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VIET NOW – I nipoti inquinati #3 e fine

di Gianluigi Ricuperati 

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E’ soltanto al ritorno, a Kuala Lumpur, nell’aeroporto più bello del mondo, che cade come una tagliola la domanda fatale – ma cosa sono andato a fare, davvero, in Vietnam? Ed è solo qualche ora più tardi, a diecimila chilometri d’altezza, la risposta – mi sono trasformato in una serie di oggetti.  E prima di pensare che abbia detto troppe volte sì ai cognac delle hostess: è tutto vero: è uno dei modi autentici di viaggiare – immaginare di trasformarsi negli oggetti che hanno affollato le tappe del viaggio, i reperti solitari che non vedrai mai più e che per qualche tempo sono stati lì, la versione materiale di una dama di compagnia con il cronometro sempre acceso. Il soprammobile di una stanza perduta. L’animaletto che pende dal soffitto di un’auto casuale. Le posate che ti hanno catturato l’attenzione in un pranzo veloce, menù internazionale. Oggetti civili, malinconia civile. Ma lassù, sulla curvatura del pianeta, all’altezza della Russia centrale, succede che gli oggetti, in questo Vietnam, non sono affatto civili. Sono quasi tutte mine. Affissioni che invitano ad abbattere aerei. Armi di fabbricazione sovietica. Volantini che esortano alla ribellione – ribellione per mezzo di proiettili – proiettili di fabbricazione americana. Trappole per uomini – trappole per animali che nascondono trappole per uomini – divise militari femminili.
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Ore 13 e 30 di un giorno feriale, in quella che i soldati americani giunti fin qua dal Nebraska o dall’Arkansas nella più totale inconsapevolezza definivano semplicemente ‘giungla’. Attacco il naso e gli occhi all’interno di una bomba cluster, esposta come memorabilia per placare la sete dei turisti. E’ una delle centinaia di migliaia di simili esplose in Vietnam. Pare che in questa regione, comprendendo nel calcolo Laos e Cambogia, tra il 1962 e il 1975, l’aviazione americana ne abbia lanciate qualcosa come otto milioni di tonnellate, se qualcuno davvero potesse metterle su una bilancia. Ma poi ha senso mettere le bombe su una bilancia? E come si mettono? Da esplose o da esplodere? E al peso di una bomba va sottratto o aggiunto quello che ha fatto mancare ai corpi e agli oggetti che ha investito nella sua evoluzione termica? La mia retina si perde. Sarebbe importante indagare la materia di cui sono fatte, ma la materia non ha alcuna capacità di trattenere nulla. L’unico modo serio di dire la verità su questa bomba sarebbe restituire con una formula il reticolato chimico che costituisce il suo what. Ma non servirebbe a nulla per il when, il trapezio di tempo in cui è stata fusa, prodotta, caricata, buttata – quel che succedeva tutt’intorno, l’atmosfera, la differenza tra quel momento e tutti gli altri. Dove diavolo finisce la Storia? Dove precipita? Possibile che un tale rovescio di emozioni, idee, corpi, pulsazioni, durate, interruzioni, dolori – possibile che un tale rovescio di convergenze e di conseguenze, un rovescio chiamato attacco, bombardamento, battaglia, assalto, guerra – non lasci nulla di vivo? Qualcosa che parli aldilà del nostro investimento di conoscenze? Qualcosa capace di testimoniare, di assorbire un dato oggettivo e comunicarlo in modo istintivo? Sì è possibile. I tessuti con cui si fabbricano le guerre non sono altro che molecole intercambiabili. Me ne rendo conto qualche giorno dopo, quando vedo una bomba a grappolo identica, un centinaio di chilometri più in là: ma non esposta per i turisti – c’è da rimanere senza parole: perché sono davanti a una casa rudimentale con quattro colonne e un tetto di paglia, ma le colonne sono ex bombe.
 

