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Wim Wenders e i luoghi della terra

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di Manuela Teatini

“Io amo le città, ma a volte è necessario lasciarle, osservarle da lontano per capirne i pregi..”. E’ questo uno dei temi di riflessione sulla civiltà urbana di uno dei più interessanti registi della nostra epoca. Per Wim Wenders l’antitesi delle città sono i deserti e le terre disabitate che offrono la possibilità di osservare con distacco più lucido le forme di urbanizzazione. L’autore di film culto come “Lo stato delle cose” e “Il cielo sopra Berlino”, ha viaggiato a lungo  con spirito di nomadismo, raccogliendo  immagini fotografiche in giro per il mondo.
Ora una bellissima mostra Wim Wenders. Immagini dal pianeta  terra  alle Scuderie del Quirinale di Roma (dal 14 luglio al 27 agosto 2006), permette di  ripercorrere il viaggio fotografico iniziato nel 1983 da Wenders. Il regista trascorse  vari mesi alla ricerca del colore e della luce del West americano per il film Paris, Texas e da allora ha continuato la sua ricerca attraverso la preparazione di molti altri film come Fino alla fine del mondo, Tokyo-Ga e Buena Vista Social Club. La cosa eccezionale di questa mostra è che per la prima volta in assoluto viene presentata l’intera collezione di 61 fotografie del regista tedesco, mentre in precedenza ne erano state esposte solo una  selezione  in alcune mostre personali  all’Hamburger Bahnhof di Berlino, al Guggenheim di Bilbao e in altre sedi all’estero. Sono immagini emozionanti che avvolgono e scardinano la visione dello spettatore, quasi tutte frontali e neutre, di grande formato – a volte superano i quattro metri di lunghezza – grazie  all’uso di macchine panoramiche che consentono visuali orizzontali di deserti e montagne.
Mondi quasi privi di presenza umana come il deserto del West australiano, profondi scorci aerei da capogiro, luoghi sacri e silenziosi come la ieratica Bamboo Forest   a Nara in Giappone,  cimiteri di macchine  come quello  a Coober  Pedy  in Australia. E inoltre  facciate di strade, di periferie malinconiche e surreali  come in Street Front in Butte,  immagine frontale – di quasi due metri per  quattro e mezzo – di un caseggiato d’epoca con vecchie insegne pubblicitarie  con un taglio di luce che è un omaggio ai dipinti di  Edward Hopper , considearato da Wenders  uno dei creatori  di immagini per eccellenza. Mentre all’inizio per il regista  il fotografare era una specie di diario visivo per trovare le location e realizzare i film, a partire da un certo punto è diventato una forma di espressione in sé. In Australia girando nell’Outback  sconfinato, Wenders ha cominciato a usare una Art Panorama, macchina giapponese di medio formato che garantisce un’ ottima profondità di campo e un’alta risoluzione.  Conseguentemente i risultati sono state immagini stupefacenti di  panorami immensi che sovrastano l’occhio dello spettatore come le bellissime foto nel Bungle Bungles (1988) del sud dell’Australia. La mostra  si snoda  in varie sale su due piani e porta da un luogo all’altro del pianeta Terra: dal Texas al Montana, dal Giappone a  Israele, dall’Havana a Berlino fino alla cittadina di Butte, soffermandosi sul silenzio delle macerie di Ground Zero a New York.
Wenders si considera un fotografo di luoghi e così si esprime nel presentare il suo fantastico lavoro: “I luoghi hanno memoria. Ricordano tutto. Il ricordo è inciso sulla pietra. E’ più profondo delle acque più profonde. E’ come sabbia delle dune che si sposta di continuo.” A questo proposito gli abbiamo posto alcune domande alla vigilia dell’inaugurazione della sua mostra.

Quali sono in questa esposizione a Roma le foto che  ritiene più importanti e perché hanno un grande significato ?

“Le fotografie che ho scattato a  Ground Zero sono molto importanti per me. E’ la prima volta che vengono mostrate in un museo. Le ho fatte sei settimane dopo l’attacco dell’11 settembre.  Il suolo fumava ancora e l’odore era veramente terribile. Tutte le persone che lavoravano lì, i pompieri, i poliziotti e le squadre addette ai recuperi che rimuovevano tutti i detriti già da settimane, indossavano delle maschere. Ogni lavoro si svolgeva nel silenzio più totale. La gente semplicemente non parlava per rispetto della morte e in preda a un profondo sgomento davanti all’indescrivibile che era accaduto lì.”

