

    Veri (reietti)

    Oggi i poeti
    hanno un solo dovere:
    essere poveri.

  4. (Altri nòccioli…)

    *

    Scoperte

    Tutto sommato,
    da un ombrello bucato
    si vede il cielo.

    *

    Di-scorso’io

    Qui, un altro dire
    tenta un mondo che ancora
    non c’è – ma esiste.

    *

    Nato – nota
    (perdendo i sensi: nascite, nazioni)

    Detonazione
    è l’esatto contrario
    d’intonazione.

    *

    Evo di mezzo

    La Storia, a strati;
    Assisi: arriva un santo,
    e ferma il tempo?

    (Assisi, 24.6.06)

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Andrea Raos
Andrea Raos
andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010), lettere nere (milano, effigie, 2013), le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017) e o!h (pavia, blonk, 2020). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.
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