Ma intorno alla capanna c’è solo un maiale fuligginoso con un basto aggrappato alla schiena. E i suoi padroni, contadini. Nelle vicinanze, trent’anni fa, troppo defoliante, troppe buche da B52. Coltivare – business di minoranza. Raccattare rottami di guerra – core business. Mezzo di spostamento per la raccolta e il trasporto – una dragster da esibizione circense, tipo record di velocità sul deserto di sale dello Utah. Sconsolante – ma vero: dovunque spirano tracce culturali degli Stati Uniti più duri e stivaloni, e d’incanto l’espressione borsistica far east assume tinte di frontiera pesante, e viene in mente quel passaggio di Guerre politiche in cui Goffredo Parise incontra il generale Westmoreland che gli dice ‘siamo qui per portare la democrazia, ‘siamo qui per portare la libertà’, e correva l’anno 1968, mica il 2003. Nello zaino tengo un volumetto acquistato a New York, ma non ho il coraggio di aprirlo per timore che sia velleitario, o propagandistico. Si intola Is Iraq another Vietnam? Ma non c’è tempo: gli ex-contadini scendono dalla ex-macchina agricola e scaricano le ex-armi di distruzione prodotte dalle ex-industrie militari di una ex-America (no, c’è un errore: le industrie militari non sono affatto ‘ex’: sempre lì, immutate nell’onomastica societaria e nella prosperità finanziaria). Meglio far finta di non sapere niente, di non essere venuti al mondo che stamattina: in Vietnam, in Laos, in Cambogia, esistono individui che costruiscono case con i resti dei bombardamenti, e altri individui che di mestiere fanno i rabdomanti delle mine – le trovano, le tagliano, le rendono inoffensive. Qualche volta sbagliano. Anche questo, come la maggior parte dei comportamenti scatenati dalle guerre, accade ovunque e non è prerogativa speciale di nessuno – il fattore bellico produce un codice globale infallibile e capace di pulsare come un piccolo quasar, incurante del tempo e delle generazioni: fa fare a tutti le stesse cose, e ciò nonostante, quasi per miracolo, dietro le analogie, forse, arriveranno le differenze.
 

La Cu-Chi Tour vende a 10 dollari un biglietto per un giro completo con guida ai tunnel di Cu-Chi, e in cambio dei soldi ti manda un piccolo autobus alle otto davanti all’hotel in cui ti trovi. In un’ora e mezza sei nel villaggio di Cu Chi, a sessanta chilometri dal distretto uno di Saigon. L’obiettivo del tour – visitare uno dei più complessi sistemi di tunnel che la storia militare moderna abbia inventato, una formidabile macchina di difesa e attacco messa a punto dai vietnamiti del nord durante la guerra americana: tre piani che scendono sotto terra e per anni hanno nascosto ospitato e dato una trincea invisibile a decine di migliaia di soldati. Quando gli americani arrivavano all’imbocco dei tunnel non riuscivano a entrarci perché le dimensioni erano tarate sulle spalle vietnamite, e per usarli bisognava essere altrettanto minuscoli e rapidi. Dal modo un po’ sadico in cui l’addetto alla visita turistica ti spinge dentro invitando a mantenere la calma, a metterti obliquo, a non scivolare nel panico, capisco che dedicherò i prossimi sforzi a tornare qui con una comitiva di statunitensi in cui ci sia almeno un ex-marine. Pare che ogni anno ne vengano un mucchio. Lo sguardo di esortazione è un po’ seccato, negli occhi a mandorla mediterranei e sbrigativi. Intuisco che è necessario vedere tutto questo sulla faccia di un testimone in carne ed ossa. Una persona, mica un oggetto o un’arma andata a male. Forse basterà mettersi lungo la linea retta tra i due sguardi, il giovane vietnamita addetto ai brividi di guerra e il vecchio G.I. tornato per pagare omaggio alla sua memoria: lì, sospeso, nell’aria, chissà, la guerra sarà successa davvero.

 La foto è di Gianluigi Ricuperati

                                                                                              (3 – fine)

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