Come è riuscito ad accedere a Ground Zero?

“Subito dopo la catastrofe, i fotografi  sono stati  per un lungo periodo tenuti lontani dalla zona. Io ho potuto scattare queste fotografie grazie al grande fotografo americano  Joel Meyerowitz. Lui aveva ottenuto  un pass per Ground Zero come  “Mayor’s Official  Photographer”. Sentiva l’urgenza che ogni singola giornata dei lavori fosse documentata.  Ed ecco come ci è riuscito: ha fatto una copia per me del suo permesso e mi ha fatto entrare come suo assistente. Per alcune ore abbiamo camminato lì intorno insieme scattando le immagini. Era una giornata d’autunno con una luminosità incredibile molto bella.  E poi ,  per pochi attimi, è successo qualcosa di stupefacente. Era una cosa così magnifica che persino alcuni degli operai più duri hanno alzato la testa  fissando lo sguardo sull’apparizione. Il sole si rifletteva su uno dei grattacieli vicini, in questo modo duplicandosi . All’improvviso c’era un secondo sole che splendeva dritto dentro a quell’inferno, spargendovi  i raggi di luce più splendidi. Era come se il luogo stesso stesse cercando di dirci: “Guardate ! Anche qui è possibile guarire ! Anche qui la bellezza è possibile ! Anche qui il tempo curerà questa terribile ferita !” Io ero completamente sopraffatto  e sono riuscito solo a scattare alcune foto prima che il miraggio scomparisse.”

Quando  scatta delle fotografie  si sente parte  di un  flusso naturale oppure cerca  consapevolmente  una composizione e una struttura ?

“L’uno non esclude l’altro. Quando  sono davvero dentro un posto e mi ci immergo completamente, in modo che le immagini quasi sgorghino da sole, ho ancora un chiaro senso di inquadratura, di composizione, di equilibrio. Al contrario, quel senso di  forma e struttura, non è mai così acuto e incisivo come quando sono completamente travolto e quasi dimentico me stesso. In quella situazione di auto-abbandono, quando penseresti che non ci sia rimasto proprio nessun controllo,  qualcosa nel mio  subconscio rimane  in completo comando di ogni scelta e di ogni atto  selettivo.”

Quali sono i fotografi  internazionali che considera maggiormente  influenti o vicini al suo lavoro sulla fotografia? Mi sembra che una volta  abbia citato anche Luigi Ghirri,  vero?

“Sì, Luigi era un grande fotografo molto originale. Ho  già  parlato di  Meyerowitz.  Ammiro il lavoro di Steven Shore o di Joel Sternfeld. Il più grande fotografo vivente penso sia Sebastiao Salgado. Sono anche molto colpito dal lavoro di alcuni miei colleghi tedeschi, come Andreas Gurski, o Thomas Struth. I miei eroi del passato sono August Sander e Walker Evans. Ma devo dire che non ho imparato molto dalla storia della fotografia per le mie fotografie. Sono molto più influenzato dalla pittura, e ho imparato  più  cose da Vermeer, Rembrandt, Kaspar  David  Friedrich o da Edward Hopper che da qualsiasi  fotografo.”

Ha in mente un progetto di fotografia che non ha ancora realizzato?

“Certamente,  Sto per iniziarlo e sto facendo  i primi passi per realizzarlo. Ma ancora non ne posso parlare..”

A luglio sarà anche festeggiato ospite  a Reggio Emilia al  Festival Ost di musica e cinema. Quali sono i musicisti e gli artisti  rock che le “hanno salvato la vita”? E in che modo?

“Non so chi sarei diventato senza il Blues e il Rock’n Roll, senza Gene Vincent, Van Morrison, Bob Dylan, Lou Reed, Marianne Faithful, Gene Clark, Tom Waits, Patti Smith e tutti gli altri. Certamente non sarei diventato un cineasta.. La musica mi ha sempre ispirato più di qualsiasi altra cosa. Ascolto  la musica ad alto volume quando scrivo, per esempio. Mi aiuta a  pensare e a vedere qualcosa di fronte al mio occhio interiore. Nell’intero processo di realizzare un film, quel istante in cui le immagini e la colonna sonora si incontrano per la prima volta, è il più elettrizzante per me. E’ il momento di incoronamento che compensa tutte le avversità, le sofferenze e la pazienza che tanto spesso contrassegnano il  percorso di un film.
 
La mostra  fotografica, curata da Heiner Bastian con il coordinamento artistico di Nicoletta Billi (catalogo pubblicato da Contrasto), fa parte dell’Estate Romana 2006 ed è accompagnata da una  rassegna di cinema sulla Terrazza delle Scuderie  “Wim Wenders e gli amici americani” a cura di Stefano Della Casa.

[pubblicato su Hot contemporary magazine, numero luglio/agosto 2006]

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34 Commenti

  1. “I luoghi hanno memoria. Ricordano tutto. Il ricordo è inciso sulla pietra. E’ più profondo delle acque più profonde. E’ come sabbia delle dune che si sposta di continuo.”

    E’ così profondo, Wenders!

    Comunque son d’accordo, è miglior fotografo che regista, almeno le cose che fotografa sono ferme e non ha il problema di dirigere gli attori.

  2. Anche in Der Himmel Ueber Berlin l’ambniente a volte era molto più importante delle singole persone, che si muovevano inconsapevolmente nella città sotto lo sguardo degli angeli

  3. Beh, che sia migliore come fotografo che come regista non è un gran complimento. Conosco bene l’ambiente della fotografia (e per studio e per frequentazioni e per professione), e posso dire con rinomata tranquillità che il nostro non rappresenta nulla di prossimo a qualcosa di interessante. Molto legato a una certa fotografia dei Settanta, a stilemi passati, vecchi, stantii.
    Per quanto riguarda il cinema, meglio lasciare perdere: da molti anni si studia Wenders come fenomeno da comprendere per non incappare ancora in una delle sopravvalutazioni più importanti del cinema europeo.

  4. Sì, il movie è il suo violon d’Ingres.

    Quand’ero giovane per un certo numero d’anni è stato il mio regista d’elezione, poi ha cominciato ad annoiarmi enormemente, poi trent’anni dopo l’uscita ho rivisto In der Lauf der Zeit e mi sono chiesta come ero riuscita a trovarci qualcosa che non fosse una lentezza peggio che handkiana.

    Ha interpretato lo Zeitgeist di una certa parte della sua generazione. Per quanto amasse l’America non certo di quella parte della sua generazione che amava a sua volta l’America, anzi, ha avuto più potere su un certo tipo di giovani intellettuali europei. Gli altri lo hanno seguito a ruota in un moto di imitazione abbastanza acritico.

    Poi c’è stato il gran risveglio, sì, è stato come una gigantesca canna, finché è durata:–))

    Non ho più rivisto un altro suo film che allora ho amato moltissimo Lightening on the water, il film su Man Ray, con la morte di Ray in diretta (patetico, direi ora) e la messa in scena di Una relazione per un’ Accademia di Kafka.

    A dire la verità non ho più “osato” vederlo, con le delusioni non è il caso di esagerare:–)

  5. Però Paris, Texas è un bel film, secondo me. Come poteva essere altrimenti, con un genio come Ry Cooder… ;-)

  6. Ah no, Paris,Texas no! Mi ero già svezzata:–)

    OT come fai a mettere i corsivi? E stata come un’apparizione, anzi, visto che siamo in tema misticismo (il nostro lo corteggia, pensa alle andate in chiesa con Antonioni a pregare) un MIRACOLO.

  7. “Sì, Luigi era un grande fotografo molto originale. Ho già parlato di Meyerowitz. Ammiro il lavoro di StePHEen Shore o di Joel Sternfeld. Il più grande fotografo vivente penso sia Sebastiao Salgado. Sono anche molto colpito dal lavoro di alcuni miei colleghi tedeschi, come Andreas Gurski, o Thomas Struth. I miei eroi del passato sono August Sander e Walker Evans.”
    I miei colleghi tedeschi????? Vabbé.
    Ma poi che cosa c’entra Shore che attenua ogni potenziale enfasi della luce sull’oggetto con il più retorico dei fotografi, Sebastiao Salgado (che non a caso piace molto al lettore medio di quotidiani italiani e suoi allegati, di qualsiasi indirizzo politico)? Li mette lì nella stessa risposta senza rispetto nè per l’uno nè per l’altro.
    Se ti piace Stephen Shore, Sebastiao Salgado non è il più grande fotografo vivente. Se nel definire Salgado il più grande fotografo vivente Wim Wenders intendeva altro e questo altro significa che Salgado è il fotografo più conosciuto e riconosciuto non ho capito niente del suo discorso.
    Riguardo agli stilemi anni ’70, Wenders è nato nel dopoguerra, gli anni settanta li ha vissuti come Shore e Eggleston e Gossage e Baltz e Misrach e Meyerowitz e tanti tanti altri. Diciamo pure che mentre questi e altri fotografi lavoravano moltissimo e crescevano con la propria fotografia Wim Wenders stava facendo alcuni buoni film (Lo stato delle cose, Alice nelle città, Falso movimento, l’ Amico americano ecc.)
    Poi Wim Wenders ha smesso di fare film e ha cominciato a fare dei video costosi con colonna musicale, questo è il mio parere.

    “Ma devo dire che non ho imparato molto dalla storia della fotografia per le mie fotografie. Sono molto più influenzato dalla pittura, e ho imparato più cose da Vermeer, Rembrandt, Kaspar David Friedrich o da Edward Hopper che da qualsiasi fotografo”.
    Ah sì perché invece i fotografi (anche quelli citati da lui) hanno guardato l’album di famiglia o al massimo altri fotografi e poi sono scappati di casa, fuori subito a far scattare la macchina fotografica.
    Saluti,
    Sabrina Ragucci

  8. Povero Wenders, lo stiamo distruggendo.

    Troppo Zeitgeist e troppo successo sono una miscela mortale.

    Ma sono d’accordo con Sabrina Ragucci. Pur non sapendo io quasi niente di fotografia, qualcosa di Wenders so e credo che citare Salgado da parte sua non sia solo una banalità o una cosa facile, credo che in realtà Wenders non sia mai stato “sottile”, ha una certa ingenuità e la sua ingenuità sfiora il senso comune. In questo senso riferirsi a Salgado vuol dire coincidere ed essere in sintonia col senso comune, riconoscerglielo. Salgado è popolare, il popolare è ben presente a Wenders, lo cerca, ci crede, e per un pugno d’anni lo ha sfiorato, o almeno ha creduto (e noi con lui) di averlo sfiorato. Allora una certa generazione “sembrava” molto più rappresentativa di quanto non fosse poi in realtà, visto che è stata travolta dal tempo senza quasi capire come. E io ammetto di averne fatto parte.

    Stesso discorso si potrebbe fare su Handke. Un succeso rumoroso, ma quanto davvero reale, media a parte?

  9. Ciao, scusate se mi intrometto. Può essere vero tutto ciò che dite di Wenders… Però è la solita critica che gli si fa. Inoltre, be’, sia lui che Handke non è che abbiano fatto chissà che successo… Oddio, tanta popolarità, ma biglietti al cinema e libri venduti pochi. Un po’ come i Velvet Undergorund a suo tempo, tutti ne parlavano e nessuno li ascoltava. Wenders ha fatto delle cose molto pallose, ma altre di originalissime e assai inspirate… ri-cito il Cielo Sopra Berlino. Si possono fare un sacco di critiche a quel film, però se uno si lascia catturare dal mood del film, arriva alla fine che prova un grumo di emozioni… berlinesi nel più profondo senso dell’aggettivo. Ecco perchè è un bravo paesaggista.

  10. @Loris

    Non so dov’eri tu negli anni ’70/’80:–)

    Io, solo di libri tradotti in italiano, di Hadke ne ho tredici, il che visto che gli editori non sono dei benefattori, anche senza sapere i numeri esatti qualche idea me la dà. E i cinema li ricordo pieni, per Wenders, fino al Cielo sopra berlino, dove ho cominciato a sentire una certa insofferenza alle gambe, e con me qualche altro vecchio estimatore.

  11. @Franz

    Ellapeppa!

    Che Franz sei? Se sei fk ricordo una tua poco caritatevole tirata contro Handke, un anno o più fa:–)

    Se sei un altro Franz, credo che la puzza sotto il naso c’entri poco. Sono controreazioni abbastanza comprensibili. La nave oscilla a babordo, poi a tribordo, e poi si stabilizza in un vero giudizio critico, che certo non è il nostro.

    Però ricordo che anni fa, prima del Cinese del dolore, che per me è stato uno scoglio insormontabile, uno mi ha tolto il saluto per colpa di Handke, e non perché lo avessi criticato, ma solo perché ero rimasta perplessa. Questo vuol dire qualcosa, credo.

  12. @Temp.
    No, non sono io quel Franz. Me la ricordo anch’io la tirata contro Handke su Uffenwanken. E contro Wenders, di cui salvo dal macero solo Der amerikanische Freund.

  13. @Franz K

    Infatti ero un po’ sorpresa:–)

    L’amico americano aveva come base il libro dell’americana, in questo momento non mi viene in mente il nome, alzheimer!
    Anche per quello secondo me sta abbastanza in piedi anche adesso.
    Di Alice nelle città mi ricordo ancora, pensa te gli scherzi della memoria, la bambina che accende i fiammiferi in bagno.

    Ma qualcosa è successo anche a noi, alla nostra percezione del tempo cinematografico, del ritmo, altrimenti non si spiegherebbe questo fastidio generalizzato verso film come In der Lauf der Zeit. C’è stata un’accelerata che ha lasciato a riva parecchi relitti.

  14. @Temp.
    Patricia “Alzheimer” Highsmith:-)

    A me Wenders ha quasi sempre fatto l’effetto di Bertolucci, di cui salvo solo Novecento. Tempo fa ho rivisto Ultimo tango, veramente un film brutto, ridicolo, invecchiato malissimo, con quel Jean-Pierre Léaud truffauldino da impallinare alla prima inquadratura. Da salvare: il cappotto di Brando, d cui avevo una copia conforme negli anni 80:-)
    Come ha scritto Ciaruffoli, per W.W. si tratta di uno dei registi più sopravvalutati della storia. E poi andrebbe sbattuto in galera per circonvenzione d’incapace nei confronti del povero Antonioni, col quale ha girato il più brutto film degli anni 90, la megaporcata “Al di là delle nuvole”.

  15. @ Temperanza:

    Nel ’79 nascevo quindi i cinema si suono svotati prima che potessi entrarci io ;) scherzi a parte, a me nessuno dei due mi sembra che sia un tormentone blockbuster. Però non mi interessa star qui a sindacare sui numeri, il succo di ciò che volevo dire è che sono due figure facilmente criticabili ma anche molto creative. bye

  16. Non ho mai molto amato W.W. però rispetto alcuni suoi percorsi cine-visivi (rispettare non è amare, ovviamente). E, vi dirò, Buena Vista Social Club mi ha commosso. Ma io sono un sentimentalone, non faccio testo.

  17. Sulla lentezza: sì, molto cinema europeo, quello più dottrinale e ideologico, è invecchiato malissimo. E comunque tutto l’immaginario ha preso una acelerazione che sembra immobilizzare il cinema di 30 anni fa. Ma è vero anche che molto cinema di “genere”, invece, resiste benissimo al tempo. Da meditarci sopra… (ora non posso)

  18. @Biondillo

    E’ vero, il genere resiste meglio, che sia perché è migliore o perché noi siamo peggiorati e non siamo più capaci di attenzione “lenta” però non so:–))

    @Franz

    Giusto, la Highsmith, certo che peggioro di secondo in secondo.

    Quanto ad Antonioni non sono d’accordo, la circonvenzione è stata del vecchio nei confronti del giovane. WW ha accettato di fare il film perché l’assicurazione desse l’ok. E si è sorbito i suoi capricci, accettando di fare la cornice mentre Antonioni faceva il quadro, no, dopo aver letto il diario di lavoro penso che WW sia stato la vittima di A. Con gran garbo ed enorme pazienza. Quanto ai risultati, bè, meglio tacere

  19. @Temp, grazie per l’informazione, ero convinto che la vittima fosse il vecchiaccio. Comunque, lasciamelo dire, sempre di circonvenzione d’incapace si tratta:-)

    @Gianni.
    Si, d’accordo, Buena Vista è un buon documentario, così come Lisbon Story è un film molto piacevole, da vedere con la fidanzata quando lei ha le sue cose:-)

  20. A me Wenders ha sempre fatto dormire, quasi come Bunuel e i cineforum dei tempi del liceo. Per fortuna, almeno ai tempi del liceo, c’era la Licia a tenermi compagnia…

    Per la verità non mi entusiasmano nemmeno le fotografie: sembrano fatte da me e io non son buono a fare fotografie. Esattamente come non son buono a fare tante altre cose: per esempio commentare in modo politicamente corretto e secondo le aspettative corretto :-)

    Buona serata. Trespolo.

  21. Wenders disce:
    “…ho imparato più cose da Vermeer, Rembrandt, Kaspar David Friedrich o da Edward Hopper che da qualsiasi fotografo.”
    Tutti gli artisti citati sono particolarmente interessati alla luce, a un certo tipo di luce.
    Wim ha uno sguardo estatico di fronte al paesaggio americano, soprattutto, del quale coglie (non ho ancora visto questa mostra) bene ciò che di solito colpisce un europeo-con-occhi: la diversa modalità nelle dimensioni, nelle funzioni e nella disposizione degli oggetti nello spazio.
    Le foto americane di Jean Baudrillard sono simili a quelle di Wim e, come quelle di Wim, sono un po’ s-date, cioè un po’ facili e ripetitive, e però belle (come quelle di Wim).
    Fotografare l’America alla maniera di Wenders è un po’ come fotografare Venezia alla maniera di Roiter: non capisci se ti piace il soggetto o la foto o tutt’eddue.
    Però, sono curioso di vedere queste stampe larghe quattro metri, fatte con la macchina panoramica.
    La questione del paesaggio americano e dell’effetto che ci fa da decenni – al punto che è diventato un’icona a sé, una specie di luogo comune forte dell’iconosfera planetaria – come di straniamento et metafisicizzazione e di sogno è ormai, oltre che complicata, storica.
    Quello di Wenders, se non ricordo male, è paesaggio più o meno antropizzato e non-naturale, o non del tutto.
    In questo il riferimento ad Hopper è centrale, oltre che esplicitamente dichiarato.
    È Hopper che per primo capisce la poesia di una pompa di benzina sotto la lusce radente della prateria, o comunque di un paesaggio aperto per definizione, come quello americano.
    Wenders prende da Hopper, (come anche da Vermeer, Rembrandt, Friedrich e probabilmente dal non citato Andrew Wyeth, che sicuramente conosce e adora) il gusto drammatico per la luce obliqua, crepuscolare e radente, quella che delinea meglio gli oggetti, come volumi nello spazio e ne proietta le ombre lunghe e nere.
    Insomma Wenders è un, appunto, un artista crepuscolare in senso proprio e letterale.
    Nell’ultimo film la sua massima pre-occupazione è di tipo visivo, è per gli ambienti iper-americani dove ambienta la solita vicenda di sperdimento nomadico, esistenziale et nostalgico, eccetera e la cosa più interessante, anche se anch’essa molto vista, sono proprio le immagini con le quali è costruito.
    Quello che in fondo mi colpisce è la convenzionalità insistita in questa visione manierista del paesaggio americano – di Wim come di Baudrillard, come del Primo Jarmusch e di molti, molti, altri, Antonioni compreso, Antonioni soprattutto (Wenders è il più antonioniano dei registi della sua generazione) –: quello che ci propongono è la visione di una visione di una visione, che rimbalza dalla pittura alla scrittura alla fotografia al cinema, di qua e di là dell’oceano, innamorata della fissità del nulla.

  22. Toglietemi dalle palle questo Pynchon o giuro che faccio una strage! Chiamo Alain, Jean-Paul e, mi voglio rovinare, anche Jean!
    Allez!!!

  23. @temperanza
    Io, solo di libri tradotti in italiano, di Hadke ne ho tredici..

    Cavolo! sei poi riuscita ad uscire da questo tunnel?
    ; )

  24. @ tash

    Grazie. I neuroni cominciano a scollegarsi.
    In compenso la tecnica non mi ha abbandonato:)))).
    Salvo la nuova tastiera dove al posto della w c’e la z e molto altro ancora che mi sta facendo andare fuori di testa.

    @bztbea

    come vedi sì, persino troppo.–)

    @tash più seriamente

    “Insomma Wenders è un, appunto, un artista crepuscolare in senso proprio e letterale.”

    Sono d’accordo.

    meno d’accordo sul fatto che tu metta al centro del problema il modello americano. Naturalmente hai ragione, i riferimenti li dà lui per primo, ma non dimenticare che uno dei suoi sceneggiatori d’elezione è Handke, il contrario del modello americano, anzi, cacanico che più non si può.
    E il paesaggio di In der lauf der Zeit è altrettanto iconico (e profondamente tedesco). Dunque direi di non sopravvalutare l’America, che è ciò che più si vede, ma non ciò che ha maggior senso profondo.

  25. ma non parlavo del primo wenders.
    ma solo al wenders post L’amico americano (Der amiken americanen), quello che a un certo punto afferma testualmente che “l’America ci ha colonizzato l’inconscio”.
    a partire da questa affermazione, molto sincera secondo me, si può capire un po’ meglio tutto il Wenders successivo.
    curioso che poi questa passione americana non lo metta in grado di produrre opere convincenti e che i suoi film migliori seguiti poi a farli in Europa (come il primo tempo di Angeli sopra berlino, per dire).
    curioso che poi, vivendo negli States e girando film in loco, resti per così dire fedele ad un’immagine dell’America sostanzialmente cinematrografica e da esportazione.
    c’è da dire che chiunque sia stato lì anche per poco sa che l’America si esporta a se stessa.
    cioè che il mito americano è principalmente ad uso interno.

  26. @ tash

    non è così semplice.

    due date:

    1972 – “La paura del portiere davanti al calcio di rigore”, da un racconto di Handke, e non ricordo, ma credo di sì, anche con sceneggiatura in coppia)

    1975 – “Falso movimento”, da un racconto di Handke ecc.

    1987 – “”, dialoghi di Handke

    1998 – “City of angels” con Handke

    Con Handke che tra l’altro è regista in proprio, dunque anche con uno “sguardo” e mi par strano che Wenders non sappia che assieme alla sceneggiatura e ai dialoghi Handke si porta dietro anche il suo sguardo.

    In ogni caso, non c’è un prima e un dopo “L’amico americano”, c’è a mio avviso una cointaminazione continua e un forte inprinting originario tedesco.
    Certo, la Germania è sostanziosamente americanizzata, da un certo punto di vista, ma a mio parere solo in superficie, e Wenders condivide questa contaminazione visibile, molto raccontata, ma in fondo parziale.

    E infatti tu ti chiedi a ragione:

    “curioso che poi questa passione americana non lo metta in grado di produrre opere convincenti e che i suoi film migliori seguiti poi a farli in Europa”

    E la risposta, sempre a mio modesto avviso, è che l’innesto americano è superficiale, “esotico” e che lui funziona meglio, come tutti, quando è profondamemte se stesso, anche rischiando il tracollo dei pubblico e persino quello economico.

  27. Secondo me, W.Wenders avrebbe dovuto fermarsi al meraviglioso “PARIS TEXAS”.
    Al limite, “Il cielo sopra Berlino”.

  28. “Two cars and a waiting woman”.

    Quest’immagine – quella foto, di Wenders (come altri suoi lavori, non solo di cinema) – a me dice questo: che quella donna grassoccia in tailleur è stata sconfitta; ma non perché non si sia battuta: è stata anzi sconfitta proprio perché si è battuta credendo di essere ad armi pari con la civiltà delle macchine, la cultura della meccanizzazione… E’ lì, ferma a testa rassegnata alla linea di traguardo/partenza (è lo stesso, dato che è già tutto predeciso/programmato in -questo- nostro mostro-‘mondo’) di uno stop/precedenza esistenziale da cui non c’è uscita, in una strada come infinte altre che vanno verso il tramonto e che solo un numero ‘distingue’… Ecco, a me quell’immagine dice anzi dà tutto questo: la donna, l’ultima (forse) depositaria di una dignità -umana-, di quello che un tempo si chiamava scrigno della vita, è piegata (letteralmente) al potere ‘maschile’ (attenzione, attenzione a questi apici però!) di una ccietà che le impone di gareggiare, di guerreggiare ‘alla pari’ per vincere una lotta alla sopravvivenza il cui esito profondo non dipende da vittoria o sconfitta, perché è già perso in partenza tutto: l’essere umano, e la sua stessa essenza/madre in primissima battuta… Che cosa dunque aspetta, si aspetta – da sé, dall’uomo, dall’Uomo, questa Donna: il femminile?…

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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